Peana ad Arafat e un paragone insostenibile Benardo Valli, Sandro Viola e Leonardo Coen gareggiano in scorrettezza
Testata: La Repubblica Data: 10 novembre 2004 Pagina: 1 Autore: Bernardo Valli - Sandro Viola - Leonardo Coen Titolo: «Nel silenzio di Gerusalemme, aspettando la fine del " padre"»
La coppia degli inseparabili, Sandro Viola e Bernardo Valli, si ricompatta e ricompare ogni qual volta vi sia motivo di osannare Arafat e, magari, deprecare Sharon.Indirettamente ne ha dato prova proprio Viola anche nell' edizione di Repubblica del 9 novembre (vedi "Gli antisemiti progressisti? Non esistono, spiega Sandro Viola, IC 9-11-04), quando ha recensito o meglio chiosato un libro sul supposto pregiudizio anti-israeliano dell' inglese Guardian,piegandolo alle proprie esigenze: e nel farlo aveva associato proprio Valli a sé stesso, lamentandosi per il fatto che entrambi erano ingiustamente accusati da qualche cattivone di soffrire del medesimo pregiudizio. Valli nel suo articolo non se la prende con Sharon o con Israele, ma esalta la figura del morto/morente Arafat glorificandolo con una pagina densa di lacrimevole cronaca.Nuovamente, come già abbiamo avuto modo di notare, non una sola parola indica che esista anche un diverso aspetto di Arafat, che lo colloca fra i terroristi e non fra i grandi del nostro tempo.E, nuovamente, le fotografie sono eloquenti come e più delle parole. Nella recensione di Viola del 9 novembre le uniche fotografie illustravano aspetti in cui Israele poteva essere percepito come potenza militarista ed oppressiva (l' esercito israeliano che nel corso di una guerra monta la guardia ad un gruppo di prigionieri egiziani sdraiati nella sabbia, un tank israeliano fronteggiato da un ragazzino con la fionda, un' icona classica oramai di questa squallida propaganda); nel peana di Valli vediamo invece Arafat che stringe la mano a Rabin e che va in pellegrinaggio alla Mecca, che saluta felice al suo rientro in Palestina dall' esilio di Tunisi, che si atteggia a guerrigliero on messo ai suoi miliziani: oggi come ieri come sempre sono assenti le vittime. Ma non basta.Di Arafat, Valli scrive che il suo funerale "sarà anche quello di tante speranze": avete letto bene, non sarà la fine di tanti orrori, di tanti errori, di tante ruberie commesse a danno del suo popolo, ma di speranze. Quali, di grazia? Casomai, non sarà il funerale ma la data di nascita delle speranze che potranno realmente essere appagate dai suoi successori: di pace, di benessere, di dignità e di giustizia. E prosegue, il cantore di Arafat: lui era, scrive, "il troppo esclusivo depositario ed amministratore" di un tesoro. Come se fosse stato un amministratore onesto ed oculato, e solamente troppo solitario. Per fortuna nella pagine a fianco Leonardo Coen ci racconta la vera storia di quel tesoro, che Arafat ha accumulato rubando le donazioni che gli arrivavano per il suo popolo, comperando per sé azioni e partecipazioni della Coca Cola, dei cementifici che hanno venduto ad Israele il cemento per costruire il famoso pezzo di "muro", del petrolio che avrebbe dovuto servire per dare benessere al suo popolo...Un tesoro che ora i dirigenti palestinesi hanno dovuto in parte cedere alla moglie/vedova Suha, per convincerla a farlo finalmente morire in pace: un appannaggio mensile di 1,8 milioni di dollari, che le serviranno per far studiare la figlia e mantenere il suo abituale standard di vita nell' appartamentino di Faubourg St. Honoré e nella suite dell' Hotel di lusso Bristol. Valli conclude le sue riflessioni con una frase di grande effetto: "La grandezza di una tragedia (la morte di Arafat) può scadere in una cronaca scandalistica se non è rappresentata con dignità: nel finale l' agonia di Arafat ha recuperato tutta la sua intensità...".No, non è stata una cronaca scandalistica quella che ha accompagnato l' agonia di Arafat, come ci vorrebbe far credere Valli: è stata una farsa grottesca e scandalosa, che ha finalmente rivelato la bassezza di sua moglie ma anche l' abominio del suo lungo regno da avido e spietato dittatorello; e tutto ciò non per opera di Israele, ma del suo stesso clan. Nella pagina a fianco, Leonardo Coen ("Israele tra paura e festa aspettando la fine del Rais") fa del suo meglio per non uscire sminuito dal confronto con Valli, ma il meglio che gli riesce è di desolante squallore: il fatto che qualche esponente della destra oltranzista israeliana abbia offerto dolci per manifestare la gioia della dipartita di Arafat è per Coen un gesto identico alla gioia che sistematicamente la popolazione palestinese manifestava ogni volta che un terrorista assassinava degli israeliani, possibilmente mamme e bambini, e che i palestinesi hanno manifestata anche, aggiungiamo noi, quando Bin Laden ha ucciso tremila persone nelle Torri Gemelle di New York.
Ecco l'articolo di Valli: «Nel silenzio di Gerusalemme, aspettando la fine del "padre" » La storia voltava pagina mentre il buio stava cancellando la Torre di David e la vicina Porta di Jaffa, le cui sagome spezzano la geometrica linea delle vecchie mura, al di là della stretta valle appena illuminata sotto la mia finestra. Nell´attesa della morte di Yasser Arafat era come se Gerusalemme, sul punto di immergersi nella notte, trattenesse il respiro. Era ormai chiaro quel che per giorni era apparso confuso, contraddittorio, persino insultante, perché ridotto a una telenovela: il raìs stava spirando sul serio nell´ospedale parigino. «È nelle mani di Dio», aveva detto poco prima Nabil Shaat, il ministro degli esteri. E a Ramallah, alla Mukata, la residenza - prigione di Arafat, cominciavano i preparativi per i funerali. Un musulmano deve essere sepolto presto, entro ventiquattro ore, se possibile, e non c´era troppo tempo da perdere. Abu Mazen, numero 2 dell´Olp e adesso il più autorevole tra i successori, e Abu Ala, il primo ministro, partiti in missione a Parigi, stavano rientrando di gran fretta. Il loro posto è più che mai in Palestina, dove la salma del raìs dovrebbe essere accolta da una folla simile, per la grandezza non per l´entusiasmo, a quella che nel 1994 si riversò per le strade di Gaza, per acclamarlo, quando rientrò dal lungo esilio. Non sarà à soltanto il suo funerale: sarà anche quello di tante speranze. E al tempo stesso sarà l´occasione per esprimere una volontà tutt´altro che defunta. Per questo l´appuntamento funebre è atteso con apprensione. Tanti sono i soldati e i poliziotti in cui ci si imbatte a Gerusalemme. Nella notte, da un istante all´altro, poteva arrivare la notizia della morte. Nessuno si faceva più illusioni. I medici sarebbero riusciti difficilmente a circoscrivere l´emorragia cerebrale intervenuta nelle ultime ore. Raffreddate o sommerse dai timori e dallo smarrimento per le tante indiscrezioni sul conteso "tesoro di Arafat", che è poi quello della Palestina di cui lui era il troppo esclusivo depositario e amministratore, le emozioni riaffioravano con un´intensità pronta ad esplodere. Nel piccolo ristorante alla Porta di Damasco, i vecchi conoscenti che da anni mi aiutano a misurare gli umori della città, quando li ho raggiunti stavano consumando la cena, dopo il digiuno diurno del ramadan. Erano silenziosi, poco disponibili a una conversazione, per di più con uno straniero che compare ogni tanto, quando accade qualcosa di grave, e scompare subito come un fantasma. Un ingegnere, con una vita alle spalle trascorsa nel Kuwait, dove conobbe il giovane Arafat, pure lui ingegnere, mi ha detto che stava morendo «al-Walit». Il padre, ma non un padre comune: il padre fondatore. Fondatore di che cosa? Di un´identità, di un progetto, poiché la Palestina come Stato non esiste ancora? Arafat ha imposto l´idea ai palestinesi e al mondo, ma non l´ha realizzata. Non ce l´ha fatta. Questo il succo della realistica risposta ai miei interrogativi. Ed io ho avuto la pretesa di vedervi come una riserva nei confronti del padre fondatore morente. Qualcosa di simile a un rimprovero. Sia pure commosso. Quando un genitore se ne va negli orfani si accendono spesso sentimenti contrastanti. Il dolore non è sempre totale. È spesso accompagnato da un desiderio di emancipazione. L´autorità di Arafat durava da quarant´anni. Non si è parlato di questo nel ristorante della Porta di Damasco. Non era il momento. La conversazione è proseguita sottovoce, evitando i problemi troppo seri, come accade a coloro che vegliano nella stanza accanto a quella in cui sta morendo il congiunto. Nelle ultime ore si è dissipata la dissacrante atmosfera creata dalla civiltà - spettacolo, abilissima nello sceneggiare il mistero della malattia di Arafat (in verità ancora senza una diagnosi precisa) e le crisi isteriche della moglie preoccupata per l´eredità e desiderosa di vendicarsi degli affronti subiti (come sposa impopolare, sgradita del raìs). Ed è prevalso il crudo dramma di una agonia vissuta in modo diverso, opposto, da due popoli che si odiano e si contendono la stessa scarsa terra. Da un lato si tratteneva un sospiro di sollievo; dall´altro un sospiro di sofferenza. Quest´ultima accompagnata da tante ombre (per le voci su possibili veleni); e da tanti sospetti alimentati da un´immaginazione popolare sensibile ai miti e alle menzogne, ma più volte superata, umiliata dalla realtà. Che su questa terra spesso sorpassa la fantasia più nera. La grandezza di una tragedia può scadere in una cronaca scandalistica se non è rappresentata con dignità: nel finale l´agonia di Arafat ha recuperato tutta la sua intensità, mettendo in rilievo i due sentimenti opposti che l´accompagnavano. Mentre le notizie senza speranza arrivavano dall´ospedale parigino, la città israeliana, che si arrampica decisa sulle alture e si distende con altrettanta fermezza nella pianura, verso Gerico e il Mar Morto, si sentiva via via liberata da un incubo. "Vada al più presto all´inferno" c´era scritto su un muro, in un vicolo vicino alla centralissima via Ben Yuda, cuore della Gerusalemme ebraica. Tuttavia, a parte i sentimenti e qualche scarabocchio, Israele ha osservato un dignitoso silenzio. Perlomeno sul piano ufficiale. Nei cuori è un´altra cosa. Uri Avneri, lo scrittore, non è il solo a sostenere che non c´è in Israele un uomo più odiato di Arafat. «È come se un secolo di rancori e di paure si fossero riversati nell´atteggiamento verso quell´unica persona. Lo hanno indicato come un Hitler arabo, un terrorista assetato di sangue, corrotto, inaffidabile, maniaco sessuale, bugiardo, vigliacco...». Danny Rubinstein, suo biografo (molto intelligente ma non troppo indulgente) dice che Arafat ha funzionato come collante per la società israeliana, sciogliendo al suo interno tensioni sociali, economiche, etniche e culturali. A volte, aggiunge Rubinstein, la demonizzazione dell´avversario diventa una necessità, una muraglia difensiva, costruita con stereotipi e miti. Creando e imponendo l´identità palestinese, Arafat ha intaccato il grande e quasi indiscusso prestigio che aveva accompagnato nel mondo occidentale i primi decenni di Israele. Questo ha aumentato il rancore nei suoi confronti. Tanto più che a compiere questa impresa era stato un personaggio spesso sgradevole, perfino ridicolo, goffo, agli occhi occidentali. Oltre che inaffidabile, per i suoi continui tentativi di adeguarsi a situazioni diverse imposte dalla congiuntura internazionale, dalla disperazione della sua gente e dalla sua personale incapacità come uomo politico (incapacità contrapposta alla sua straordinaria tenacia nell´incarnare l´identità di un popolo sacrificato da una tragica storia, cui era estraneo). Arafat era un´enigma che gli israeliani non cercavano neppure più di risolvere. L´avevano semplicemente ripudiato. Adesso sta scomparendo. Da qui il sollievo. È come se stesse per dissolversi l´ostacolo più vistoso che impediva di imboccare la strada della salvezza. Aveva dunque tanta importanza Arafat? Se è cosi la sua morte affida un´enorme responsabilità a chi lo considerava responsabile dell´impossibilità di arrivare a un´intesa con i palestinesi. D´ora in poi non ci saranno più scuse. Potrebbe essere l´ora della verità. E quello di Coen: "Israele tra paura e festa aspettando la fine del Raìs" GERUSALEMME - Ore venti. La Città Vecchia è in stato d´assedio. I soliti elicotteri. I soliti posti di blocco, sempre più numerosi, sempre più severi. Settemila poliziotti, guardie di frontiera e vigilanti privati controllano le porte d´ingresso, filtrano la folla, separano musulmani dagli ebrei. Sta cominciando la mistica sera di "al Qadr", quella della "rivelazione", quando Allah fa scendere dal paradiso il libro sacro del Corano e lo consegna al Profeta Maometto: succede, nel calendario islamico, ogni ventisettesimo giorno di Ramadan, il mese più sacro. È anche la sera in cui si aprono le porte del cielo, secondo la tradizione musulmana, e quella in cui viene deciso il destino di ognuno dei credenti per il prossimo anno. Sarebbe la sera ideale per la morte "del profeta della liberazione palestinese", in agonìa a Parigi. Yasser Arafat avrebbe voluto morire ed essere sepolto a Gerusalemme, nella città che considera la capitale del suo popolo disperso. Lo aveva detto al Gran Mufti, quattro mesi fa. Non avrà mai qui la sua tomba, ma i palestinesi stasera salgono al "Santuario Onorato" come avessero obbedito ad un tam-tam collettivo, come se il raìs fosse già idealmente sepolto all´ombra della moschea al-Aqsa. Un pellegrinaggio mesto, quando di solito dovrebbe essere il contrario. La tensione è fortissima. Per questo il servizio d´ordine è stato rafforzato come non mai. La polizia israeliana stima che in cima alla Spianata delle Moschee e tutto attorno nei mercati siano arrivate 180mila persone, e non è una cifra detta a caso, è diecimila volte "chai", ossia diciotto in ebraico, che significa anche "vivo". Un numero molto simbolico. Porta fortuna. Nei matrimoni ebraici gli assegni che si regalano agli sposi sono sempre moltiplicazioni di "chai". Stasera, in fondo, forse inconsciamente, è una stima di rispetto, nei confronti della popolazione palestinese di Gerusalemme che è salita verso l´Haram es-Sharif senza sapere se hanno staccato la spina ai macchinari che tengono in vita Arafat. Ordini superiori: evitare le provocazioni, i commenti, qualsiasi cosa possa offendere i palestinesi. Il grande nemico di Israele se ne va, a Tel Aviv sono comparsi irridenti annunci mortuari in cui si spedisce il "perverso" Arafat all´Inferno, nel supermercato Kfar Saba i clienti hanno festeggiato la notizia sparata dalle radio che avevano annunciato la morte del leader palestinese, ballando di gioia, urlando slogan, brindando alla buona sorte. Come hanno fatto a Gerusalemme gli attivisti di Itamar ben Vir, destra religiosa, che hanno offerto ai passanti vino e caramelle, cantando: «Arafat è morto, Suha è una vedova». Proprio quegli atteggiamenti che erano stati condannati dagli israeliani se a festeggiare la strage di un kamikaze erano gli abitanti di qualche campo profughi in Libano o nella Striscia di Gaza. L´unico ministro che ha fatto sentire la voce - da lontano, da Pechino - è stato il titolare degli Esteri, Silvan Shalom, in una intervista a Radio Gerusalemme, ma ha parlato delle beghe tra Suha e Abu Mazen, a proposito della transizione ai vertici del potere palestinese: «Il presidente Arafat controlla cifre enormi - ha detto, usando accortamente il verbo al presente - le difficoltà del passaggio dei poteri sono legate anche a questa circostanza. Occorre stabilire chi metterà le mani sui soldi. Noi non ci intromettiamo nel dopo-Arafat. Dobbiamo aspettare e sperare che la nuova direzione palestinese lotti contro il terrorismo, realizzi le riforme democratiche e intraprenda infine un dialogo di pace con Israele». Le parole di Shalom sono prudenti, ragionevoli. Esprimono cautamente la linea del governo. Sharon sta alla finestra. Sa, così dicono i commentatori dei giornali radio, che dovrà mutare la sua strategia. Che non potrà più continuare a rifiutare i negoziati. All´ufficio centrale delle Poste di Jaffa Street, mentre si fa la coda, la gente parla, per dire che non sa cosa potrebbe succedere. «C´è un´aria strana - dice una ragazza di pelle scura, una falasha, ebrea originaria dell´Etiopia - Gerusalemme sembra sfinita, stanca, stordita». È curioso. Il traffico ingorga l´ingresso al nuovo tunnel stradale sotterraneo che aggira le mura della Città Vecchia, sbarramenti ovunque, come se ci si aspettasse un assalto. Tutti sanno che sarà una sera speciale, per gli abitanti «dell´altra parte». Tutti sanno che la guerra di successione renderà difficile il dopo Arafat. L´orologiaio di Ben Yehuda che condivide il negozietto con la filatelica signora Ross, si mostra preoccupato: «Pensa che cambierà qualcosa, dopo?». I giornali hanno aumentato le vendite nell´ultima settimana, la Borsa ha guadagnato parecchi punti, lo Shin Bet annuncia che il kamikaze del Carmel Market voleva colpire l´ambasciata francese (ed è una stoccata indiretta a Chirac che si proclama amico dei palestinesi...), il tg della sera rivela che tra mercoledì e giovedì sarà convocato il gabinetto di sicurezza del governo per discutere sulla sepoltura di Arafat a Ramallah e sulla transizione ai vertici dell´Autonomia palestinese. Alla Città Vecchia non succede nulla. Salvo qualche sassaiola - però la polizia tende a minimizzare - alla porta dei Leoni e in quella di Nablus, qualcuno commenta l´iniziativa di due deputati della destra estrema che volevano proporre una legge per impedire il ritorno di Arafat - nel caso fosse guarito - in Palestina, poi non se ne sa più nulla, tutto finisce nel gran calderone di una sfibrante attesa, quella dell´annuncio "finale", perché di una cosa tutti ormai sono più che sicuri: «Arafat è morto, ce lo diranno quando vorranno loro». Lo dice un ebreo? No, uno dei palestinesi che se ne sta rientrando a casa: «Arafat aveva la sua età. Quel che doveva fare lo ha fatto. Tutti, prima o poi, dobbiamo morire». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.