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La Repubblica Rassegna Stampa
09.11.2004 L'Intifada di Sharon: l'invenzione di Gilles Kepel
non certo originale, ma con qualche peggioramento rispetto al luogo comune corrente

Testata: La Repubblica
Data: 09 novembre 2004
Pagina: 1
Autore: Giles Kepel
Titolo: «Un leader nel vuoto»
Il leader nel vuoto è Arafat, ma il vuoto che circonda Arafat parrebbe
quello che riempie il settore del cervello di Gilles Kepel nel quale si
trova, malandata, la memoria.
Già, perché nel contesto di una analisi politica che al 90% corre sui
binari della banalità convenzionale oramai acquisita da tutti i media su
questa vicenda, Kepel fa piombare una sua frase che, anche questa, non è
originale, ma nel senso peggiore del termine: " Sharon, che proprio a lui
(Arafat) doveva la sua vittoria elettorale...aveva deliberatamente provocato
il confronto armato col suo nemico di vecchia data comparendo, il 28
settembre 2000, sulla spianata delle moschee....(Sahron) si proponeva di
espellere Arafat dalla scena mediorientale.Ora, aiutato anche dalle cattive
condizioni di salute del vecchio leader, è riuscito nel suo intento".
Dunque, l' intifada che ha provocato la morte e le orrende mutilazioni di
migliaia di innocenti israeliani non è opera di Arafat, ma di Sharon, che ne
ha deliberatamente, si noti, cercato e provocato l' esplodere.Come? Ma con
la sua "passeggiata" sulla spianata delle moschee, naturalmente!Perché? Ma
per vincere le elezioni, naturalmente!Questo ragionamento perverso è
perfettamente in linea con l' altro ad esso collegato, secondo il quale
Arafat, morendo, non ha fatto che portare a termine il vecchio progetto di
Sharon di liberare la scena mediorientale della sua presenza.
Evidentemente Repubblica teme che possa svanire la sua fama di quotidiano di
disinformazione e di malinformazione, nel momento in cui anche Leonardo Coen
qualche pagina prima descrive i vizi e le colpe di Suha Arafat,
scoperchiando - tu quoque - il pentolone dei miliardi di dollari che Arafat
le ha donato e di cui ancora alcuni come Bernardo Valli ed Igor Man si
ostinano a negare la provenienza e forse l' esistenza.Miliardi di dollari
che noi (NOI: noi che scriviamo queste note e voi che le leggete, con le
nostre tasse) abbiamo donato ai palestinesi per toglierli dagli immondi
campi profughi, per dare loro scuole e fognature ed acquedotti, e che invece
grazie ad Arafat si sono trasformati in gioielli e mance ai camerieri dei
più lussuosi alberghi di Parigi.Ricordate cosa ha scritto Bernardo Valli
solo pochi giorni fa: che Arafat è stato corruttore, ma non corrotto.

Ecco l'articolo:

Nell'ultima foto, scattata prima che lasciasse il suolo palestinese per essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva di un ospedale militare in Francia, Yasser Arafat appare in pigiama azzurro, il volto ornato da una barba bianca e un ampio sorriso, un sorriso già assente. Un´immagine di malattia e di decadenza fisica resa anche più impressionante dal fatto che Arafat era solito presentarsi in ogni circostanza in uniforme militare, con la sua kefiah a quadri. La sorte di quest´uomo che per tutta la vita aveva simboleggiato la causa palestinese appare come un segno emblematico in questa fase estremamente critica del suo percorso. Mentre Arafat lotta contro la morte in un lettino d´ospedale alla periferia di Parigi, l´Intifada al Aqsa, da lui lanciata il 29 settembre 2000 come mezzo di pressione per ottenere dagli israeliani maggiori concessioni nell´ambito del processo di pace di Oslo, fallisce miseramente - dopo che gli islamisti radicali di Hamas se ne erano impossessati per trasformala in una sanguinosa Jihad. Da allora, tutti i calcoli politici di Arafat sono falliti. Sharon, che proprio a lui doveva la sua vittoria elettorale in un paese ansioso di eleggere un leader dal pugno di ferro contro la minaccia dell´Intifada, aveva deliberatamente provocato il confronto armato col suo nemico di vecchia data comparendo, il 28 settembre 2000, sulla spianata delle moschee. Il premier israeliano non aveva alcuna intenzione di impegnarsi in una trattativa post-Oslo, che secondo una convinzione condivisa dal Likud e dai neocon avrebbe messo a repentaglio lo Stato ebraico, ma al contrario si proponeva di espellere Arafat dalla scena mediorientale. Ora, aiutato anche dalle cattive condizioni di salute del vecchio leader, è riuscito nel suo intento. Ma il prezzo pagato da Israele per garantirsi più sicurezza - l´erezione del muro - e dalla Palestina per il fallimento della sua Intifada trasformata in Jihad - un inferno - è ormai una condanna per entrambe le parti, economicamente e politicamente. In Palestina Arafat, isolato tra le rovine della Moqata, il suo quartier generale, era circondato da un vuoto fisico e politico. Nessuno, nella sua generazione, possedeva il carisma di un leader capace di trascendere le conflittualità interne alla società palestinese - tranne forse, in qualche misura, lo sceicco Yasin, che contendeva ad Arafat il suo ruolo incarnazione della resistenza fin dal 2002, quando tra i palestinesi prevaleva l´esaltazione per gli attentati suicidi contro obiettivi civili israeliani, rivelatisi poi un errore fatale per la loro stessa causa. Ma la scorsa primavera un missile israeliano ha posto termine alla vita di Yassin; e la stessa sorte è toccata poche settimane dopo a Rantissi, che gli era succeduto alla testa di Hamas. Ora gli islamisti non hanno più un leader, ma restano, se non altro per la loro capacità di nuocere, una forza con la quale il successore di Arafat, chiunque sia, sarà costretto a fare i conti. Nel solco principale della tradizione di Al Fatah si profilano ora quattro possibili candidati, due della vecchia e due della nuova generazione. Gli anziani sono Mahmud Abbas (Abou Mazen) e Ahmed Qorei (Abu Ala); dei più giovani uno è Marwan Barghouti, ex capo dell´organizzazione Fatah (tanzim), che diede inizio all´Aqsa Intifada; l´altro, Mohammad Dahlan, si è fatto i muscoli come capo delle forze di sicurezza nella Striscia di Gaza. I due primi mancano di carisma, ma ricoprono un ruolo nel residuo apparato burocratico dell´autorità palestinese, per cui mantengono contatti istituzionali con Israele e col mondo esterno; e in questo senso costituiscono una risorsa cruciale, in un momento di grande debolezza e crescente isolamento dei palestinesi. I loro precedenti nell´establishment di Arafat non giocano certo a loro favore nell´ambiente dei campi profughi intorno a Jenin e a Gaza. Le masse degli shabab, i giovani privi di diritti civili che sopravvivono nelle baraccopoli con poche speranze per il loro futuro, li ritengono corrotti - un´accusa peraltro generalizzata nei confronti dell´entourage dei vecchi leader. I due candidati più giovani hanno migliori prospettive sul piano della popolarità, ma per ora le loro quotazioni a livello internazionale sono ai minimi. Bargouthi sta scontando una condanna in un carcere israeliano: circostanza questa in un certo senso favorevole, dato che se non altro, in caso di un´aperta esplosione di violenza in Palestina, la sua vita sarebbe protetta dietro le sbarre; ma occorrerebbe obbligare Sharon - o il suo successore - a metterlo in libertà perché possa assumersi un ruolo politico. Ciò rappresenta al momento attuale una pesante ipoteca sulla sua candidatura; ma per Israele potrebbe persino essere un asso nella manica. Dopo tutto Ben Bella, incarcerato in Francia durante la guerra d´indipendenza d´Algeria (conclusasi nel 1962) divenne il primo presidente del nuovo Stato algerino. Nella Palestina di oggi, grazie alla sua immagine di eroe-martire, Bargouthi è probabilmente il più popolare dei candidati alla leadership.
Mohammad Dahlan - largo sorriso, modi affabili, bella presenza da sportivo - non manca di carisma personale. Era noto come il duro di Gaza quando dava la caccia agli islamisti radicali: una reputazione che non dovrebbe attirargli molte simpatie da parte dei barbuti e delle loro compagne velate. Ma nel confronto con Bargouthi ha alcuni punti di vantaggio: innanzitutto è libero; negli Usa è considerato accettabile, e in qualche misura anche in Israele; e infine gode dell´appoggio di alcuni dei più importanti paesi arabi (mentre altri vedono in lui un potenziale tirapiedi degli Usa, del genere Allawi o Karzai). La posizione del rieletto Bush avrà in questo senso un ruolo essenziale: dopo che per quattro anni, nella questione israelo-palestinese gli Usa sono stati a guardare, il dopo-Arafat apre la strada perché l´America ricominci a "insistere" invece di limitarsi ad "assistere" per citare l´espressione coniata da Colin Powell. A questo punto, e una volta stabilito che la strada per Gerusalemme non passa per Bagdad, l´uscita dal pantano iracheno potrebbe per converso passare da Gerusalemme: nessuna pacificazione sarà possibile in Medio Oriente se non ci sarà pace tra Israele e la Palestina. Tutto daccapo?
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