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Il Manifesto Rassegna Stampa
08.11.2004 I coraggiosi dissidenti del comunismo che amavano Arafat più di Krusciov
l'amarcord di Luciana Castellina

Testata: Il Manifesto
Data: 08 novembre 2004
Pagina: 18
Autore: Luciana Castellina
Titolo: «Il nostro Yasser Arafat»
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta a leggere l'articolo di Luciana Castellina pubblicato dal MANIFESTO di sabato 06-11-04, che di seguito riproduciamo, confrontandolo con l'accurata ricostruzione dell'emergere dell'ideologia antisionista nella sinistra europea, fornita da Michele Battini sul FOGLIO (vedi Informazione Corretta 08-11-04).
Di quel processo lo scritto di Luciana Castellina, che nemmeno per una volta accenna al terrorismo palestinese e che è interamente improntato a un rifiuto emotivo, prima ancora che ideologico, del diritto all'esistenza di Israele, costituisce una viva ed eleoquente, per quanto falsata, testimonianza.
L'armamentario della propaganda antisraeliana è presente al gran completo: il governo crudele, le elezioni palestinesi che non potranno essere democratiche perchè Barghouti, mandante di omicidi e strargi, è in carcere, i profughi a vita, le risoluzioni dell'Onu che "impongono" a Israele di ritirarsi dai Territori...
In più Luciana Castellina trova il modo di lamentarsi della scarsa ricettività del PCI degli anni 60 per la causa palestinese. La sua, lascia capire, era una posizione eretica, lontana dall'ortodossia decisa tra Mosca e le Botteghe Oscure.
Era dunque per Yasser Arafat, non per Nathan Sharansky e Ida Nudel, che parteggiavano i veri oppositori del totalitarismo sovietico...
Ecco l'articolo:

Gerusalemme per tomba anziché per capitale di uno stato palestinese che, al momento, non si sa più se mai potrà esser creato. Questa diventa oggi la drammatica rivendicazione per cui siamo costretti a batterci: perché a Yasser Arafat sia concesso dal crudele governo di Israele almeno di riposare dove si trovano i simboli, religiosi e storici, del suo popolo. Alla vigliacca diplomazia internazionale, alla «nostra Europa», dovremo chiedere non già di operare uno strappo alla regola, imponendo a Sharon di rilasciare un visto di ingresso al cadavere di Abu Ammar, ma, solo, di far rispettare finalmente le regole, non foss'altro che per un funerale: quelle che dal 1967 l'Onu ha fissato e dicono che Gerusalemme è stata annessa illegittimamente, non è territorio di Israele, tanto meno ne è la capitale, tant'è vero che le ambasciate, salvo quella degli Stati uniti, si trovano a Tel Aviv. Era il giugno del 1968 quando si tenne la prima delle tante conferenze internazionali sul destino di Gersusalemme Est. Rinascita mi inviò a seguirla ad Amman, dove si svolgeva. Era trascorso un anno dalla fine della guerra dei sei giorni, quella che aveva portato all'occupazione della Cisgiordania e di Gaza e alla cacciata di altri milioni di palestinesi che avevano raggiunto, nei campi già sovraffollati, quelli che vi si erano rifugiati dopo l'esodo forzato del 1948. Come tanti altri compagni dell'epoca sapevo poco o niente della questione israelo-palestinese: la guerra e l'ulteriore occupazione di terre da parte di Israele era stato certo uno shock e una prima presa di coscienza c'era stata. Ma la nostra ignoranza era grande, la diffidenza per gli arabi smisurata. Ognuno di noi ricordava come una vittoria la creazione dello stato d'Israele, quasi vent'anni prima - era stata l'Urss a riconoscerlo per prima. Perché fra gli israeliani c'era gente di sinistra, come noi. Una sinistra ciecamente eurocentrica.

La conferenza di Amman

Mentre la conferenza di Amman si trascinava noiosa fra un discorso e l'altro di notabili arabi ed europei, fui invitata assieme a una giornalista inglese ad andare a visitare un campo profughi palestinese, poi, di lì, allungammo fino ad Irbid, 50 km a nord della capitale giordana. Ma quando giungemmo in città, improvvisa, arrivò nel cielo una flotta di bombardieri israeliani che cominciarono a mitragliare le strade. Ci parammo dietro le macchine mentre i proiettili rimbalzavano sui marciapiedi e le facciate della case. Durò pochissimo, forse un quarto d'ora. Quando ritirammo fuori la testa già si sentivano grida e si vedeva il fumo degli incendi. Corremmo al piccolo ospedale dove già accorrevano i feriti. Nell'atrio un medico, il camice bianco imbrattato di sangue, una bambina morta in grembo. Quando mi vide, con un gesto rabbioso mi mise il cadavere sulle braccia, poi spinse me e la mia collega britannica lungo i corridoi dove, a terra, erano accatastati i feriti. «Guardate tutto questo e raccontatelo in Occidente - mi apostrofò con asprezza - ma dite anche che non subiremo il ricatto. Ce lo hanno insegnato i vietnamiti. I feddayn e Abu Ammar piegheranno l'imperialismo».

E' lì ad Irbid, dalle parole di quel medico palestinese - rientrato dopo la guerra dei sei giorni da New York dove viveva per condividere la sorte del suo popolo - che sentii per la prima volta il nome di Yasser Arafat. E appresi, come in un corso accelerato, tutto quello che nella paludata conferenza per cui ero andata in Gordania si taceva. E di cui in Italia ancora non si parlava: dei feddayn, che ormai ogni giorno compivano incursioni al di là della frontiera, nei territori occupati, per impedire che l'occupazione israeliana - mi dissero - si stabilizzasse; di Al Fatah che ne era la principale organizzazione.

Era stata la battaglia di Karameh, dove nel marzo si era combattuto contro una delle prime incursioni dei mezzi corazzati di Thalal oltre confine, che alla svogliata Legione araba si erano affiancati i nuovi commandos guerriglieri. E per la prima volta, erano stati gli arabi a vincere. L'effetto sui giovani era stato galvanizzante e aveva reso ancora più cruda la critica ai regimi mediorientali che erano sempre ripiegati anche perché, per paura del loro protagonismo, avevano vietato ai palestinesi ogni forma di autorganizzazione. E naturalmente, le armi. Yasser Arafat era così diventato il simbolo del riscatto, il leader che aveva vendicato la passiva umiliante rassegnazione con cui avevano subìto l'espropriazione fra il 1948 il 1967. Una svolta che negli anni successivi fece dei feddayn uno dei grandi protagonisti della lotta antimperialista che percorreva, e con successo, i continenti. E di Abu Ammar, con la sua kefia a quadretti, un volto conosciuto ovunque. Nel 1969, Times magazine lo immortalò dedicandogli la copertina .

Ero gonfia di emozioni per la scoperta di questa nuova realtà embrionale che avevo avuto la ventura di incontrare e non vedevo l'ora di raccontarla. Ma non mi fu facile. Prima tentai, ancora a caldo, di mandare un pezzo all'Unità su quel bombardamento di Irbid compiuto in pieno cessate il fuoco e che, ingenuamente, mi era apparso scandaloso. Dalla redazione di Roma fui respinta quasi con ironia: da qualche ora era stato ammazzato Robert Kennedy. Per di più, per mano di un arabo.

Tornata, scrissi per il settimanale che ad Amman mi aveva inviato, Rinascita. Ma il mio articolo suscitò molte perplessità: il Pc giordano, l'eroica formazione di cui tanti militanti avevano trascorso decenni nelle prigioni hashemite e cui erano iscritti molti profughi palestinesi, non condivideva la linea di Al Fatah ed era contro la guerriglia. L'Unione sovietica, preoccupata di non incrinare i suoi rapporti con i regimi arabi, pure. Al Pci i feddayn piacevano, ma...

Alla fine l'articolo uscì, sia pure un po' smussato. Ma qualche giorno dopo, nella stanzetta dell'Udi dove lavoravo (il dissenso nel partito che poi portò alla costituzione del Manifesto aveva già provocato degli esili) si affacciò un ragazzo timido e gentile. Si chiamava Wael Zweiter, fu ammazzato quattro anni dopo dal Mossad. Veniva a ringraziarmi per aver scritto per prima su un giornale prestigioso come Rinascita il nome di Abu Ammar e di Al Fatah.

L'incontro fra i feddayn e il manifesto fu naturale. Quasi tutti i compagni che spillavano il bollettino del movimento palestinese, del resto, furono, nel `70, fra i radiati dal Pci. Tommaso Di Francesco, tanto per far un esempio, fra questi. E il rapporto rimase stretto, perché consonanti rimasero le nostre analisi e noi appoggiammo sempre le scelte dell'Olp lungo il tortuoso cammino di tutti questi anni, durante i quali speranze e delusioni si sono susseguite. Talvolta avemmo la tentazione di scegliere come partner il Fronte popolare per la liberazione della Palestina perché George Habbash ci sembrava più radicale, o quello democratico, perché Hawatmeh utilizzava un apparato concettuale più simile alla nostra formazione marxista di quanto non fosse quello di Al fatah, nata da una costola del movimento nazionalista arabo e, addirittura dei Fratelli Mussulmani, fra cui, giovanissimo, Arafat aveva militato. Ma alla fine, era quasi sempre l'opinione di Abu Ammar che abbiamo seguito, anche se lo slogan «Palestina rossa» dominava le nostre manifestazioni e anche per questo, ricordo, quando portammo con questa parola d'ordine, assieme a tutta la nuova sinistra, centinaia di migliaia di persone a Piazza del Popolo per protestare contro il massacro di Tal al Zatar, Nemer Hammad, già allora rappresentante dell'Olp a Roma, declinò l'invito a salire sul palco.

Credo avesse ragione. E tuttavia i nostri giovanili peccati di estremismo avevano aiutato la causa palestinese a conquistare i cuori e la mente degli italiani; e non incrinarono mai i rapporti fra il manifesto, il Pdup e l'Olp. I cui dirigenti partecipavano a tutti i nostri congressi, scrivevano sul giornale, molti di loro erano diventati amici. Ricordo ancora una sera, dopo una manifestazione, una lunga, allegra cena in una pizzeria di Testaccio con un centinaio di compagni e un ospite d'eccezione: Faruk Kaddumi, allora responsabile internazionale dell'Olp.

Settembre nero

Alla battaglia di Amman, durante il settembre nero - quando per la prima volta ebbi modo di incontrare la laedership di Fatah, durante il provvisorio coprifuoco, a lume di candela, in una sorta di caverna che si apriva nelle viuzze del Jebel Haschemia - il manifesto rivista, ai suoi primi numeri, dedicò quasi interamente un'edizione.

Poi continuammo a fare avanti e indietro con il loro quartier generale: a lungo a Beirut, in seguito, più raramente a Tunisi. Perché nel frattempo l'Intifada aveva portato alla ribalta la resistenza interna, quella dei territori occupati, e la nostra meta diventarono Ramallah, Gaza e Gerusalemme più che gli uffici diplomatici dell'esilio. Scoprimmo la Orient House, Feisal Hussein, Hanan Ashrawi e, insieme, la società civile palestinese. Il movimento della pace italiano, che con essa, così come con quella pacifista israeliana strinse molti rapporti, a un suo congresso nominò Stefano Chiarini, inviato de il manifesto in Medio oriente, proprio simbolico ambasciatore in Palestina.

Quella società civile Arafat l'aveva capita poco, come sappiamo. Accade a tutte le resistenze costrette all'esilio. Del resto, l'espulsione delle organizzazioni dell'Olp dalla Giordania, nel `70, era stata voluta anche per questo, per impedire la contiguità con l'interno e la lontananza non ha solo impedito l'estendersi della guerriglia, ha anche provocato incomprensioni.

L'ultima volta che l'incontrai fu al suo ritorno, nel suo ufficio di Gaza, attorno la smisurata miseria e mortificazione di una popolazione costretta a vivere in un recinto. E a dover sperare che i potenti della terra accettassero la restituzione di un misero 22 per cento dell'originario territorio di Palestina. Niente altro. Perché tutti i piani di pace che si sono susseguiti e che via via si è cercato di far ingoiare ai palestinesi, gridando all'estremismo di Arafat se non li accettava, una cosa hanno sempre avuto in comune: che evitavano di assumere le vere questioni al cuore del problema. La definizione dei confini, Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati.

In queste ore non sappiamo quale sarà la nuova leadership dell'autorità palestinese. Non spetta certo a noi consigliarla, anche se ci indigna che Israele e l'Occidente parli di scarsa democraticità del movimento palestinese quando l'uomo che probabilmente sarebbe democraticamente eletto nuovo leader se le elezioni fossero libere, sarebbe Marwan Barguti. Non sono libere perché Barguti lo tengono in prigione.
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