Arafat e Yassin come San Francesco e il lupo Igor Man scatenato, oltre ogni limite
Testata: La Stampa Data: 05 novembre 2004 Pagina: 5 Autore: Igor Man Titolo: «Mr Palestina. Una fine lontano dalla sua terra»
Articolo fiume di Igor Man, sulla STAMPA di oggi, 05-11-04, dedicato a un ritratto ben poco veritiero di Yasser Arafat. Vi si leggono cose incredibili: Arafat decise la strage di Monaco dopo quella di Lod, "sanguinoso exploit" del rivale George Habbash, per porre fine al terrorismo con una "azione spettacolare, che però sarebbe stata l'ultima", Arafat forse non ha la responsabilità del fallimento di Oslo, come proverebbe il libro del giornalista di estrema sinistra, da sempre alfiere della causa palestinese, Ammon Kappeliouk che dovrebbe però essere creduto sulla parola in quanto "non arabo bensì ebreo",Arafat aveva convinto lo sceicco Yassin, leader dell'"organizzazione assistenziale, di ispirazione religiosa" Hamas della necessità di un compromesso a "gettare acqua sul fuoco". Yassin, dal canto suo, sarebbe anche stato disponibile alla convivenza con Israele, ma riteneva che gli ebrei volesssero "spazzare via" come "immondizia" i musulmani dalla Palestina". Putroppo, subdorando il rischio che "Arafat lo plagiasse" gli israeliani hanno ucciso Yassin, perché "non gli serviva più", essendo sul punto di diventare un pacifista, inutilizzabile all'interno della logica del "tanto peggio tanto meglio".
Ecco l'articolo: «Kalash, bass»: basta, è finita. Arafat ha consumato l’ultima delle sue sette vite. Lontano dalla sua terra, da quella Gerusalemme in cui diceva d’esser nato («conservo la chiave della nostra casa che il cemento israeliano ha inghiottito») e dove ha sempre detto di voler sepoltura, «nel sacro recinto di al Aqsa»: un «sogno» questo da chiudere nel cassetto colmo degli infiniti sogni fatti da vivo. In cima a tutti: lo Stato palestinese con capitale Al Quds (la Santa), Gerusalemme appunto, e lui, Arafat, Presidente. Epperò il Vecchio Cronista deve confessare d’aver avuto, e più volte, la sensazione netta che Arafat alla fine non ci credesse poi tanto al sogno che diventa realtà. A ben vedere, Arafat giuocava l’illusione e questo, forse, spiegherebbe certi suoi comportamenti apparentemente illogici. Tuttavia quando gli offrirono uno «scampolo» di terra palestinese («Gerico, Gaza=subito») egli accettò, incurante delle critiche al vetriolo dei suoi più intimi compagni, Faruk Kaddumi in testa, paradossalmente rimasto sempre ministro degli Esteri dell’Olp con sede non si sa bene dove, certamente non a Ramallah, non a Gaza, assolutamente fuori della Palestina occupata o mandataria che dir si voglia. Si vuole che un solerte infermiere dell’ospedale (militare) francese dove giace, volesse radergli la barba, così: «giusta la prassi». L’infermiere (un caporale della sanità) ignorava che quella barba rada era il frutto di una coltivazione attenta: Arafat, consapevole d’aver orecchie da elfo, labbra esagerate, occhi rotondi, una statura mediocre, insomma un fisico brutterello assai, quando decise di guidare la resistenza armata allo strapotere di Tsahal, pensò bene di darsi un look da guerrigliero. La kefiah a pepi bianconeri a mo’ di elmo prussiano, la barba rada da combattente in clandestinità, pistola alla cintola e kalashnikov distrattamente portato a guisa d’ombrello. (E stivali con un tacco generoso). Le divise gliele tagliava un sarto svizzero di Amman che aveva cominciato a Catania, dove la sua famiglia (mezzo ebrea) s’era trasferita negli Anni 30. Un tempo gliele stiravano - magistralmente amorose - le sue due segretarie: la bionda e paffutella Suha Tawill, Najla, la mora e magra, giovanissima figlia d’un prezioso collaboratore, morto in combattimento. Suha, come sappiamo, Arafat la sposò il 17 di luglio del 1990, giorno del ventisettesimo compleanno della sposina, esattamente quindici giorni prima che il coniuge festeggiasse i suoi (ben portati) 61 anni. Con la moglie a Parigi e gli israeliani in anticamera, a Ramallah, nel sinistro edificio, ex penitenziario, della Muqata, la divisa la stiravano - benissimo - due dei suoi tre più fidi seguaci. Tre bravi fedayn, semplici, le cui lacrime sono pure come quelle d’un bimbo. Suha, la sposa ch’era venuta a riprenderlo a Ramallah nell’illusione che in Francia glielo rimettessero in sesto, è la figlia d’un facoltoso banchiere giordano e della leggendaria Raimonda Tawill, «la pasionaria della Palestina» come la stampa popolare d’Israele l’aveva battezzata. Bellissima, Raimonda, e coraggiosa: dirigeva, scriveva, stampava una agenzia di notizie («dalla Cisgiordania occupata») che spesso dava sui nervi al governatore israeliano. Così accadeva che Raimonda fosse arrestata di tanto in tanto e sottoposta a interrogatorio. Ma nessuno mai riuscì a provare un «legame insurrezionale» con Arafat. In realtà Raimonda denunciava gli eccessi dell’occupazione e con Arafat aveva solo un «rapporto ideale»: non risulta si siano incontrati durante la clandestinità di Abu Ammar (il nome di battaglia del leader). Risulta, invece, che spesso i giovani ufficiali israeliani incaricati di interrogare l’animosa Raimonda si invaghissero della (splendida) giornalista-nazionalista. La casa del banchiere Tawill era sempre aperta ai corrispondenti stranieri, quel gentiluomo faceva salotto ripetendo a tutti che «prima o poi Israele dovrà ritirarsi dai territori occupati. E’ l’unica chiave, questa, per aprire la porta della pace». Ricordo Suha bambina: bionda, paffutella, sempre intenta a leggere fumetti di Topolino, piuttosto rari perché redatti in francese. Suha ha fatto studi d’economia, conosce almeno quattro lingue, fu una segretaria-assistente invero preziosa per il vecchio fedayn. E’ stato un matrimonio d’amore, il loro, anche perché, così come nel nostro profondo Sud, nella società araba spesso, molto spesso il marito è di gran lunga più vecchio della moglie. Io, ora, attendo il libro che Suha ha scritto e chiuso nel cassetto pro bono pacis. S’è rassegnata, anzi si sono rassegnati - lei e Arafat - a una separazione immerdata da ignobili pettegolezzi, soltanto per non distrarre al Khitiar (il Vecchio) dal suo compito, diventato invero terribile dopo l’irruzione sempre più devastante dei ragazzi-suicidi in conseguenza del salto di qualità di Hamas. (E’ l’acronimo di Harakat al-Mukauma al-Islamiya, movimento di resistenza islamica). Questa organizzazione assistenziale, di ispirazione religiosa, crebbe e si espanse nella Palestina - a Gaza - sotto l’occhio indulgente degli occupanti: a Gerusalemme si pensava di dar fastidio ad Arafat contrapponendo al suo movimento laico una organizzazione di chiara impronta religiosa, assiduamente caritatevole, bene inserita nel territorio. «Hamas è stato creato da noi, nella metà degli Ottanta, come movimento in competizione con l’Olp»: sono parole di Zvi Poleg, il comandante dell’esercito israeliano a Gaza dal luglio 1988 al marzo 1990, diventato poi sindaco di Netanya. «Nel volgere di alcuni mesi il movimento divenne più militante e incominciò a guidare la resistenza violenta» (cfr. U. Tramballi: L’ulivo e le pietre, Tropea ed.). Israele si mise la serpe in seno: il terrorismo suicida è nato dal ventre vendicativo di Hamas. Con cui Arafat ha avuto a che fare (non poche volte) nei ripetuti tentativi di fermarne la carica dirompente, antipolitica, nihilista. Abilmente manovriero, affabulatore istrionico, Arafat riuscì a limitare i danni alla sua speranza (mai sopita) di riprendere il dialogo con Israele coinvolgendo con l’Europa persino la Casa Bianca(!) nonché la Russia postsovietica; riuscì in tanta impresa perché aveva letteralmente affascinato Ahmad Ismail Hassan Yassin, l’ex maestro elementare, imam dei Fratelli musulmani di Gaza, l’esile Sceicco-santone fondatore di Hamas. Arafat gli parlava di «pace possibile, dello Stato di Palestina» e il vecchio, querulo replicava che «il problema non è la convivenza con gli israeliani. Il problema è che gli ebrei non vogliono vivere qui con noi musulmani: vogliono la nostra terra e spazzarci via, immondizia». Epperò c’era stato un momento in cui Yassin aveva promesso ad Arafat di «versare l’acqua sul fuoco». E infatti nei momenti topici, quando si giuocavano le ultime carte d’una partita di pace «possibile», Hamas non diede troppo fastidio al «visionario Abu Ammar» (la definizione è dello Sceicco che, come sappiamo, gli israeliani han pensato bene di far fuori. Non gli serviva più, c’era il rischio che Arafat lo plagiasse. Meglio toglierselo dai piedi). In questo momento «storico» in cui tutte le opzioni (ottimistiche-catastrofiche) appaiono valide, son emerse le «due anime» di Israele sulle quali, a suo tempo, meditò e scrisse (nei suoi diari) quel casto patriota sionista che fu Moshe Sharret, già ministro degli Esteri e premier. L’anima prima si rallegra che l’arcinemico, il terrorista per eccellenza, l’istigatore degli shahid (i terroristi suicidi) eccetera sia morto e per di più banalmente, in un letto di ospedale lui che sognava la fine epica sul campo di battaglia e vedeva se stesso come una sorta di nuovo Saladino. L’altra anima si interroga sul domani chiedendosi, non senza angoscia, se all’origine della presente catastrofe non ci sia la passeggiata-provocazione di Sharon sulla spianata di Gerusalemme sacra ai musulmani. Forse la seconda intifada la stavano già pianificando, rimane il fatto che la «passeggiata» del possente «Arik» scatenò i palestinesi più oltranzisti, quelli del «tanto peggio tanto meglio», dando a Sharon la possibilità di dimostrare «sul campo, col fucile», che non c’era che il bastone (il più sofisticato esercito moderno) in grado di domare e quindi schiacciare «il pidocchio». Era giunto il momento di completare il lavoro interrotto a Beirut nel 1982 (l’improvvida spedizione «Pace in Galilea»). Sfoggiando inopinate doti di politico, il generale, come si sa, ha deciso di sgomberare Gaza. Chi gli crede saluta questa decisione con grande speranza, e incrocia le dita. Non sarà facile parlare ai coloni cui fu detto a suo tempo «andate, Dio vuole che accendiate un focolare nella terra dei Padri», non sarà facile convincerli a sgomberare («abbiamo scherzato»...) le colonie che han fondato con sacro entusiasmo, vivendo tutti questi anni immersi nell’odio dei palestinesi. Ma ora che «il pidocchio» è stato schiacciato dalla morte, lo sgombero di Gaza faciliterà la resurrezione della Road Map o dei vari piani-Tenet? C’è chi sospetta, anche in Israele, che «in cambio» dello sgombero di Gaza e della demolizione di quelle colonie sioniste, Sharon decida di tenersi la feconda Cisgiordania. Non sarà certo il presidente americano a porre il veto. E allora? «Peggio per loro: se la prendano con Arafat, l’amato leader, quei rompiscatole dei palestinesi», così potremmo tradurre in parole correnti il sentimento dell’altra anima di Israele. Quella dura, intransigente. C’è chi dice che la crisi attuale, terribile, e un’altra ahimè non improbabile in futuro, sono entrambe figlie del «no» di Arafat alle generose condizioni di pace prospettate al leader palestinese in Camp David da Barak, da Clinton. A questo proposito ricorderò come Arafat abbia sempre smentito le affermazioni di Clinton, di Barak. Ma lo ha fatto male, con quel linguaggio bombastico-lamentoso, prolisso che i corrispondenti raccolgono con fastidio e così accade che sfuggano importanti elementi di fatto. Arafat ha cercato di difendersi dall’accusa di aver gettato nel cesso «le premesse di una pace in buona e dovuta forma» ma, com’è noto, non c’è riuscito. Rischia, dunque, di passare alla Storia come uno sprovveduto politico guastato dall’essere un fanatico terrorista. Ma c’è un libro, appena uscito in Italia, intitolato Arafat, l’irriducibile (Ponte alle Grazie) che monda di tanta sconcezza storica il vecchio Abu Ammar. L’autore di questo libro destinato a far rumore, è Amnon Kapeliouk, giornalista e arabista, collaboratore di Le Monde, inviato di Yedioth Aharonoth, israeliano: non arabo bensì ebreo. Chi volesse avere un quadro completo di quanto avvenne in realtà a Camp David, si legga il capitolo Diktat diciamo da pagina 361 a pagina 368. Nella peggiore delle ipotesi la lettura di queste pagine davvero drammatiche insinuerà nel lettore il dubbio: forse il fallimento di Camp David non va addebitato, come un po’ tutti assumono in Israele (e non solo), ad Arafat. Sia Barak che Clinton portano un bel po’ di responsabilità sul groppone. Ho conosciuto (l’ho già scritto una volta ancora venerdì scorso) Arafat ch’era nessuno, l’ho visto e rivisto parecchie volte in un arco di tempo che va dal 1956 al 2003. Non fu un mio amico anche perché l’amicizia non è cosa facile e non credo di averlo capito sino in fondo perché «conoscere» un arabo è impresa difficile, forse impossibile. Neanche Lawrence d’Arabia ci riuscì, se vogliamo. Terrorista? Certamente Monaco fu avallata dal vertice di Al Fatah. Il sanguinoso exploit dei giapponesi arruolati da George Habbash: il massacro all’aeroporto di Lod, convinse la leadership palestinese di «gestire la crisi». Come? Progettando «una azione spettacolare che, però, sarebbe stata l’ultima». Giustappunto l’operazione-Monaco in quel Villaggio Olimpico, orchestrata da Abu Iyad, ovviamente con il placet di Arafat. L’operazione-Monaco fece colare a picco le azioni dei palestinesi, ma ciò che salvò Arafat e l’Olp da una probabile estinzione fu la Guerra del Kippur che fornì ad Arafat il modo di continuare la lotta «con mezzi politici». Monaco e i tanti attentati che seguirono non impedirono che la prima intifada aprisse la strada agli accordi di Oslo (incompleti, anzi: arronzati ma di ispirazione benefica), e la stretta di mano fra Arafat e Rabin aprì la via del massimo riconoscimento «pacifico»: il Premio Nobel per la pace che Arafat avrebbe diviso con Peres, con Rabin. La Storia legittima tutti, s’è detto e si ridirà. E’ proprio così, guai se non lo fosse: vorrebbe dire che non c’è speranza di pace in Palestina e dunque nell’area mediterranea, nel Golfo. Gli Stati Uniti, traumatizzati dallo stupro delle Torri gemelle, distratti dalla rovinosa spedizione in Iraq, han finito con il trascurare il cuore di tutti i problemi, il nocciolo duro della pace: la Palestina. Bisognerà che il presidente americano riprenda in mano il dossier Palestina. Per tentar di ritessere, Penelope postmoderna, la tela della pace. Bisogna, assolutamente bisogna: è qui, forse, il «senso», meglio «il lascito» del controverso personaggio che fu Arafat, bisognerà, dico, impedire a un cinico maestro di terrorismo, allo Sceicco della Morte, all’ex palazzinaro saudita sfrattato dalla Mecca, a Osama di mettersi alla ribalta nei panni del rivendicatore della Palestina. Finché non sarà resa giustizia al popolo palestinese, senza con ciò penalizzare Israele, il mondo non avrà pace. E neanche lui, povero Abu Ammar, riposerà sereno com’è giusto che sia poiché la morte è una «livella» che rende tutti eguali, uomini e mascalzoni. Una volta chiesi ad Arafat: «Tu preghi?» - «Nell’Islam preghiamo tutti, anche chi non crede», rispose. «Il giorno in cui ogni anima verrà a difendere se stessa, ogni anima sarà ripagata per quello che avrà compiuto, senza che sia fatto torto a nessuno» (Corano: XVI,110-111). Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. 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