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La Repubblica Rassegna Stampa
05.11.2004 Lo smemorato numero due (Benardo Valli) riemerge dalle tenebre, ed altri gli fanno corona
nelle commemorazioni di Yasser Arafat

Testata: La Repubblica
Data: 05 novembre 2004
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: «Il vuoto che lascia»
Diamo per scontato che lo smemorato di Repubblica numero uno sia Sandro
Viola, quando scrive del Vicino Oriente, e francamente lo riteniamo
saldamente assiso su quel trono da non invidiabile primato.Ma Bernardo Valli
ce la mette veramente tutta per insidiargli quel primato, dobbiamo dargliene
atto.
La morte, vera o presunta, di Arafat ha dato la stura ad una valanga di
articoli più o meno elogiativi - dei morti si dica solo bene - che
costellano tutti i nostri media, ma anche a molti che, spesso sullo stesso
giornale, ci raccontano il lato oscuro di quel regno che finalmente ha
trovato una conclusione.Così anche Repubblica non tace sulla corruttela e
sulle ruberie di quest' uomo marcio nell' intimo, che ha anteposto il bene
proprio a quello del suo popolo, ed ha perseguito la morte dei suoi nemici
più di quanto abbia cercato la pace per la sua nazione.
Ma per Valli le cose stanno diversamente.
Per Valli, Arafat è stato "un ostacolo ad ogni vera tregua, e al tempo
stesso un elemento di moderazione". Un miracolo di funambolismo,
insomma.Quella moderazione che è stata anche esaltata nello studio di Vespa
da Emilio Colombo, ed altrove da altri, quando hanno voluto ricordare che fu
merito di Arafat se il suo luogotenente ed assassino di Klinghoffer, Abou
Abbas, lasciò liberi gli ostaggio dell' Achille Lauro che lui aveva
sequestrati e terrorizzati. Il vero ruolo di Arafat fu in quell' occasione,
come in moltissime altre similari, di occulto stratega, di colui che getta
il sasso e nasconde la mano, ma a qualcuno invece piace esaltarne meriti mai
avuti.
Proseguiamo. Per Valli, Arafat aveva "scarso potere reale,alla testa di un
popolo senza soldi e senza diritti, disperso in campi profughi, e per ora
privato della possibilità, se non della promessa, di creare uno Stato
sovrano". Da chi? Valli tace, e vuole farci capire che la colpa di tutto ciò
è di Israele. Ma i soldi i palestinesi non li hanno perché glie li ha rubati
a piene mani Arafat, i diritti non li hanno perché Arafat li ha conculcati,
vivono in campi profughi costruiti da Egitto Giordania Siria e Libano, e lo
stato sovrano l'ha rifiutato Arafat perché voleva tutto - cioé la sparizione
di Israele - e non solo una parte.Ciò malgrado Arafat di potere ne aveva,
eccome, e lo ha esercitato con tutti i mezzi di cui disponeva.Chi lo nega è
cieco, sordo, ed incapace di vedere la realtà.
E poi, eccoci al peana in lode del popolo palestinese: la sua è "una storia
millenaria, simultanea a quella delle grandi religioni
monoteiste...tragicamente rilanciata...dagli ebrei, i cui superstiti (della
Shoah) sono venuti e ricuperare i luoghi biblici degli antenati su cui
vivevano da secoli degli arabi musulmani, i palestinesi diventati vittime
delle nostre vittime". La storia riscritta ad uso e consumo della
delegittimazione di Israele e della parificazione del sionismo al nazismo,
degli ebrei alle SS.E' scandaloso che Repubblica pubblichi una simile
immondizia pseudoculturale, indegna di un giornale serio e responsabile.Non
ci soffermiamo neppure a rettificare tali falsificazioni per quanto sono
grossolane e scopiazzate dal peggio del peggio in circolazione.Vi manca
solamente un cenno al grande palestinese Gesù, per completare il quadro.
Altre perle che seguono, prese a caso:
Arafat "sarà molto pianto, ma non troppo rimpianto. Lo sarà più tardi"
perché è stato "un negoziatore degno del premio Nobel per la Pace"..."non
corrotto ma corruttore". Si legga il commento di Elie Wiesel pubblicato a
questo proposito dal Corriere della Sera del medesimo giorno, si legga
quanto scrivono molti quotidiani sui miliardi di dollari - da 2 a 4 almeno ,
e lo ripetiamo: MILIARDI di dollari - che costituiscono il tesoro personale
dell' onesto Arafat le cui chiavi di accesso,secondo fonti arabe, lui
avrebbe consegnate alla moglie il giorno prima di andare a Parigi.
La conclusione, velenosa, di questo articolo attribuisce già a Sharon, reo
di aver rifiutato ad Arafat la sepoltura nella moschea di Al Aqsa, la
responsabilità di ogni futura violenza.
Il riquadro che Repubblica ha collocato al fianco dell'articolo di Valli non
è meno smemorato dell' articolo stesso: vi si ripercorre attraverso dei
flash la carriera di Arafat, ma non una sola parola viene spesa per citare
almeno uno o due dei più tragici massacri da lui organizzati, dalle
Olimpiadi a Fiumicino, dalla sinagoga di Roma a quelle di Vienna e di altre
città europee, dalle scolaresche israeliane ai bagnanti di Tel Aviv.
Se raffrontato a tutto ciò, si ridimensiona perfino la smemoratezza di
Leonardo Coen, che a pag. 7 conclude un lungo articolo sul testamento di
Arafat riesumando la sua parentela con Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin
al-Husseini senza peraltro citare il fatto che costui fu l' artefice della
stretta alleanza dei palestinesi e degli stati arabi con la Germania
nazista, ed amico personale di Hitler.

Ecco l'articolo di Valli:

L´uscita dalla ribalta politica di Yasser Arafat apre un grande vuoto in Medio Oriente: spalanca uno spazio in cui possono maturare opportunità per una ripresa del dialogo, ma in cui si può anche scatenare un ciclo di violenze ancora più tragico di quello che ogni giorno insanguina una terra troppe volte santa per essere pacifica.
Il presidente palestinese, in coma (pare) irreversibile nell´ospedale parigino, era un ostacolo ad ogni vera tregua e al tempo stesso un elemento di moderazione. Una drammatica ambiguità destinata a sciogliersi, con effetti quanto mai incerti.
Prima di elencare questi possibili effetti, vale la pena ricordare (come nel flash back di un film) perché la fine, per ora politica, di un raìs con scarso potere reale, alla testa di un popolo senza soldi e senza diritti, disperso in campi profughi, e per ora privato della possibilità, se non della promessa, di creare uno Stato sovrano, sollecita tanta attenzione e tante emozioni nel mondo. Quel misto di disperazione e tenacia che animava il personaggio, quando si muoveva agitando la kefiah a scacchi posata sulla testa, esprimeva molto bene il carattere della sua gente, travolta da un dramma con origini troppo profonde per essere evocate nelle nostre singhiozzanti cronache quotidiane. Una storia millenaria, parallela, simultanea a quella delle grandi religioni monoteiste, e tragicamente rilanciata, riaccesa da eventi verificatisi in un altro continente, in un´altra realtà, in un´altra civiltà, poco più di mezzo secolo fa. Arafat è il protagonista di una lotta tra due popoli che si contendono la stessa terra, in nome di antichi valori, avendo sullo sfondo la strage europea degli ebrei, i cui superstiti sono venuti a rifugiarsi, a recuperare i luoghi biblici degli antenati, su cui vivevano da secoli degli arabi musulmani: i palestinesi diventati vittime delle nostre vittime. Ed anche concreto simbolo dell´ingiustizia occidentale per più di duecento milioni di arabi, che spesso ne abusano.
* * *
Alle spalle di Arafat, il cui cervello (ma non ancora il cuore) si è spento nell´ospedale parigino, c´è quell´inarrestabile dramma che affonda in tempî remoti e che suscita in noi tante contrastate passioni. Al punto che la sola posizione accettabile è quella di sentirsi solidali con chi, tra israeliani e palestinesi, è disponibile a una convivenza pacifica. Non importa se si tratta di minoranze. Spesso sono loro che hanno ragione. Fummo solidali con Rabin, assassinato da uno dei suoi. E Arafat, che fu il partner di Rabin nel sottoscrivere gli accordi di Oslo, tanto carichi di speranza nel ?93, ed oggi persino dimenticati?
Arafat ha cavalcato per troppo tempo il dramma. In quarant´anni è stato uomo politico accorto; un rivoluzionario coraggioso e astuto; un capo di terroristi; un negoziatore degno del premio Nobel per la Pace; ma anche un negoziatore più sfuggente che intransigente, comunque incapace di gesti generosi con i quali afferrare i momenti propizi; ed anche un capo autoritario, non corrotto ma corruttore. Tanti, troppi ruoli, che hanno finito con il logorare la sua immagine. Al punto da sollevare la collera della sua gente. Mai tuttavia da provocare un ripudio definitivo. Era come se i palestinesi vedessero la Palestina, cosi com´è, riassunta nei pregi e nei difetti del raìs, nella sua condizione di prigioniero nella semidistrutta residenza di Ramallah, e forse nella sua sempre più sgangherata sagoma di vecchio malato ed esausto. Era sempre più avvinghiato, con senile puntiglio, a quel poco potere che gli restava. Sarà molto pianto, ma non troppo rimpianto. Lo sarà più tardi, quando i ricordi si saranno stemperati e subentrerà la storia. Non subito. Adesso ha fatto il suo tempo.
* * *
Ma il vuoto che lascia è enorme. E questo vuoto si spalanca proprio mentre il presidente americano rieletto comincia il suo secondo ed ultimo mandato.
Adesso Bush non è più condizionato dai gruppi di pressione, non deve più affrontare voti, in teoria è quindi più libero di agire in Medio Oriente.
George W. Bush, come Ariel Sharon, rifiutava di parlare con Arafat. Lo riteneva responsabile del terrorismo e non lo considerava un interlocutore valido. La scomparsa del raìs dalla scena politica e la simultanea supposta disponibilità di Bush potrebbero consentire una ripresa non solo del dialogo ma anche di veri negoziati. L´ostacolo del logoro, tenace Arafat è caduto. E i dirigenti che dovrebbero succedergli sono più che disponibili: il primo ministro Abu Ala e il segretario generale dell´Olp, Abu Mazen, sono dei moderati.
Il vuoto è tuttavia anche una breccia di cui i movimenti terroristici, quali la Jihad islamica e Hamas, possono approfittare per allargare l´aria di potere già sottratta da tempo ad Arafat. In queste ore Abu Mazen e Abu Ala cercano di coinvolgere quei gruppi estremisti nelle consultazioni riguardanti la successione. Ma questo non rassicura certo Israele, da un pezzo intransigente nell´esigere dall´Autorità palestinese la loro messa al bando. Il recupero di Hamas e della Jihad islamica, e delle altre organizzazioni che forniscono kamikaze, è indispensabile, e al tempo stesso è un ostacolo alla ripresa del dialogo con Sharon. Dar loro la caccia, adesso che Arafat non può più impedirlo, potrebbe significare la guerra civile tra palestinesi. In questi giorni di forti emozioni gli animi si accendono più facilmente. Se Ariel Sharon persiste nel rifiutare al raìs una tomba a Gerusalemme, nella moschea di Al Aqsa, dove lui voleva essere sepolto, ci potrebbe essere la prima fiammata del dopo Arafat.
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