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La Stampa Rassegna Stampa
04.11.2004 Israele di fronte all'uscita di scena di Arafat
l'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 04 novembre 2004
Pagina: 5
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Israele non piangerà l'uomo dai mille volti»
Israele ha per lungo tempo individuato in Yasser Arafat un possibile interlocutore per un accordo di pace.
Si è dovuta ricredere quando il raiss ha rifiutato l'accordo a Camp David e ha scatenato il terrorismo della seconda Intifada.
Dalla STAMPA di oggi, 05-11-04, l'analisi di Fiamma Nirenstein

Sempre la personalità di Arafat e le sue vicende personali hanno lasciato Israele disorientato. Ariel Sharon, richiesto espressamente di un commento, ha fatto tre passi indietro e ha detto che le notizie erano troppo incerte. La verità è che per Israele il mondo senza Arafat è un mondo sconosciuto, è una svolta concettuale inesplorata e sia la paura che le speranze sono grandi. Israele non rimpiangerà Arafat: e non solo perché era un nemico, ma perché il sistema concettuale da lui introdotto, dove parlando di pace si preparava la guerra, le mille volte che gli è scappato di mano, o che è stato fatto fuggire nella speranza di una conversione o di un compromesso l’ha spesso messa in contraddizione con se stessa. La contraddizione è quella di un’illusione che continuamente si rivela tale, ma che è l’unica Fata Morgana disponibile.
Arafta poteva dire tutto e il contrario di tutto, come quando il suo biografo israeliano Dani Rubinstein gli chiese dopo il 91 perché era stato dalla parte di Saddam Hussein, e lui gli rispose "Chi io? Mai!" come se la memoria dovesse ubbidire alle sue esigenze, come tutti quelli che gli si inchinavano. Arafat cambiava date e luoghi della sua vita, sovvertiva la verità firmando l’accordo di Oslo e dichiarando ai suoi che era come la pace con i Kuresh di Maometto, una finta per batterli. Israele lo vedeva ma faceva finta di niente. La svolta negativa cruciale l’ha avuta, paradossalmente, proprio con gli accordi di cui era stato partner fino al Premio Nobel comune con Rabin e Peres. Il pubblico israeliano ha applaudito fino a spellarsi le mani alla firma della pace di fronte alla Casa Bianca, Clinton benedicente; da qui è passato, attonito, alla visione di Arafat che rifiuta a Camp David e poi a Taba uno stato palestinese quasi identico a quello richiesto euna immensa quantità di aiuti internazionali per trasformarsi in un leader che esalta i mille "shahid2 che avrebbero dovuto marciare su Gerusalemme per liberarla.
Anche la sinistra cominciò a chiedersi come mai fra il 1994 e il 2000 Israele avesse permesso che si moltiplicassero le milizie armate molto oltre l’accordo di Oslo, che cominciasse quella politica di pieno e ricco riarmo che condusse fino alla nave Karine A, due anni fa. Arafat era sempre "rilevante", era nonostante tutto il pater di pace per amore o per forza, fino al 28 marzo 2002, a due anni dallo scoppio dell’Intifada (che lo storico arabo Fuad Ajami chiama semplicemente la guerra di Arafat) con centinaia di morti, quando un terrorista suicida ne fece 23 più 130 feriti alla cena rituale della Pasqua a Netanya. Da allora nasce il nuovo Arafat che Sharon definisce "irrilevante" e che lo diventa sempre più via via che Abu Mazen dopo avere promesso a Bush insieme a Sharon di avviare la Road Map, viene esautorato mentre cerca di dividere le milizie tutte in mano ad Arafat e di cominciare una cauta critica del terrorismo. E’ finita male la storia di Arafat e di Israele: il raiss nell’isolamento di Muqata, mentre il suo popolo è affaticato, decimato, squarciato da terribili scontri interni specie a Gaza dove Hamas è particolarmente forte. Israele non si capacita ancora, in definitiva, della strada intrapresa da Arafat quando fu invitato a tornare da Tunisi. Eppure aveva fondato il Fatah nel 1959; aveva tutte le vesti del potere nella gestione della vita palestinese, il Fatah l’Olp, l’Autonomia palestinese, era nato nella Fratellanza islamica, era diventato un laico socialista e poi di nuovo un leader religioso… Aveva vissuto mille guerre, sfiorato la morte mille volte, e aveva conquistato per il suo popolo un posto molto evidente nell’opinione pubblica internazionale. Adesso, persino il complicatissimo incrociarsi degli annunci di decesso, di coma, di morte clinica, e le smentite che si sono rincorse per giorni fino alla notte scorsa, hanno confermato la personalità dell’uomo sulla cui natura si seguita a discutere e di cui si si seguiterà per anni cercare di decifrare la personalità. Certi però di una cosa: tutte le sue facce e le sue caratteristiche sono sate protese a creare una lotta passata sempre più palesemente da una dimensione territoriale a una dimensione escatologica, quasi semovente, alla cui base c’è l’idea dell’estraneità dello Stato d’Israele in Medio Oriente, la necessità del ritorno dei profughi del 1948 e le conseguente conquista demografica del territorio unita a quelle delle armi del terrorismo. Eppure Israele ha pensato, finché il realismo di Sharon non si è incontrato con quello di Bush, che ha auspicato una nuova leadership, che la forza di Arafat portasse alla fine alla pace. Persino quando dalla Giordania e poi dal Libano i terroristi puntavano (già prima dell’occupazione) ai kibbutz e ai villaggi del Nord, e persino al tempo dell’eccidio di tutta la delegazione di atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, o dei bambini della scuola di Maalot, pure fino a questa recentissima ondata di attacchi suicidi, ha seguitato a credere che egli fosse il pragmatico interlocutore di un processo di pace. Arafat ha compiuto la scelta della delegittimazione di Israele da quando cominciò negli anni 70, anche grazie allo stretto contatto con i movimenti antimperialisti, con l’Urss e i leader vietnamiti, a definirlo un paese razzista, imperialista, colonialista, persino di aparthaid. Ha creato un enorme movimento di biasimo del suo nemico ed è per questo difficile, pensa Israele oggi, che un nuovo leader scelga una piattaforma di pace ignorando l’opinion pubblica internazionale. Arafat ha piantato un odio profondo nel Medio Orient, oggi che una sensata rivendicazione territoriale sarebbe probabilmente stata soddisfatta da tempo se il secondo fattore non avesse preso il sopravvento: in queste ore si apre la questione del ritorno del suo corpo e della sua sepoltura, che può infuocare al calor bianco un Medio Oriente che ha bisogno di pace e che ne ha fatto uno dei suoi primi simboli di irriducibilità.
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