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Il Manifesto Rassegna Stampa
04.11.2004 La rielezione di George W. Bush è una buona notizia per Israele
livore e un certo realismo nell'analisi di Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 04 novembre 2004
Pagina: 5
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Giubilo a Tel Aviv, buio nell'Anp»
Situa a Tel Aviv anziché a Gerusalemme la capitale di Israele, definisce Bush, il primo presidente statunitense a porre come obiettivo della sua politica la nascita di uno stato palestinese, un presidente deciso "ad avvallare, continuamente e senza fiatare, qualsiasi politica di occupazione nei Territori palestinesi", cita in modo incompleto il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom che, dopo aver detto di ritenere improbabili pressioni americane su Israele, ha aggiunto che "In ogni caso non c'è mai bisogno di pressioni, perché noi siamo più che desiderosi di raggiungere accordi con i nostri vicini" (vedi da IL GIORNALE, 04-11-04, "Il compiacimento di Sharon: può continuare sulla sua linea).
Michele Giorgio che, sul MANIFESTO di oggi, 04-11-04,, racconta le reazioni israeliane e palestinesi al secondo mandato presidenziale di George W. Bush, non rinuncia, insomma, alle dosi massicce di propaganda cui ci ha abituati.
Il suo articolo, tuttavia formula alcune previsioni interessanti, che certo non nascono, a differenza di quella che dava Kerry per vincente sul giornale di ieri, "come effetto di un desiderio" (vedi, oggi sulla prima pagina del quotidiano comunista, "Manifesto fuori orario"): Bush continuerà a ritenere Arafat un interlocutore inaffidabile, non eserciterà pressioni su Israele (non gli chiederà cioè di cedere al terrorismo e di mettere a repentaglio la propria sicurezza), contrasterà i programmi nucleari iraniani.
La vittoria elettorale di George W. Bush, insomma sembrerebbe proprio una buona notizia per Israele e una cattiva notizia per i terroristi palestinesi e per il regime degli ayatollah.
Giorgio, ovviamente, se ne dispiace, ma, per una volta, potrebbe aver detto qualcosa di vero.
Ecco l'articolo:

E' proprio un periodo fortunato per Ariel Sharon. Nel giro di pochi giorni la Knesset ha approvato il suo piano di ritiro da Gaza e, ieri pomeriggio, anche la legge sugli indennizzi ai coloni. Qualche giorno fa il suo storico nemico, Yasser Arafat, è stato portato d'urgenza in Francia per gravi problemi di salute. Infine ieri George Bush, suo fedele alleato nella lotta con ogni mezzo contro il «terrorismo», è stato riconfermato alla Casa bianca. Tutto procede secondo i piani del premier israeliano che nelle prossime settimane, una volta superato lo scoglio della approvazione della finanziaria, potrà procedere con l'aiuto dei laburisti di Peres alla realizzare del progetto di uscita dalla minuscola Gaza e di annessione di ampie porzioni di Cisgiordania. Non soprende perciò l'umore nero dei palestinesi, in particolare dei dirigenti dell'Anp. Bush non metterà fine al boicottaggio totale di Arafat, in linea con la politica di Sharon, e tornerà a chiedere la formazione di «una nuova leadership palestinese». Contento Sharon, il suo governo ma anche tanti laburisti - che non smetteranno mai, come la destra, di ringraziare Bush per aver «risolto il problema Iraq» - e la stragrande maggioranza degli israeliani. Nelle settimane scorse un sondaggio di opinione aveva messo in luce che fra una decina di paesi al mondo, i più favorevoli al presidente repubblicano erano Israele e Russia.

Kerry, aveva fatto di tutto nei mesi scorsi per mostrarsi un grande amico di Israele ma Sharon un altro come Bush dove lo trova? Non nascono tutti i giorni presidenti Usa decisi ad avallare, continuamente e senza fiatare, qualsiasi politica di occupazione nei Territori palestinesi. Bush, si ritiene a Tel Aviv, si prepara a mandare in pensione il segretario di stato Powell, l'unico che, sia pure con il contagocce, ha cercato in questi quattro anni di somministrare qualche pillola di ragionevolezza alla politica Usa in Medioriente. Al posto di Powell probabilmente verrà nominata il «falco» Condoleezza Rice mentre uno dei più importanti teorici della «guerra preventiva», Paul Wolfowitz, diventerà consigliere per la sicurezza nazionale. Si tratta di esponenti americani che ammirano Sharon e appoggiano apertamente la sua linea dura anche nei confronti dell'Iran accusato da Israele di volersi dotare di armi nucleari. Il rafforzamento dei repubblicani peraltro confermerà la linea di Washington nei confronti di Tehran. Il ministro degli esteri Silvan Shalom, ha ostentato ottimismo. «Non penso che ci saranno pressioni Usa su di noi» ha detto, smentendo un'analisi di senso contrario elaborata dal suo ministero. In ogni caso l'ambasciatore Usa a Tel Aviv, Daniel Kurtner, si è affrettato a precisare che «le parole pressioni su Israele non fanno parte del vocabolario del presidente degli Stati uniti».E' perciò caduto subito nel vuoto l'auspicio formulato da Arafat, attraverso la sua portavoce a Parigi Leila Shahid, per un secondo mandato di Bush «diverso» dal primo. Tutti hanno poi notato l'inutile affanno del consigliere Nabil Abu Rudeinah nell'affermare che l'Anp «è pronta a dialogare con qualsiasi Amministrazione Usa intenzionata a sostenere la road map». La verità è che i dirigenti dell'Anp speravano disperatamente nel successo di Kerry, come ci ha detto l'analista Hani Masri, del Palestinian Media Center. «E'inutile nascondere la verità. Kerry è amico di Israele ma, allo stesso tempo, lasciava intravedere un atteggiamento diverso rispetto alla politica aggressiva di Bush. Ci attendono altri 4 anni di guerre, violenze e sostegno incondizionato a Sharon», ha affermato.
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