Il coraggio di Sharon secondo Vittorio Dan Segre, l'Università La Sapienza schierata contro Israele un'intervista e la risposta a una lettera
Testata: Il Foglio Data: 01 novembre 2004 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Segre ci spiega il coraggio tragico di Sharon, l’epopea antica e nuova dei coloni, il dopo Arafat - Il Magnifico Rettore ci invia una lettera elusiva e scadente»
A pagina 11 dell'inserto IL FOGLIO di sabato 30-10-04 pubblica l'intervista di Giulio Meotti a Vittorio Dan Segre: "Segre ci spiega il coraggio tragico di Sharon, l’epopea antica e nuova dei coloni, il dopo Arafat", che di seguito riproduciamo. Se non ci sarà un governo di unità nazionale e si andrà alle elezioni, è possibile che Sharon fondi un nuovo partito con Shinui, metà dei laburisti e del Likud. Non può andarci con quello che lo ha squalificato. E poi il Likud è una sua creazione". Vittorio Dan Segre, saggista e presidente dell’Istituto di Studi mediterranei di Lugano, non esclude una nuova alleanza sulla base dell’evacuazione. Anche Yediot Aharonot parla della possibile fine politica del Likud: "Attualmente si trova in sala di rianimazione". Sharon è riuscito dove gli altri hanno fallito perché non ha mai negoziato con Arafat. In caso di scomparsa del rais, secondo Segre, bisognerà distinguere fra la fine dell’uomo e del simbolo: "Dell’uomo: si aprono nuove strade di negoziato, la guida palestinese in mano a una generazione che non ha conosciuto la tragedia del 1948 e del 1967 e che proprio a causa della permanenza nelle prigioni israeliane conosce Israele molto meglio degli uomini dell’Olp che hanno vissuto all’estero, i ‘tunisini’". Ma tutto questo non intacca la forza del simbolo Arafat. Se muore nel suo letto e non come lui sperava, da una pallottola o sotterrato nel suo bunker, diminuirà la sua forza postuma. "Il simbolo rimarrà più per le masse arabe che per i palestinesi, che lo hanno conosciuto da vicino". Ben Gurion sarebbe stato d’accordo con Sharon, forse Begin, di certo Dayan. Golda Meir disse che non era possibile ritirarsi da Gaza. "E’ da vedere se avrebbe cambiato idea". Non vuole fare l’ostentato ottimista, ma Segre crede che i rischi di una guerra civile in Israele siano sì concreti, ma non più gravi di quelli che accompagnano la vita di tutti i paesi in guerra. "Gli interessi dei coloni si trovano nei quartieri intorno a Gerusalemme e in quegli insediamenti urbani in cui vive il 90 per cento di loro, come Ariel e Maale Adumim. Non ci sarà uno schieramento compatto. E in un anno possono succedere molte cose. Parlare di guerra civile senza farla è un po’come la Violetta della Bohème, che muore per 45 minuti". Grandi rabbini come Ovadia Yossef, del partito Shas, hanno detto che il possesso della terra non vale la morte di un solo ebreo. Non sostengono Sharon perché, dicono, un’evacuazione che non garantisca la fine dell’uccisione di ebrei è più pericolosa di rimanere sul posto. "Il fronte religioso non è unito in questa forma magica di denuncia di Sharon soggetto a essere eliminato in quanto ‘traditore della Legge’. Sono solo una minoranza". Segre pensa che il politically correct e i palestinesi paghino oggi il prezzo di una menzogna continua su Sharon: "Lo hanno tacciato delle peggiori tendenze fascistizzanti. Sharon è sempre stato un attivista militare laburista. E’ passato alla destra quando Rabin rifiutò di nominarlo capo di Stato maggiore". Non è escluso che il piano di disimpegno possa estendersi ad altre parti della Cisgiordania: "Se questo ritiro produrrà una riorganizzazione palestinese è possibile che si ritorni al piano di Barak, alle linee del 1966, con l’annessione di grandi insediamenti. Se invece i palestinesi la faranno sembrare una fuga e una fotocopia del Libano nessuno muoverà un dito". Nel suo storico discorso alla Knesset, il premier ha detto di sentire tutto il peso drammatico della scelta: "Per un uomo che è stato il motore della colonizzazione, evacuare quella ‘gente meravigliosa’ è una tragedia. Ma è una di quelle tragedie che rendono i politici uomini di Stato". Per capirne il coraggio, basta pensare che Sharon è il primo ebreo che ha deciso di portare via i propri fratelli da quella terra. Come precedente, dicono i suoi detrattori, c’è il 586 a.C., quando Nabucodonosor li deportò a Babilonia. Sharon ha parlato anche di Bet El tra i possibili insediamenti da smantellare. Nemmeno Barak, che offrì ad Arafat il 97 per cento dei Territori, ebbe il coraggio di nominarlo, disse che il suo cuore di ebreo si ribellava. Perché Bet El è la Casa di Dio, dove Abramo piantò la tenda e Giacobbe sognò la scala con gli angeli. Ma il cuore di Sharon ha retto. Sui coloni e su quella che Herzl chiamava l’"antica nuova terra", è in corso una martellante campagna di delegittimazione: "Mentre i musulmani sostengono addirittura un diritto verso l’Andalusia, le radici storiche d’Israele vengono da sempre delegittimate. Anche il ritorno della religione nella politica, presente anche negli Stati Uniti, nel caso di Israele è negato". E così si dimentica che Mod’in è stato il luogo di una celebre vittoria sui greci, che a Bet Horon i maccabei combatterono con i seleucidi o che a Tekoah fu preso l’olio magico per la menorah del Tempio. Secondo Segre, la questione demografica è determinante nel piano di Sharon. Israele, dopo il 1967, ha tre alternative: essere territorialmente grande, non ebraico e democratico; grande, ebraico e non democratico; piccolo, ebraico e democratico. "Gli israeliani vedono quest’ultima come la soluzione più ragionevole, con alcune variazioni sui confini armistiziali, su cui non grava alcuna santità perché non riconosciuti dagli arabi". Nessuno meglio di Dan Segre, che da giovane piemontese emigrò nella Palestina britannica per le leggi razziali, è in grado di tracciare un bilancio dell’esperienza sionista: "E’ stato come il risorgimento italiano e rappresenta una sola cosa: la decisione di fermare la caccia gratuita all’ebreo. Non la caccia, che continuerà, ma quella gratuita. Il mondo non ha capito che anche un gatto, in difesa della propria sopravvivenza, diventa una pantera. E’ questo il sionismo". Una delle grandi energie d’Israele resta l’immigrazione e da paese di rifugio per ebrei si è trasformato in paese di richiamo di emigranti: "Tutti vogliono stabilircisi. Il 30 per cento dei russi, per i rabbini il 50, non è ebreo. 150 mila lavoratori stranieri vogliono vivere in Israele senza diventare ebrei". Non è più immigrazione ebraica, si prefigura una società che sarà ebraica perché parla, legge, va a teatro e fa il servizio militare in ebraico, come i 70 mila drusi che assolvono la leva. "Sarà una democrazia ebraica. In 50 anni si è passati da 500 mila a 7 milioni di abitanti. Cento anni fa soltanto un centinaio di persone in tutto il mondo parlava ebraico. Oggi dai 7 agli 8 milioni". Che è il doppio del numero degli inglesi che parlava inglese al tempo di Shakespeare. Secondo Segre, quella dei coloni resta un’epopea, la continuazione del pionierismo ebraico: "Hanno cercato una vita differente, non sono andati lì perché gli hanno dato una casa. Erano e sono lì per garantire un possesso che doveva e deve essere scambiato. Per questo quando uccidono un colono dicono ‘creiamo un altro insediamento’". Ma questi pionieri avranno un futuro non nei Territori, ma nel Negev: "La colonizzazione, da agricola, sarà post–industriale: le distese vuote del deserto offriranno la possibilità di un’espansione di vita. Tutti i risorgimenti politici hanno una fine quando realizzano il loro scopo". Il giorno in cui non ci saranno più i padri della patria, condizionati dall’epopea della fondazione d’Israele, nascerà "una nuova generazione di tecnocrati e di post –industriali, che guardano alla scienza e alla vita dello spirito come a qualcosa di molto più forte dell’attrazione economica". Si svilupperà una forma nuova di ebraismo, in cui fioriranno due elementi marginali nella Diaspora: "La donna, che sta già prendendo piede nell’ambiente religioso israeliano, e la Qabbalah, una corrente metafisica più vicina al pensiero asiatico che a quello europeo. Sarà un razionalismo trascendentale non materialistico". Una rivoluzione che per Segre corrisponderà più alla posizione geografica d’Israele anello fra oriente e occidente che allo storico trasferimento di ebrei occidentali in un paese del Mediterraneo. Stando al sogno di Ezechiele, nell’epoca messianica i morti ritroveranno i loro corpi e nei morti verrà di nuovo soffiato l’afflato divino: "L’epopea sionista è una rinascita di morti nella carne. Israele è la terra dei frammenti umani, gli ebrei in tutto il mondo erano considerati un popolo di ombre". Il filosofo francese André Neher chiamava Israele "il frutto della notte di Auschwitz". E’ la realizzazione della profezia biblica di Amos, "pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto", per Segre il "baluardo dei valori giudeo–cristiani e occidentali nel grande scontro con un islam terrorista ed espansionista". Verso l’islam, Israele incarna qualcosa di molto simile a Venezia, quando nel 1571 l’ignavia dell’Europa e l’alleanza fra la Francia e il sultano aprirono con la sua caduta la marcia degli ottomani su Vienna: "Con una differenza, che l’Europa dovrebbe capire: Israele non è disposto a fare la fine di Famagosta e di Marcantonio Bragadin, spellato vivo dai turchi, le orecchie e il naso tagliati dopo aver resistito per undici mesi all’assedio". A una lettera elusiva del Rettore della Sapienza, che tende a negare la posizione antisraeliana della sua università, risponde, citando fatti molto gravi, Giulio Meotti. Riportiamo la lettera e la risposta. Al direttore - Desidero esprimerLe il mio stupore dopo aver letto l’articolo pubblicato il 27 c.m. sul Foglio, a firma Giulio Meotti. Fin dal titolo "Intanto alla Sapienza di Roma ci si affilia con l’ateneo di Hamas", l’autore insinua che attraverso l’Unione delle Università del Mediterraneo (UNIMED), l’Università "La Sapienza", da me presieduta, sostenga una posizione anti-israeliana, o addirittura accostata alla utenza dei kamikaze. Questo accostamento con il terrorismo, in sé infamante, non è degno di un giornale che intende informare correttamente i suoi lettori. Per questo La invito a pubblicare questa lettera con le dovute precisazioni: 1) L’UNIMED è un consorzio di 73 atenei delle due sponde del Mediterraneo, nel quale sono presenti quattro università palestinesi e due università israeliane, mentre une terza, l’università Ben Gurion, ha proposto la sua adesione ed è in attesa della decisione della Commissione di Direzione, eletta durante l’Assemblea generale e composta dai nove rettori delle Università di Aix-Marseille, Constantine, Granada, Il Cairo, Istanbul, Nablus, Rabat, Reggio Calabria e Tunisi (e non da uno "sciame di docenti"), oltre che dal sottoscritto e dal Direttore Generale, Prof. Franco Rizzi, dell’università di Roma Tre. 2) L’UNIMED è impegnata in attività di formazione e ricerca a cui prendono parte docenti, esperti e studenti israeliani e palestinesi, arabi e europei. A titolo di esempio, Le citerò le attività legate al Patrimonio Culturale euro-mediterraneo, durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea nel 1996, cui sono intervenuti esperti israeliani e palestinesi, il master finanziato dall’UE sulla gestione del Patrimonio culturale euro-mediterraneo nel Rettore ci invia una 1998-99, cui hanno partecipato docenti palestinesi e israeliani, la presentazione del libro-ricerca della giornalista Simonetta Della Seta "Il prezzo della non-pace" eccetera. 3) All’indomani degli accordi di Oslo, l’UNIMED e l’Università "La Sapienza" hanno riunito i rettori delle università israeliane e palestinesi per discutere le forme e i campi di collaborazione. L’UNIMED ha inoltre pubblicato la rivista RIVE del cui Comitato di redazione faceva parte anche Irad Malkin, mentre Shlomo Ben Ami era membro del consiglio editoriale, e sulla quale hanno scritto intellettuali europei, arabi e israeliani in uno sforzo di riflessione comune. 4) L’articolo tira infine in ballo la trasmissione "Il Chiosco, sguardo sulla stampa euro-araba": anche in questo caso, Meotti si guarda bene dal segnalare che figurano, fra le testate citate dalla trasmissione, giornali come "Jerusalem Post" e "Haaretz", e che fra gli ospiti intervistati vi sono stati: Ofer Bavli, portavoce dell’ambasciata d’Israele a Roma; Bruno Segre, scrittore ed esponente di "Neve Shalom-Wahat-al-Salam"; Yossi Bar, giornalista e corrispondente di Radio israeliana e di Yedoth Ahronoth. 5) Quanto alla Tavola Rotonda, annullata per la indisponibilità di alcuni esperti e non "fallita" come scrive Meotti, erano stati invitati Tareq Ramadan, Giorgio Israel, Mario Pirani, Giuseppe Pisanu, Alessandro Portelli, Pierre-André Taguieff, Giorgio Meli, Miriam Mafai. Concludo invitandoLa ad attenersi ai fatti, con distinti saluti, Prof. Giuseppe D’Ascenzo Rettore dell’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" Presidente dell’UNIMED
Invitiamo il Magnifico Rettore a replicare ai fatti, a non scantonare, a scrivere lettere più serie. E’ vero, due università israeliane sono nel consorzio Unimed, Tel Aviv e Gerusalemme. Ma il Rettore elude il problema che avevamo posto: non un solo docente israeliano fa parte del board di Unimed accanto a Rami Hamdallah, Rettore dell’Università An Najah di Nablus. Nel "Chiosco" di Unimed ci sono articoli del Jerusalem Post, ma a dire la verità solo uno, contro le decine di quotidiani arabi e quell’uno titola: "La morte di Yassin potrebbe generare attacchi anche all’estero". Il che parla da solo. Come parla da solo il marocchino Le Matin: "Una guerra di sterminio colpisce il popolo palestinese" e "tra la violenza di un disperato palestinese che si fa saltare in aria e quella di un soldato israeliano che massacra civili a sangue freddo, obbedendo agli ordini di uno Stato terrorista, non c’è alcuna simmetria". Come parla da solo Al Quds Al Arabi: "Il sionismo sta sul punto di sradicare l’islam e i musulmani e di cancellarli dalla faccia della Terra". Ci domandiamo cosa diranno in Israele quando verranno a sapere che l’università italiana a cui sono affiliati non solo organizza seminari sugli Hezbollah, su cui il Rettore sorvola nella replica, ma sfoggia nel suo consorzio l’università An Najah, principale centro di reclutamento di Hamas nella West Bank. Di questa Università nella sua replica il Rettore non parla. E visto che siamo un giornale che vuole informare i lettori senza infamare nessuno, ricordiamo che sei kamikaze, che hanno portato a termine attentati contro civili israeliani, erano studenti di Najah: Hashem Najer (Mekhola, dicembre 2000); Hamed Abu Hijla (Netanya, gennaio 2001); Jamal Nasser (Nablus, aprile 2001); Muayad Salah (Baka al Sharkiya, novembre 2001); Asam Reihan (Emanuel, dicembre 2001); Darin Abu Aisha (Makabim, febbraio 2002). A luglio l’esercito israeliano ha bloccato quattro studenti che progettavano un attentato a Shoham, vicino all’aeroporto Ben Gurion. Nel gennaio del 2003 centinaia di studenti legati ad Hamas hanno costretto il professore palestinese Sari Nusseibeh, che doveva tenere una conferenza a Najah, a fuggire dal campus. Nel giugno del 2002 studenti dell’ateneo furono arrestati nei pressi del quartiere di Nablus Raffidiya, intenti a organizzare un attentato. Nel settembre scorso due studentesse di Najah sono state fermate a un posto di blocco in Cisgiordania con dell’esplosivo. Nel consiglio universitario del 2001 sedevano 48 membri di Hamas e del Jihad islamico. All’ingresso del campus c’è stata una celebrazione dell’attentato alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme, costato la vita a 15 israeliani. Nel luglio del 2002 il consiglio degli studenti di Najah ha dichiarato che gli ebrei sono "maiali" e "Satana" e che gli attacchi suicidi di Hamas continueranno. Non è sufficiente questo per spingere Unimed a ripensare le "attività di formazione e ricerca" con l’Università An Najah? Il Rettore non menziona il seminario del 18 marzo 2004, "Il valore dell’acqua", che, come abbiamo già scritto, si concluse con un filmato sul "Muro". Vi parteciparono tra gli altri un docente di Hebron, iracheni, libanesi, egiziani e la Mezza Luna Rossa palestinese. Ma come per il board di Unimed, nemmeno un israeliano. La Tavola Rotonda sull’antisemitismo non è fallita, non s’è mai fatta. L’indisponibilità di cui parla il Rettore fu dovuta al fatto che la presenza di Tariq Ramadan convinse alcuni partecipanti a rinunciare. Tra questi Taguieff, inserito da Ramadan in una "lobby di ebrei comunitaristi". Caroline Fourest ha appena pubblicato "Fratello Tariq", in cui accusa Ramadan di essere la longa manus dei Fratelli musulmani per realizzare la "dawa" in occidente, cioè la conversione del Vecchio Continente all’islam fondamentalista. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.