Elogio di un terrorista in cattiva salute firmato Igor Man
Testata: La Stampa Data: 29 ottobre 2004 Pagina: 11 Autore: Igor Man Titolo: «Arafat. Quegli incontri stravaganti con l'irriducibile Fedayn»
A pagina 11 de LA STAMPA di oggi, 29-10-04, Igor Man scrive l'elogio (quasi) funebre di Yasser Arafat. Eccol'articolo: Negli ultimi giorni, prima che la malattia lo piegasse, Arafat passava quasi tutta la giornata nel suo letto, che in verità era una branda arrangiata alla meglio in quella che fu la foresteria dell'Autorità palestinese, in Ramallah. In fatto, già da tre anni, Arafat viveva in mezzo ai calcinacci e a precari rifugi, in una confusione di carte e di asciugamani ragnati, di piatti sporchi e di divise amorosamente stirate dai suoi ultimi tre fedelissimi. "Un topo di fogna", ecco, oramai, cos'era Arafat pei suoi nemici, non tutti israeliani, va detto, poiché anche nei ranghi della Resistenza palestinese non erano in pochi a rimproverargli "un allucinante campionario di insuccessi, frutto della sua incapacità di far politica". Lui, al Khitiar, conosceva bene gli umori della sua gente, dentro e fuori della Muqaba dove l'irriducibile duellante, Sharon, l'aveva costretto non riuscendo, tuttavia, ad umiliarlo: Arafat aveva una grande opinione di se stesso anche se riconosceva di non disporre di quell'arroganza che fa un raîss. Egli si considerava, ed era, uno zaîm, vale a dire un capo che opera e dirige in forza della concertazione, solo dopo aver convinto tutti i suoi interlocutori della bontà del proprio assunto. S'è detto e s'è scritto che Arafat era un dittatore più dispotico di tanti altri, una sorta di Ceaucescu in versione araba. No. Mai nella sua avventurosa vita Arafat ha imposto qualcosa a chicchessia: era con la dialettica, con un argomentare implacabile fatto di sillogismi eccezionali ch'egli riusciva a convincere i suoi, anche personaggi come Abu Mazen per citarne uno soltanto, tosto, niente affatto sprovveduto. In un intervista a Newsweek, Abu Mazen dichiarò di aver abbandonato il suo incarico di premier dopo aver ricevuto minacce di morte. Alla domanda se queste provenissero anche da Arafat replicò dicendo che preferiva non rispondere, ma che poteva rivelare che, lasciato l’incarico di primo ministro, non aveva più voluto vedere il presidente palestinese. Forse perché ne temeva i "sillogismi eccezionali". Già, davvero "eccezionale" il sillogismo che consiste nel puntare una pistola, reale o virtuale, alla tempia dell’interlocutore. Non era né mai fu un raîss bensì uno zaîm alla fine democratico (nel recinto della mentalità semitica),
Riscriviamo l'ultimo passaggio, nel caso qualche nostro lettore non creda ai suoi occhi: Arafat sarebbe "alla fine democratico", sia pure "nel recinto della mentalità semitica". Ogni commento ci sembra superfluo.
era, è stato qualcosa di più e di misteriosamente grande: Mister Palestina, al Walid: il padre della Nazione palestinese, il simbolo della lotta senza quartiere col "nemico" per eccellenza e cioè la destra israeliana, i vecchi sionisti affamati della Terra che proclamavano Dio gli avesse dato: tutto Israele, Eretz Israel. Così il nemico per eccellenza di Arafat è stata la "destra sionista", cui evidentemente apparteneva anche Barak, leader del governo più a sinistra della storia di Israele quando il rais (pardon, lo zaim) scatenò la seconda intifada
Ho conosciuto Arafat al Cairo, nel dicembre del 1956, al tempo della crisi di Suez, un evento che segnò, in contemporanea col balzare di Nasser alla ribalta della Storia, la fine dei grandi imperi coloniali: la Francia, la Gran Bretagna. "Vieni domani alle undici al caffè Groppi, in piazza Soliman Pascià", mi disse Eddie Pollack, il mitico corrispondente dell'Ansa dal Cairo, "ti farò conoscere un tipino interessante". Quel tipino era Arafat, un giovinetto bene in carne, coi vestiti troppo stretti, un paio di scarpe da parà. "Sono un poeta", si presentò celiando. "Il mio poema si chiama Palestina, una Nazione antica che il panarabismo sta resuscitando", proclamò con la sua voce in falsetto, in un inglese spiccio. Durante la rapida campagna militare che aveva visto i soldati israeliani raggiungere il Canale di Suez occupando tutto il Sinai, Arafat aveva combattuto, valorosamente, coi suoi fedayn. La sua copertura, quando lo conobbi, era quella di rappresentante degli studenti palestinesi al Cairo. Va detto subito che Nasser lo stimava ma ne temeva l'irruenza. Fu quello fra il predicatore dell'arabismo e il rivendicatore della Palestina un rapporto curioso, una mistura di ammirazione e di sospetto, di timore e di gelosia. Forse è vero che Arafat non fosse un politico ma non lo era neanche Nasser, l'uomo dal rischio calcolato epperò i due avevano in comune una dote straordinaria, il karisma. Quell'incontro con lui patrocinato da un giornalista dalla vista lunga ebbe un seguito, qualche anno dopo. Per metter fine alla guerriglia che Arafat comandava clandestinamente dalla Giordania, Israele decise di attaccare il quartier generale palestinese che in quel tempo era a Karameh, un villaggio sulla sponda orientale del fiume Giordano. Nonostante i suoi lo sconsigliassero, Arafat decise di osare l'inosabile: il 31 di marzo del 1968 attaccò di sorpresa le possenti forze di Israele. La reazione israeliana fu immediata ma quei soldati si trovarono di fronte a una resistenza inimmaginabile: i poveracci, l'armata Brancaleone palestinese (con la quale, inopinatamente, si schierò una divisione d'artiglieria dell'esercito giordano) costrinsero dopo una giornata intera di combattimenti allo spasimo gli israeliani alla ritirata. Le perdite palestinesi furono alte, l'abitato di Karameh finì sbriciolato ma i palestinesi erano in piedi, a fronte alta: avevano dimostrato ai "fratelli" arabi che Israele non era invincibile. L'impatto della battaglia di Karameh fu enorme, e furono in tanti i giornalisti che si precipitarono a Salt dove Abu Ammar, il misterioso capo dei fedayn, aveva convocato una conferenza stampa. Portava gli occhiali scuri e in testa la keffia come un elmo prussiano, il kalashnikov appeso al braccio quasi fosse un ombrello. Ma io questo tipo l'ho già visto, non feci altro che dirmi durante tutta la sua lunga dichiarazione: "La Nazione palestinese esiste, la stiamo ricostruendo, torneremo a Gerusalemme la santa". 'Sto tipo parla con spiccato accento egiziano, mi ricorda qualcuno..., mi dicevo finché non s'accese la lampadina della memoria ritrovata: era lui, il giovine poeta palestinese che Pollack mi aveva fatto conoscere al Cairo, nel 1956. Lo avvicinai a conferenza finita, per dirgli: "Non crede che ci siamo già incontrati, le dice niente il caffè Groppi...", ma lui mi gelò: "Mistake", sibilò e fece un gesto ai suoi uomini che con dura cortesia mi costrinsero al dietrofront. Nell'aprile del 1970, pressoché alla vigilia del Settembre Nero, ad Amman riuscii ad incontrare, con calma, nella sede dell'OLP, Abu Ammar, cioè Yasser Arafat che aveva dismesso quel suo nome di battaglia. Gli ricordai il suo "Mistake" di Karameh ed egli mi rimproverò: "Ma che genio - mi disse pressappoco -, allora a Karameh io ero il capo misterioso della resistenza palestinese e secondo te avrei dovuto sfasciare tutto giusto per darti una piccola soddisfazione... andiamo". Dopo la strage del Settembre Nero, quando tutti non avrebbero speso un soldo per Arafat e i suoi, grazie alla dura pressione esercitata da Nasser sul piccolo Libano democratico, i palestinesi trovarono rifugio nel paese dei cedri. Segnando la sua disgrazia. Una volta ancora il demone dello Stato nello Stato sedusse Arafat e in fatto, giorno dopo giorno, il potere effettivo passava sottobanco all'OLP, ed era Arafat a trattare, a manovrare, a decidere, a rilasciare visti e permessi ai corrispondenti. Non sappiamo se veramente Arafat coltivasse il disegno di fare del Libano lo Stato palestinese (ancorché provvisorio) ma tutto lasciava pensare che lo strapotere dell'OLP avrebbe sancito nei fatti la nascita di una Nazione (provvisoria) palestinese nel già tranquillo Libano. Ce ne era d'avanzo perché Israele si muovesse. L'allora primo ministro Begin, da buon politico, non voleva imbarcarsi in una avventura militare che avrebbe pestato i piedi un po' a tutti, ma il ministro della Guerra, il mitico generale Sharon, riuscì a convincerlo: bisognava far fuori Arafat e i suoi uomini, in caso contrario l'Alta Galilea non avrebbe avuto mai pace. Begin cedette e fu l'improvvida spedizione "Pace in Galilea" del 1982, con l'appendice cruenta della strage di Sabra e Chatila compiuta, come da sentenza dell'Alta Corte di Tel Aviv, senza remora alcuna dai falangisti libanesi coperti com'erano dalla "distrazione" di Sharon La commissione d’inchiesta israeliana che ha indagato sulla strage, anche se ha contestato a Sharon la mancata comprensione delle intenzioni dei falangisti e il non averli fermati, non gli ha per nulla imputato di aver garantito loro l’impunità per un massacro di civili, come si evince da queste righe. E riprese il duello, tra i due vecchi nemici: animosi ma in debito d'ossigeno. Duello sterile poiché Sharon non riuscì a far fuori il suo arcinemico, il piccolo misirizzi Arafat. Ora la vendetta, meglio: lo spirito di vendetta Nessuno spirito di vendetta: salito al governo Sharon ha a lungo tentato di trattare con Arafat, prima di riconoscerlo come del tutto inaffidabile per il suo sostegno al terrorismo e il suo incitamento all’odio.
cede di fronte alla fine di Arafat non già sul campo com'egli romanticamente sognava, bensì in un ospedale, non già ferito a morte dal nemico ma pateticamente assediato da flebo, cateteri e tutto il resto che avvilisce un uomo come lui, senz'altro coraggioso e genuinamente animato dalla volontà di fare della Palestina mandataria lo Stato-focolare dei suoi "figli" eternamente traditi dai presunti fratelli arabi. Prima che Sharon lo mettesse agli arresti domiciliari, in uno dei suoi ultimi viaggi da leader, Arafat fu a Roma nell'agosto del 2001. Nel pomeriggio, all'"Excelsior", gli portai il nostro Novazio per una intervista. Abu Ammar volle vedermi, privatamente, la sera. Senza la keffiah a pepi bianconeri il suo cranio pelato lo faceva somigliare a un uccellino malandato. E non aveva indosso il giubbotto antiproiettile sicché la giacca del pigiama a righe copriva un torace modesto, quasi asfittico. Solo i suoi occhi erano quelli di Abu Ammar il coraggioso. Sapete di cosa, di chi parlammo ore e ore quella notte? Di Rabin, del suo incontro con Leah, la "coraggiosa vedova" del Soldato della Pace. Impossibile, per Arafat, celebrare a Gerusalemme Rabin, lui non era un nemico-amico come Re Hussein, gli era vietato essere come e con gli altri capi mediorientali. Il primo impatto con Rabin fu disastroso: una sorta di repellenza fisica da parte del generale-premier; diffidenza e timore da parte del vecchio fedayn. La prima breccia nella reciproca avversione venne aperta dal giovine Clinton con la sua famosa gomitata sul prato della Casa Bianca quando gli accordi di Oslo illuminavano d'una forte speranza il mondo tutto. Poi i due, Arafat e Rabin, scoprirono di avere lo stesso sogno: la pace per i figli dei figli. E smisero di odiarsi. Fu così che Arafat si recò, di notte, in abiti borghesi, a trovare Leah Rabin. Per una "visita di consolo", come nel nostro profondo Sud. Grazie a quella visita inopinata e da troppi ignorata, Leah scoprì, come disse con un sorriso triste, lei così bella e fiera, all'insolito visitatore, che "la Storia s'è mossa in ritardo. Peccato, con la morte di Ytzak è morta ogni speranza di pace". Un "cancro da dolore" uccise la cara e volitiva sposa-compagna del Soldato della Pace.
Arafat, abbandonando i negoziati e tornando al terrorismo, ha affossato il processo di pace di Oslo. Rabin stesso avrebbe dovuto far fronte all’offensiva da lui scatenata contro Israele difendendo il paese con la forza militare.
La medicina ufficiale non riconosce il "cancro da dolore", ma quello che ha disarcionato Arafat forse lo è "cancro da dolore"; anche il suo lo è, povero Abu Ammar così infamato da nemici e falsi amici,
Un passo pregno di una retorica fuori luogo. lui che annota in un quadernetto ogni spesa, sempre senza un dinaro in saccoccia, accusato di ladroneria, di corruzione.
Seguito da un passo esilarante.
Ecco un La Storia legittima tutti, suol dirsi. E assolve chi lo merita. D'accordo, ma spesso si muove tardi, quando il dolore dell'ingiustizia ha già predisposto il sudario.
Non è vero, per fortuna, che la storia assolve tutti. Ed’è già capitato molte volte che si sia incaricata di coprire di ridicolo e di vergogna, nella coscienza comune i necrologi e gli encomi magnificanti dei dittatori. Chissà che un giorno non accada anche per Yasser Arafat.
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