La Knesset approva il ritiro da Gaza le analisi e il commento di Fiamma Nirenstein su una decisione storica
Testata: La Stampa Data: 26 ottobre 2004 Pagina: 1 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «L'altro volto di Sharon - «Sharon come Rabin». Timori in Israele in Israele per l'odio degli ultrà - Sancito il divorzio tra Ariel e i settler»
L'approvazione del piano di ritiro da Gaza da parte del parlamento israeliano nell'editoriale di Fiamma Nirenstein, in prima pagina su LA STAMPA di oggi, 27-10-04 Quando Israele e il mondo intero ripenseranno alla data storica in cui in nome della pace fu scardinato uno dei credo fondamentali del sionismo, precedente alla Guerra dei Sei Giorni, ovvero l’idea dell’insediamento sulla terra come redenzione della sofferenza ebraica nei secoli, subito la memoria dipingerà loro il volto stanco e determinato di Ariel Sharon mentre rivolgendosi ai settler con voce incespicante e rotta dice al Parlamento: «E’ la scelta più difficile della mia vita»; e poi aggiunge rivolto ai profughi palestinesi: «Sento la pena del sacrificio degli innocenti fra di voi». Sharon, con la decisione di sgomberare Gaza e il Nord della Samaria, si è inerpicato sulla dura e incerta strada di Ytzchack Rabin: come lui è un generale, un capo di stato maggiore, un primo ministro, ma soprattutto un uomo che sa, come tutto il popolo d’Israele, come sia dura la guerra che uccide i figli e che colpisce anche gli innocenti dell’altra parte. Come Rabin, rischia sulla sua pelle, in ogni senso. Hanno buon gioco coloro che oggi, dopo la delusione di Oslo, lo avvertono del rischio di ulteriore spargimento di sangue. Ma Sharon capisce che Israele porta su di sé il compito di cercare una strada di pace anche nella selva del terrorismo. Megli Anni 70 Menachem Begin, uomo di destra, di natura intransigente, gettò tutto il suo peso nella pace con l’Egitto, segnando la strada che Sharon oggi segue. La seguì anche Ytzchack Shamir che andò nel ’91 al summit di Madrid per parlare con gli uomini di Arafat e promettere loro terra in cambio di pace. Ma Sharon non può portare a casa gli 86 voti di Begin, il suo successo personale, perché non ha di fronte un grande partner come Anwar Sadat, che attraversando oceani di odio e ghiaccio venne fino alla Knesset a portare una parola di pace. Non può contare neppure sulla speranza che ancora animava Shamir. La forza di Sharon la si capisce guardando nelle acque limacciose di questi quattro anni. Sharon non ha partner, ha subìto come primo ministro quattro anni di terrorismo suicida, ha combattuto con durezza e con molta riprovazione internazionale; il consenso non gli interessa. E non può negoziare la sua uscita da Gaza e da parte della West Bank: gioca al buio sulla possibilità che su Gaza libera si ricostruisca una leadership palestinese pronta a governare e a trattare, e punta il massimo sul rifiuto morale a dominare un popolo che diventa di giorno in giorno più disperato e demograficamente dominante. Intacca con le sue decisioni la sua stessa immagine, la cambia, la stravolge, la rende odiosa agli occhi di chi lo amava e amata agli occhi di chi lo odiava. La verità è che non lo abbiamo capito: Sharon non abbandona né l’idea enunciata fin da quando fu testa a testa alle primarie con Netanyahu, e chiese di essere eletto sull’ipotesi dello Stato palestinese, né cesserà di combattere la guerra al terrore, sconosciuta frontiera di uno scontro che implica anche i civili, con determinazione. Così facendo sconvolge gli schemi, specie quelli di coloro che se l’erano dipinto come il generale che entrò in Libano. Sharon invece vuole passare alla storia come il leader che uscì da Gaza. A pagina 6 l'analisi di Fiamma Nirenstein sulle reazioni della società israeliana al piano di ritiro, e sull'opposizione della destra e le minacce dei gruppi oltranzisti. A centro pagina la redazione esteri del quotidiano torinese ha inserito una cronologia della storia di Gaza alquanto fuorviante, in quanto non ricorda né le cause della guerra del 67 (l'aggressione degli stati arabi a Israele) né quelle dei "massicci raid israeliani nella Striscia di Gaza" nel 2001 (il terrorismo) Ecco l'articolo: "«Sharon come Rabin». Timori in Israele in Israele per l'odio degli ultrà" «Dopo Rabin, arriveremo anche a Sharon». Ieri mattina, sui muri di pietra di Gerusalemme si sono scoperte decine di scritte di questo tenore. L'orrore della città è stato grande, le scritte sono state immediatamente cancellate. Più tardi sono stati fermati alcuni giovani che appartengono a movimenti estremisti come il Kach, ma la temperatura del pubblico israliano è al calor bianco fuori e dentro la Knesset. Nel parlamento, intorno alle porte dei parlamentari, specie di quelli del Likud spaccato e sofferente, una folla eccitata chiedeva ai singoli deputati e ministri di votare in questo o quel modo, con pressioni quasi fisiche; fuori della Knesset un urlio di slogan contro lo sgombero, poliziotti armati fino ai denti, sicurezza triplicata fino nelle stanze del parlamento stesso. «Il mio voto viene dato nella santificazione del nome di Dio». Quando ha votato per il programma di Sharon, il rabbino Michael Melchior - uno dei 29 membri religiosi del parlamento che hanno votato a favore dello sgombero - ha anche pronunciato in ebraico una benedizione. Il rabbino Melchior, che è stato ministro nel passati governo di sinistra, ha cercato col suo gesto di calmare il terribile nervosismo del suo mondo, di servire da esempio al pubblico religioso che in questi giorni, eccitato dalle prese di posizione di alcuni rabbini, si rivolta contro Sharon in toni pericolosamente aggressivi; ha spiegato che i grandi saggi della passata generazione hanno sempre dimostrato grande moderazione e che sono del tutto arbitrarie e persino folli le prese di posizioni come quelle di rav Shapiro e rav Eliahu, che comandano la disobbedienza militare o che, peggio ancora, lanciano maledizioni bibliche contro la politica di Sharon e quindi contro l'uomo stesso, ormai ritenuto da tutti gli esperti a rischio della vita. Il risultato di tutto ciò è un clima molto pericoloso: fuori del parlamento i rabbini in vesti solenni, nere e d'argento, arringavano migliaia di giovani, ammonendoli a non abbandonare «Eretz Israel»; dentro il tempio della democrazia israeliana, la svolta storica dello sgombero è stata sommersa di proteste e protetta con le armi della polizia. Le minacce che oggi investono Sharon, proprio nel nono anniversario dall'assassinio di Yzchack Rabin, sono di fatto figlie di una minoranza risicata e tuttavia rumorosa e pericolosa: i religiosi occupano solo 18 seggi al Parlamento su 120, e il maggiore dei partiti religosi, Shas, obbietta non sul terreno della desacralizzazione della Bibbia ma sulla inopportunità politica, data la mancanza di un partner palestinese con cui trattare. Questa minoranza è sempre stata potente, tanto quanto lo sono i testi sacri quando pretendono di diventare anche testi che dettano la politica, la sua morale e la sua opportunità, e si fanno arbitri di vita o di morte in base alle loro norme. Ma la politica e l'ideologia sono tutt'altro che coincidenti, in Israele. Come dimostrano gli spostamenti nel Likud e nel partito storico della sinistra, il partito laburista guidato da Peres. E, soprattutto, come dimostrano i risultati dell'indagine compiuta dalla più famosa organizzazione di ricerca, quella della sociologa Mina Tzemach. Due terzi degli israeliani (e 60 per cento degli ebrei israeliani) sono a favore dello sgombero, anche se solo poco più della metà ne conoscono i dettagli. Solo il 26 per cento degli israeliani in genere e il 29 per cento della parte ebraica della popolazione si oppongono al piano di sgombero. E persino all'interno della destra, il 38 per cento dei votanti di destra è contro. Il pubblico pensa per il 40 per cento che sarebbe preferibile un referendum, e per un altro 40 per cento che la Knesset basti e avanzi per decidere di andarsene da Gaza. Il 20 per cento vuole andare alle elezioni. Ma uno dei dati più nuovi nella ricerca è l'atteggiamento personale verso il grande bulldozer, il «leone», «Arik» Ariel Sharon, il generale che per due volte ha salvato il paese e tante altre volte è stato visto come un deciso sostenitore dell'uso della forza, della necessità della guerra. Questa volta Sharon sembra apparire ai suoi bisognoso di protezione e simpatia. A nove anni dall'assassinio di Rabin, la gente pensa per il 50 per cento che il primo ministro sia in in pericolo, che la sua vita sia direttamente minacciata. Gli arabi e gli ebrei se ne preoccupano allo stesso modo. La gente con questa preoccupazione segnala il suo affetto, a destra e a sinistra, per Sharon. Arik è in pericolo di vita, ma nonostante le urla e le minacce non è in pericolo di essere abbandonato dal desiderio di Israele di ritrovare un sentiero verso la pace. A pagina 7 nell'articolo "Sancito il divorzio tra Ariel e i settler" Fiamma Nirenstein analizza lo scenario della politica israeliana, in profondo sommovimento per la ridefinizione delle alleanze che il piano di ritiro comporta. Ecco l'articolo: Da oggi, dopo il voto risicato che Sharon ha ottenuto per il suo piano, tutto è possibile. Perchè Sharon, l’uomo che ha portato il Likud da 19 a 40 seggi, l’uomo che ha rivoluzionato la spettro politico già una volta, adesso, con la sua scelta storica, gli ha fatto compiere una seconda grande svolta. Tutti gli schieramenti sono scombinati, e quindi anche il futuro è diventato imprevedibile. I coloni non vedono certamente più Ariel Sharon come punto di riferimento; il suo partito, il Likud, è spaccato in due, e una parte medita un’autentica secessione, in cui si dichiari non che si fonda un nuovo partito, ma che l’antico capo non è più un uomo che appartiene al partito; gli haredi - i religiosi vestiti di nero, sia quelli ashkenaziti che quelli sefarditi facenti capo allo Shas, il principale partito ultraortodosso - considerano le sue scelte contrarie alla Bibbia (i religiosi nazionalisti) o a una posizione politica ragionevole. Invece i laburisti, il partito Shinui (cambiamento), il Meretz (radicali) e «Pace Adesso» - cioé tutto lo spettro della sinistra - tiene per il piano di Sharon. E Shimon Peres, il capo dell’opposizione, ieri ha idealmente abbracciato il suo nemico chiamandolo «un uomo che ha saputo guardare in faccia la realtà». Dunque, tutto è cambiato ed è logico domandarsi, dopo il terremoto, che cosa può succedere dopo un voto che riflette lo scombino di questa rivoluzione, dando una maggioranza tanto limitata a una proposta così rivoluzionaria. Ci sono alcuni possibili scenari. Prima ipotesi: Zvulun Orlev, il capo di quella parte del partito religioso nazionalista (il Mafdal) che non è già fuori della coalizione (una parte, capitanata dal ministro Effi Eitan, è già uscita), dopo il voto minaccia di andarsene, se Sharon non indice subito un referendum. La destra spera in un largo consenso grazie all’appoggio dei rabbini. Sharon accetta, sapendo che ha un forte sostegno fra la popolazione. Seconda ipotesi: Sharon non accetta, il Mafdal si dimette, cade il governo, il Primo Ministro si rivolge al Partito laburista e forma una coalizione di unità nazionale senza i partiti religiosi. In linea teorica, con il Likud tutto dentro sarebbe una coalizione di 77 voti (su 120), ma il Likud è spaccato e una parte si rifiuterebbe di votare un governo nato apposta per operare lo sgombero. Terza ipotesi: Sharon cerca di formare una coalizione con il Likud e lo Shas, il partito religioso sefardita; ma è difficile che lo Shas ci stia, dopo che il suo rabbino Ovadia Yossef si è dichiarato contrario allo sgombero, ritenendolo pericoloso per la vita dei cittadini israeliani, dal momento che lo si compie senza un accordo politico di garanzia che fermi il terrorismo. Probabilmente il referendum che gli consente di tenersi il Mafdal e quindi il governo è una soluzione che Sharon prende in seria considerazione, anche perchè tre dei suoi più importanti ministri, Netanyahu (ministro del Tesoro e Finanze), Silvan Shalom (ministro degli Esteri) e Limor Livnat (ministro dell’Educazione), lo caldeggiano per coprirsi le spalle di fronte alla destra del loro partito, evitando però di attaccare direttamente il loro capo. Infatti ieri sera hanno votato a favore, ma hanno minacciato le dimissioni dal partito se il referendum non si farà. Netanyahu lo fa anche per restare il candidato alternativo a Sharon alle prossime elezioni. Se non c’è maggioranza alla Knesset per un referendum, Sharon può comunque sempre dire di averlo caldeggiato e quindi di essere pulito di fronte alle richieste della destra, andando di fatto con la sinistra. D’altra parte, il partito laburista, pur disposto a fornire in ogni caso una rete di sicurezza per lo sgombero, si dichiara del tutto contrario all’ipotesi referendum, perchè pensa che oggi il campo della pace cominci di nuovo a rafforzarsi. E, nel caso non si riesca a formare una coalizione con il Likud (non tutto intero, come abbiamo detto) e lo Shas, preferisce le elezioni anticipate, contando sul supporto del Paese per l’abbandono di Gaza, oggi pari al 65 per cento. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.