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La Stampa Rassegna Stampa
26.10.2004 Verso il ritiro da Gaza: l'alleanza tra Sharon e Peres e le trattative con i coloni
un' analisi e un reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 26 ottobre 2004
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Lo scandalo di un'alleanza - Coloni. Quelli che hanno deciso di partire»
LA STAMPA di oggi, 26-10-04, pubblica a pagina 6 l'articolo di Fiamma Nirenstein "Lo scandalo di un'alleanza", analisi della convergenza politica sul piano di ritiro da Gaza tra il premier israeliano Sharon e il capo dell'opposizione Peres.
Ecco l'articolo:

Due vecchi sionisti diversi l’uno dall’altro quanto si può immaginare, si sono trovati uniti dal momento storico, in mezzo a un mare di urla. E’ stato breve e compatto il discorso di Sharon che da domani cambierà la politica di Israele, a meno di sorprese straordinarie. Come ai tempi di Rabin, ancora una volta un generale ha parlato a Israele del suo desiderio di porre un freno alla guerra, stavolta al carissimo prezzo dello sgombero degli insesiamenti, dello sradicamento di 8000 persone almeno, alla violenza che tormenta la sua gente da secoli, ha dichiarato la sua difficolta: «E’ stata la decisione più difficile della mia vita». Ha mostrato empatia e amore verso i coloni, verso la loro onestà e la loro dedizione alla patria, ma non ha esitato a dir loro: la storia non è più vostra, non siete la maggioranza, non fate della vostra idea una verità assoluta, abbandonate il vostro pericoloso messianismo, attenetevi alle regole democratiche, abbiamo già avuto un orribile delitto politico. E breve e infuocato è stato anche il discorso dell’altro vecchio, il capo del campo opposto, Shimon Peres, che ha riconosciuto pubblicamente il coraggio di Sharon, gli ha promesso aiuto, gli ha dato il credito di «saper guardare negli occhi la realtà» pur insistendo sulla sua opzione quella del dialogo, opposta all’ unilateralità scelta da Sharon. E’ stato un abbraccio che di fatto sussiste nel popolo, per il 65 per cento favorevole allo sgombero, ma che è risultato scandalo e anatema agli occhi di tanti, anche perchè scardina i vecchi ordini, pone domande definitive al Likud e alla sinistra, sposta al centro tutti i fautori dello sgombero e scansa ai margini i suoi oppositori.
Sharon e Peres, mentre robusti commessi accompagnavano fuori della Knesset alcuni deputati agitati (tre in mezz’ora) tenevano saldamente il centro. E’ certo un risultato di questi quattro terribili anni di guerra contro il terrorismo che i due vecchi si siano ritrovati sullo stesso fronte, di nuovo minuscola e in pericolo anche nel contesto internazionale, come ha ricordato Sharon quando ha parlato in particolare il rischio iraniano. Sharon e Peres più che fare politica, si ritrovano nel tentativo di tentare ogni strada possibile con audacia, anche se è una strada stretta.
Il capo del governo e quello dell’opposizione hanno parlato all’unisono. Sharon era un po’ balbettante e un po’ sudato, la voce piana e quasi senza espressione, aveva preparato il discorso da solo e chiuso in casa, consultandosi solo con i vari testi che ha citato dicendo sempre : aperte virgolette, chiuse virgolette. Fra gli altri il poeta Altermann, e Menahem Begin il primo ministro di destra che fece la pace con l’Egitto. Intorno a lui una tempesta di urla da parte soprattutto della destra estrema che gli urlava «vattene a casa» e anche da parte araba, che, forse per preparare il proprio pubblico a un inopinato voto contro lo sgombero, inveiva accusandolo di uccidere i palestinesi. Dopo il discorso di Sharon la famosa fulminante retorica di Peres ha investito l’aula, con domande dirette agli astanti («Forse che Hevron è meno santo di Gaza? E allora perchè Netanyahu col voto del partito di destra Mafdal l’ha ceduto, e nessuno ha chiesto un referendum? Perche, tu, ministro Sharansky, voti contro oggi se ieri hai votato a favore? Ah, perchè quello era un accordo con una controparte? E allora chiedi un accordo anche oggi!») con un fuoco di sbarramento per proteggere il nemico di tanti anni, e una persona tanto diversa da lui antropologicamente: Peres, un intellettuale cosmopolita, Premio Nobel per la pace, gradito in tutto il mondo; Sharon un contadino e allevatore di mucche, un generale eroico e discusso, un soldato di poche parole e poca grazia, addirittura odiato a sinistra, quanto Peres invece è aggraziato e elegante.
Ma si tratta di due grandi personaggi che sanno, per età e cultura, cosa siano state le strade d’Europa per gli ebrei che ne hanno subito l’aggressione forsennata e quasi definitiva, e conoscono per averla costruita la salvezza a loro derivata dallo Stato d’Israele che ambedue hanno contribuito a fondare: per questo cercano disperatamente una strada, insieme, come si fa quando il fronte è assediato
A pagina 7, sempre di Fiamma Nirenstein, il reportage "Coloni, quelli che hanno deciso di partire", che di seguito riproduciamo:
«Nel nostro villaggio si dice comunemente che quando esci da Ganim e da Kadim appoggi l’anima sul sedile accanto a te, e la recuperi quando hai passato il check point». Ci proviamo anche noi. La mattina presto mettiamo l’anima sul sedile al check point che ci immette oltre il famoso recinto di sicurezza, e inneschiamo la marcia verso il cancello scorrevole di Kadim; e la sera indietro, dopo alcune ore, quando tramonta il sole. E’ una strada diritta e vuota lunga cinque chilometri, su cui corrono veloci pochi veicoli blindati fra due larghe striscie di stoppie gialle, gli ulivi, i cedri del Libano e i pochi pini neri.
L’umore nero di Masal Emek, segretaria quarantenne dell’insediamento, grandi occhi chiari sbarrati su una realtà stupefacente e spiacevole, diventa trasparente. Sulla parte destra della strada in collina si erge con le sue moschee e le sue case bianche e grige Jenin, ormai considerata da quattro anni a questa parte la capitale dei terroristi suicidi: è qui che gli artificieri e i cecchini di Hamas, della jihad islamica e delle Brigate di Al Aqsa hanno la loro base più larga e micidiale, qui cominciò con una battaglia storica nel maggio 2002 l’operazione «Muro di Difesa», la risposta militare che comprendeva il reingresso dell’esercito dopo decine di stragi terroriste nelle città palestinesi sgombrate in base all’accordo di Oslo. L’apice era stato proprio l’eccidio di Natania, proveniente da Jenin.
Lungo la strada sei un bersaglio mobile per i cecchini, o la va o la spacca, vai al lavoro e sei sotto tiro, torni e sei sotto tiro, i crack dei colpi di fucile sono lontani ma le pallottole arrivano molto vicino, e seguiti ad essere sotto tiro anche quando arrivi al paese. Sei una quaglia ovunque tu vada. Così, a Kadim come a Ganim, insediamenti quasi interamente laici, alla vigilia del voto per lo sgombero, lo sgombero è già cominciato da un pezzo: «Il nostro destino era già segnato da quando Netanyahu a suo tempo, a Wye Plantation, nel 1997, decise che quattro insediamenti al nord della Samaria (Kadim, Ganim, Homesh, Sanur) sarebbero passati di là, un dono per ingraziarsi i palestinesi, alla faccia delle famiglie che avevano costruito le case e piantato gli alberi e fatto crescere i loro bambini tutti insieme qui. Passammo alla zona B. Si era in pieno processo di pace, nessuno si prese la briga di venire a comunicarcelo. Anche adesso Sharon non è mai venuto a chiederci se siamo d’accordo con lo sgombero. Eppure Kadim è virtualmente un dead man walking, un morto che cammina. La storia si è messa correre da quando l’Intifada è scoppiata. Eravano venuti qui per la qualità della vita: siamo stati presi di sorpresa da una storia più grande di noi».
Kadim e Ganim con il loro straziante verde intenso, i fitti alberi, i fiori, i tetti rossi, come Homesh a qualche decina di chilometri di distanza più a nord, sono ormai mezzi vuoti. E dato il piano di sgombero di Sharon, se le condizioni saranno appena soddisfacenti, certamente queste persone stanche e deluse, che hanno visto morire e ferire gravemente i loro cari e i loro amici, che hanno fatto una vita impossibile da quattro anni a questa parte, faranno le valige e accetteranno le ricompense che offre loro lo Stato per andarsene. Anche se amano teneramente, in spirito di amicizia con i palestinesi il loro villaggio, i loro alberi, la loro casa. Eppure agli occhi del mondo sono feroci settler.
Gli scivoli del giardino d’infanzia sono impalliditi e impolverati. Le trincee dell’esercito, protette da reti mimetiche a larghi fori circondano il plateau che fronteggia Jenin senza nessuna protezione naturale circostante. Si può sparare sulle case, sui bambini, sui passanti da ogni parte: «E succede tutti i giorni - spiega Masal - ma non creda che sia per questo, o non per questo soltanto che siamo, volenti o nolenti in via di smantellamento insieme a altri tre insediamenti del nord della Samaria. Vede, capita che siamo dalla parte sbagliata del recinto, che si siano dimenticati di noi. Pensi che per tre anni siamo rimasti senz’acqua. Una mattina abbiamo aperto i rubinetti, e l’acqua non c’era più. Eravamo spariti come esseri umani, prima ancora che come pionieri che avevano fondato un insediamento fino a ieri pieno di vita. L’esercito ci ha fornito da bere e da lavarci. Non esistevamo più, noi esiliati oltre il recinto. C’era solo la guerra, l’Intifada, e il fastidio che diamo qui».
Il portavoce del villaggio si chiama David Monsenego e sembra un hidalgo. Parla breve e diretto, è un quarantasettenne atletico e triste, ci porta diritto alla sua ex fabbrica di high tech e poi a casa sua: la fabbrica è abbandonata, la casa, quasi: «E chi ci veniva più qui da noi a comprare? Lei farebbe affari mentre sparano dentro la finestra? Ho trasferito tutto a Afula, dove vado ogni giorno». La casa, una villetta zeppe delle foto dei suoi tre bambini, ha l’aria di un ex sogno. I ragazzi chissà dove sono; non qui. Non ci vengono date molte spiegazioni, ma sono lontani: tutti e tre, come tutti i ragazzi del villaggio hanno dovuto richiedere un aiuto psicologico. Nel vuoto dei sentieri di terra battuta, qualche persona è invece per strada verso l’ufficio di legno della locale unità sanitaria, dove l’assistente sociale conferma: «Vero, qui il lavoro non manca mai». Mosenego ci immette nel suo flash back quotidiano: dodici anni fa esatti, il posto è magnifico, un gruppetto di cinque coppie ammira la vista della Moschea di Jenin così vicina, niente reti, niente confini, di giorno si va a fare la spesa a Jenin, la gente è simpatica e buona, i bambini giocano insieme, spesso si passa il sabato bevendo caffè e mangiando pistacchi in compagnia: «A tutt’oggi ci telefoniamo da qui a là, fra gli spari: come stanno i bambini, come sta tua moglie, siamo rimasti amici, e sento tanta sofferenza anche da quella parte. Una volta durante una sparatoria fra il nostro e il loro villaggio l’esercito da qui ha ucciso un giovane; loro ci sparano all’impazzata. Un ragazzo che stava in piedi proprio qui, su questo clivio, ha preso una pallottola in testa, dopo altri nostri due uccisi e due feriti gravemente. Insomma la verità è che ad un tratto, dopo che Arafat ha deciso che Camp David non gli bastava, è saltato tutto per aria, da un giorno all’altro, un sogno è diventato un incubo. Ci sparavano dentro casa, sulla strada quando andavamo a lavorare in auto, eravamo improvvisamente diventati un nemico, qualsiasi ombra che si muoveva all’orizzonte lo era. La sorpresa e l’orrore sono stati pari».
Masal racconta il suo momento più difficile, quello dell’agguato della storia alla sua morale: «Telefonavo ai miei amici palestinesi a Jenin e chiedevo cosa succede. Silenzio, non una parola di condanna, neppure di sorpresa. Nessuna spiegazione da coloro con cui mi confidavo e a cui portavo i miei bambini a giocare con i loro. Chiedevo: ma non gli dite nulla a i vostri capi, fatelo sapere a Arafat che non siete d’accordo.. Silenzio, assenza.. All’inizio vivemmo giorni di incredibile confusione, ci guardavamo stupefatti, le famiglie intanto erano diventate una cinquantina, i nostri bambini erano piccoli, ciascuna coppia ne ha al minimo tre. Piano piano, invece di preoccuparci per lo scopo stesso della nostra vita, per la ragione sociale che ci aveva portato qui, ovvero i nostri figli, la loro totale libertà di movimento fra gente perbene, l’educazione di alto livello, la modestia ma la consistenza della qualità della vita, siamo diventati famiglie disperate alla ricerca del luogo più sicuro dove lasciare i bambini quando andavamo a lavorare. Li abbiamo rinchiusi a scuola invece di lasciarli giuocare e imparare all’aperto».
Poi, la gente ha cominciato ad andarsene, a lasciare la casa chiusa a Kadim e a prendere un piccolo appartamento in affitto a Afula, a Natanya o altrove : «Città colpite dal terrore, naturalmente. E’ così ridicolo: mia madre mi chiama da Ghilò a Gerusalemme chiedendomi di andare da lei per rifugiarmi, e io intanto sento i colpi di fucile che gli piovono dentro l’appartamento da Beit Jalla».
Le famiglie che se ne erano andate, 15 su 42, un anno fa hanno dovuto in parte tornare, incoraggiate forse anche da una presenza militare massiva all’interno dell’insediamento stesso: e comunque, i soldi per mantenere due case non c’erano, e Kadim oggi, fra vari andirivieni, conta circa venticinque famiglie su quaranta che la abitavano poco dopo l’inizio dell’Intifada.
«Che sia chiaro - dice Monsonego - il fatto che mi sparino per me non è decisivo nelle mie scelte. Al contrario, per la fedeltà che devo alle mie idee di laico che crede nella convivenza dei popoli, che spera nella pace; per la mia fedeltà allo Stato e per essere fedele a quello che insegno ai miei figli, resterei e resisterei alla violenza, perchè non credo alla violenza come strada per risolvere i conflitti. E credo che anche dalla parte di là di siano tanti che vorrebbero arrivare a un compromesso, e che vedono il terrorismo come una violenza anche verso di loro. Ma è l’incertezza in realtà che nutre il mio desiderio di andarmene: devo o non devo piantare il prossimo albero? Devo o non devo insegnare ai miei figli a considerare questo luogo "casa". Io sono venuto qui per la qualità della vita. Strano no? Vedere Jenin, così bella, così vicina, fu una spinta a decidere di venire. Adesso aspetto che il governo capisca la mia delusione e che mi aiuti a ricominciare una vita come si deve, che non mi offra un prezzo ridicolo per ricompensarmi (75 mila dollari sono la cifra media che offre per le case di Kadim) e che mi mostri un po’ di rispetto. Allora, ne avrò anch’io per le decisioni del governo: ce ne andremo, ricostruiremo altrove».
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