L'Egitto che rifiuta l'eredità di Sadat e la Siria terrorista premiata dall'Europa analisi e interventi su due paesi chiave del Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 12 ottobre 2004 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella - un giornalista - Sergio Rovasio Titolo: «Così Mubarak ha dilapidato la preziosa eredità di Sadat - Intanto il Cairo si avvicina a Gaza - Per l'Ue la democratica Siria merita un bell'accordo di cooperazione»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO di oggi, 12-10-04, pubblica l'articolo di Carlo Panella "Così Mubarak ha dilapidato la preziosa eredità di Sadat" Sono "musulmani che sbagliano", come certa sinistra con le Br, così la più alta carica religiosa d’Egitto, il gran muftì di Dar al Iftaa, nel condannare gli attentati di Taba, ha immediatamente relativizzato la sconfessione, attribuendone la responsabilità alle "colpe" degli americani e degli israeliani in Iraq e Palestina: "Nessuno può giustificare questi atti che costano la vita a persone innocenti. La stessa condanna va però indirizzata anche contro le operazioni militari dalle forze di occupazione negli Stati arabi e musulmani, perché anche queste forze uccidono innocenti". Bin Laden è colpevole, ma non più di Bush e Sharon. Il problema è che questo "islam moderato" è l’espressione del regime egiziano: il muftì è nominato da Hosni Mubarak, è una forma di "islam di regime". L’ideologia giustificazionista del muftì è dunque intrinseca alla "moderazione" che l’occidente, sbagliando, attribuisce al regime di Mubarak, che, invece, non è moderato e da 23 anni vegeta su una voluta ambiguità verso l’estremismo. Zapatero non se ne rende conto, ma la sua politica nei confronti del terrorismo è copiata da Mubarak. Miracolosamente incolume alle sventagliate di mitra che uccisero il 6 ottobre 1981 Anwar al Sadat e molti suoi generali, appena succeduto al raìs, Mubarak capì la lezione e cedette al ricatto terrorista degli apripista di al Qaida. Sadat era stato ucciso per una ragione: aveva riconosciuto piena legittimità a Israele; aveva fatto qualcosa di più di una pace: era andato il 20 novembre 1977 a parlare nel Parlamento israeliano, aveva portato Menachem Begin nel Parlamento del Cairo. Aveva legittimato la prospettiva di una vita in pace tra arabi ed ebrei. Aveva dato un colpo mortale all’ideologia totalitaria, su cui si reggeva il suo regime, in nome della quale nel ’52 aveva fatto un golpe assieme al generale Neguib (poi eliminato) e a Gamal Abdel Nasser. La missione del nasserismo (e del suo figlioccio, il baathismo di Saddam Hussein) non era quella di un islamismo laico – come si continua a equivocare in occidente – ma di un islamismo a guida militare che riscattasse la "naqba", la catastrofe della sconfitta subita quando tutti i regimi arabi, sotto la leadership morale del gran muftì di Gerusalemme, reduce dalla Berlino hitleriana, avevano tentato di soffocare sul nascere nel 1948 lo Stato d’Israele. Immutata, anzi esaltata era la missione, la consegna, la strategia di un allargamento della umma musulmana, cambiava solo la leadership, passando in mano ai generali. Primo passo era imporre il dogma musulmano della "non disponibilità" della Palestina a qualsiasi trattativa, a qualsiasi cessione, tantomeno agli ebrei, perché "lascito divino in eterno al popolo di Allah". Su questa strada Nasser aveva impegnato l’Egitto, volgendo l’iniziale vocazione nazista (negli anni 30, con Sadat aveva fondato le "camice verdi" filohitleriane) all’altro totalitarismo del secolo: il socialismo sovietizzante. Su questa strada Nasser aveva distrutto le basi per il nascente sviluppo industriale dell’Egitto e aveva imposto un’economia finalizzata finalizzata solo alla guerra, in mano a un quadro di comando di generali. Su questa strada Nasser aveva portato l’Egitto alla sconfitta e all’umiliazione del ’67. Sadat, riconquistato l’onore militare, grazie al ricatto petrolifero che chiude la guerra del Kippur del ’73, non si limita a trattare la "terra in cambio della pace", non si preoccupa solo di recuperare il Sinai, va oltre: mette in discussione la base ideologica del suo regime, del panarabismo, dell’islamismo, e dichiara che Israele ha diritto di vita. Una dichiarazione che continua a impegnarlo in una critica feroce nei confronti dei governi israeliani, ma che intende rispettare con scandalo del mondo musulmano, a partire da Arafat, che ne pronostica la rapida morte. Il "moderato" leader palestinese è accontentato dai terroristi musulmani con la strage del 6 ottobre 1981 che elimina Sadat; durante il processo dei superstiti del complotto, al Zawahiri – oggi vice bin Laden – è portavoce degli imputati che danno vita a un surreale dibattito teologico con la corte per spiegare le ragioni del tirannicidio. Mubarak comprende qual è il punto e nel momento stesso in cui impone la legge d’emergenza – ancora in vigore – e scatena la più dura repressione contro gli estremisti musulmani, ne soddisfa la richiesta di fondo: cessa di riconoscere legittimità a Israele. Non può farlo dal punto di vista formale: il riconoscimento diplomatico non è annullabile, ma lo fa da quello sostanziale. Blocca il processo di revisione ideologica su cui Sadat basava la svolta riformista iniziata con l’espulsione dei consiglieri sovietici nel ’72 e con l’ingresso nell’area di alleanze statunitense. La strategia di Mubarak non è la moderazione, ma il congelamento: forte dei 2 miliardi di dollari che Sadat ha ottenuto dagli Usa ogni anno per rafforzare la spinta riformista, il nuovo raìs usa la somma per lo scopo opposto. Due terzi degli aiuti sono investiti negli stipendi dell’esercito e nel suo ammodernamento: la "società militare" trova la sua nicchia parassitaria e vi si arrocca, il regime continua. Nessuna riforma sul piano politico – il Pnd del raìs vince regolarmente due terzi e più dei seggi in elezioni multipartitiche secondo il modello fasullo della Repubblica democratica tedesca – nessuna sul piano economico. Gli aiuti americani sono più del 2 per cento del pil, e sono cash, subito spendibili dal presidente, un suo fantastico "tesoretto" personale per comprare consenso, come altri aiuti che arrivano dall’Ue e da altre istituzioni. Nasser, quantomeno, aveva iniziato una timida riforma agraria, aveva avviato il ciclopico sogno della diga di Assuan; Mubarak non fa nulla e ultimamente permette che una cifra pari a quella della diga sia dilapidata nella costruzione di una sorta di Rimini, lunga una ottantina di chilometri e larga uno a ovest di Alessandria. Una speculazione edilizia astronomica, che si ribalta in un disastro: le case d’appartamenti non sono vendute e il Fmi è costretto a intervenire sul mondo bancario egiziano che rischia di esplodere per i prestiti ai palazzinari. Ma sul punto focale, sul rifiuto di Israele, sull’antiebraismo razziale Mubarak non conserva l’eredità di Sadat, la dilapida, fa marcia indietro, obbediente alla consegna dei terroristi islamici. Dà il segno della resa al fondamentalismo religioso introducendo una modifica costituzionale: la sharia, la legge coranica, cessa di essere "una delle fonti del diritto", come nella Costituzione nasseriana, e diventa "la fonte del Diritto"; ne conseguono cambiamenti legislativi peggiorativi. Per ordine del governo sui quotidiani non si può più scrivere Israele, come sotto Sadat, ma solo "entità sionista" (illegale, da eliminare), come in tutti gli Stati arabi che non riconoscono Israele. Sui libri di scuola una macchia bianca, indistinta, senza nome, copre, sempre con la sua minacciosa promessa di violenza, il territorio dello Stato ebraico. Arafat e l’Olp, così come le sue assassine "Brigate di al Aqsa", vengono non solo non contenute, ma esaltate dalla stampa di regime: nell’autunno del 2002, l’orchestra sinfonica del Cairo trasmette in diretta tv un concerto del soprano Amal Maher, in onore di Wafa Idriss, militante di al Fatah, prima donna martire-assassina palestinese (ha maciullato un ebreo di 80 anni). Coperto sulla scena internazionale da un’ammissione nell’Internazionale Socialista (stranamente sempre rivendicata con orgoglio da Giuliano Amato), Mubarak – che scampa per un soffio a un attentato di al Qaida ad Addis Abeba nel 1995 – mantiene un regime illiberale di polizia, in cui tiene sotto pressione i Fratelli musulmani, ma in cui di fatto si fa dettare da loro l’agenda politica. Lo si vede bene nel 1996, quando boicotta – tentando d’imporre un’equiparazione tra terrorismo palestinese e esercito israeliano – un vertice mondiale contro il terrorismo (che continua a fare stragi in Egitto). Lo si vede nel ’98, nel ’99 e dopo l’11 settembre 2001, quando la delegazione egiziana è in prima fila per far saltare gli sforzi che l’Onu compie per definire, anche in termini legali, il terrorismo, in specie islamico. Lo si vede nell’autunno del 2001, quando il suo Egitto, nonostante la copertura Onu, rifiuta di mandare anche un gagliardetto simbolico contro il regime dei Talebani in Afghanistan. Lo si vede nell’inverno del 2004, quando organizza una conferenza farsa d’intellettuali arabi ad Alessandria d’Egitto per rifiutare – in nome di fumosi impegni futuri, mai realizzati – quelle riforme nel campo della parità delle donne, dell’istruzione e della libertà di stampa che Bush ha fatto approvare dal G8. A chi gli chiede riforme politiche e liberalizzazioni, Mubarak risponde che non può concederle perché con la democrazia vincerebbero i Fratelli musulmani; così mantiene in vigore da 23 anni lo stato d’emergenza, prepara la successione al figlio Gamal, dopo una probabile "camera di compensazione" gestita dal potente capo dei Servizi segreti del regime, il generale Omar Suleiman. Soprattutto si impegna a fare concorrenza agli estremisti islamici sul loro stesso terreno, tant’è che oggi i Fratelli musulmani dicono sulle stragi di Taba, con più chiarezza, quello che il gran muftì di Mubarak afferma con parole contorte: "L’attentato di Taba è il risultato diretto dei massacri terribili perpetrati dal nemico sionista contro il popolo palestinese disarmato e delle aggressioni barbare delle forze d’occupazione americana in Iraq". Sempre a pagina 2 il trafiletto "Intanto il Cairo si avvicina a Gaza" L’Egitto vuole inviare le proprie truppe nella zona demilitarizzata del Sinai sul confine con Israele, scrive il Daily Telegraph. Si tratta del territorio in cui si trovano Taba, Ras Shitan e Nuweiba, teatri dei sanguinosi attacchi terroristici di giovedì scorso. Secondo il Trattato di pace, firmato nel ’79 tra israeliani ed egiziani, al Cairo è permesso mantenere in questa zona, nota come Area C e monitorata da una forza internazionale di peacekeeping, soltanto unità di polizia e non soldati del regolare esercito nazionale. La misura era stata presa dopo il ritiro israeliano dal Sinai per prevenire un attacco militare contro Israele. Osama el Baz, consigliere del presidente egiziano Hosni Mubarak, ha detto: "Se avessimo potuto avere l’esercito nell’Area C sarebbe stato più facile per noi controllare gli ingressi nella zona". La questione della rimilitarizzazione della regione di confine è già stata oggetto di discussione all’inizio del coinvolgimento del Cairo nel piano israeliano di ritiro unilaterale da Gaza. Gerusalemme ha infatti chiesto al governo egiziano di garantire il monitoraggio delle frontiere, per prevenire infiltrazioni e contrabbandi. La richiesta, che aveva fatto nascere un dibattito sulla necessità di emendare il Trattato, aveva messo in evidenza la debolezza del monitoraggio egiziano, causata appunto dal fatto che l’Egitto non poteva schierare sul confine l’esercito, ma soltanto forze di polizia, un dettaglio che non è sfuggito ai terroristi. Un’eventuale rimilitarizzazione della zona proietterebbe ancora di più il Cairo nel ruolo di mediatore nel piano di disimpegno di Ariel Sharon. A pagina 4 Sergio Rovasio firma l'intervento "Per l'Ue la democratica Siria merita un bell'accordo di cooperazione" L'Europa si accinge a rinnovare l'accordo di cooperazione con un altro paese dittatoriale: la Siria. Secondo diplomatici siriani, la firma potrebbe già avvenire entro la fine del prossimo novembre, è strano che le fonti non siano europee. La Commissione Europea già si accingeva a farlo, nel silenzio generale, la scorsa primavera. Poi, grazie all'intervento dei deputati radicali durante la seduta della sessione plenaria di Strasburgo dello scorso mese di marzo e all’intervento di alcuni Governi, in particolare Gran Bretagna e Germania, tutto venne rinviato. La Siria, come ricorda il libro di Daniele Capezzone ?Euroghost. Un fantasma si aggira per l’Europa: l’ "Europa", è inserita nella classifica di "Freedom House", del 2002, al numero 7: il peggior punteggio in fatto di rispetto di diritti politici e libertà civili, che fa stare questo paese in bella compagnia con Iran, Vietnam e Nord-Corea, anch’essi ben inseriti negli accordi di cooperazione con l’Ue. Nello studio preparato dai radicali la scorsa legislatura sui soldi Ue ai paesi dittatoriali, è documentato come l?Europa abbia stretti rapporti di cooperazione con ben 49 paesi dittatoriali: di questi una quindicina sono accordi di vario tipo, senza il vincolo del rispetto dei diritti umani, tra questi il Vietnam, che continua impunemente a perseguitare il popolo dei Montagnards. Nel solo biennio 1999-2000 l’Ue ha speso per 35 di questi paesi oltre 2.200 milioni di Euro. Ma torniamo alla Siria: anche se il vecchio accordo di cooperazione risaliva al 1977, senza le clausole sui diritti umani, nel 2000 il Paese ha però ratificato la Convenzione Quadro MEDA (The Euro-Mediterranean partnership Association Agreement) dove vi sono due vincoli importanti, all’art. 2 si legge: "I rapporti tra le parti, cosi come le disposizioni dell’Accordo stesso, dovranno fondarsi sul rispetto dei principi democratici e dei fondamentali diritti dell’uomo" e poi ancora (in caso di mancato rispetto dei punti precedenti): "Se una delle parti ritiene che l’altra Parte non abbia ottemperato uno degli obblighi previsti nell’Accordo, può adottare misure appropriate". Chi mai in Europa ha posto il problema del mancato rispetto delle clausole di cooperazione tra Ue e Siria? La stessa Commissione, in risposta a diverse interrogazioni dei deputati radicali sulle clausole non rispettate, è sempre stata evasiva. Il Parlamento Europeo ha ripetutamente chiesto alla Commissione di intervenire, inutilmente. Su questo, il libro di Capezzone ricostruisce in modo ben documentato l’ignavia della Commissione e la maggior sensibilità dell’europarlamento sul mancato rispetto dei diritti umani di molti paesi beneficiari dei soldi dei contribuenti europei. Da facente parte a pieno titolo dei paesi "canaglia", a paese che ancora oggi ha tra i più importanti campi di addrestamento del terrorismo internazionale, in particolare quello che colpisce i cittadini inermi di Israele, ecco che l’Europa si accinge a rinnovare con la Siria un Accordo di Cooperazione, con clausole magari ancora più severe, anche se poi puntualmente disattese. Complimenti, speriamo che Barroso se ne accorga presto e avvii una nuova politica verso la Communities of Democracy, su cui sono impegnati i radicali transnazionali: valorizzazione dello sviluppo democratico e chiusura di ogni rubinetto con le dittature. 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