Come Saddam promosse l'ideologia del terrorismo suicida, le ragoni della crisi tra E uropa e America lo spiegano Tomhas L. Friedman e Robert Kagan
Testata: La Repubblica Data: 12 ottobre 2004 Pagina: 15 Autore: Thomas L. Friedman - Robert Kagan Titolo: «I kamikaze di distruzione di massa - Guerra. Il grande scisma tra Europa e America»
A pagina 15 LA REPUBBLICA di oggi, 12-10-04, pubblica l'articolo di Thomas L. Friedman "I kamikaze di distruzione di massa", che spiega come il "laico" regime baathista abbia promosso nella sua ultima fase la deriva fondamentalista dell'Iraq, base ideologica del terrorrismo suicida che colpisce quel paese. Ecco l'articolo: NEW YORK - La settimana scorsa si è dato forte rilievo al fallimento dei servizi segreti dell´amministrazione Bush in Iraq. Saddam Hussein non aveva "Wmd" (Weapons of mass destruction) armi di distruzione di massa. Si deve però sottolineare un altro fiasco dei servizi segreti, altrettanto madornale, uno smacco di cui tuttora subiamo le terribili conseguenze. Sto parlando della nostra totale ignoranza al riguardo dei "Pmd" iracheni - gli individui di distruzione di massa (People of mass destruction) - degli attentatori suicidi e dell´ambiente da cui hanno origine. La verità è che il fallimento dei Servizi in Iraq non riguarda soltanto gli agenti chimici che Saddam miscelava nelle sue cantine, ma ha piuttosto a che vedere con le emozioni che faceva fermentare nella società irachena. Iniziamo da una semplice constatazione: negli ultimi 16 mesi ci sono stati 125 attacchi suicidi contro le truppe americane in Iraq, compiuti quasi sempre da musulmani sunniti. Questo dato deve farci riflettere: nel mondo musulmano e in Iraq deve esserci una linea di rifornimento di attentatori suicidi che è in grado di allettare nuove reclute, di metterle in contatto con chi fabbrica dispositivi esplosivi per poi dispiegarle strategicamente e pressoché quotidianamente contro bersagli americani e iracheni. Ciò che è ancora più sconcertante in relazione a questi attentatori suicidi è che diversamente dagli accoliti di Hamas in Israele che girano video di se stessi mentre spiegano le loro ragioni e si accomiatano dalla loro famiglia, tutti gli attentatori in Iraq si fanno esplodere senza neppure comunicarci, in pratica, come si chiamino. Noi non sappiamo pertanto in che modo siano scelti, addestrati, indottrinati, armati e inviati contro il loro bersaglio. Ciò che sappiamo è che gli attentatori suicidi hanno ucciso e mutilato centinaia di iracheni, molti dei quali erano in procinto di entrare nella polizia e nell´esercito, e che così facendo hanno fatto molto di più per ostacolare gli sforzi americani miranti a ricostruire l´Iraq di qualsiasi altro fattore. Noi siamo dunque schierati contro un nemico che non conosciamo e che non vediamo neppure, ma che sta compromettendo l´intera nostra missione. Questo genere di network è molto difficile da individuare, specialmente se si tiene conto del sostegno di cui gode presso molti sunniti, ma la nostra ignoranza al riguardo è soltanto una piccola parte della più generale mancanza di comprensione dei cambiamenti occorsi nell´ambito della società irachena. I 35 anni di malgoverno di Saddam, che includono altresì il decennio delle sanzioni statunitensi, avevano decimato le infrastrutture materiali e sociali. I giovani uomini armati dal volto coperto che oggi mozzano le teste dei loro prigionieri sono cresciuti in questo vuoto, colmato soltanto dalla religione: in parte instillata da Saddam per le sue ragioni personali, in parte riversatasi in Iraq da oltre confine, essenzialmente dall´Arabia Saudita, dalla Siria e dall´Iran. Negli ultimi decenni c´è stato infatti «un impennarsi dell´identità islamica, non soltanto in Iraq, ma in tutto il mondo arabo», spiega Yitzhak Nakash, esperto di islam sciita presso la Brandeis University e autore del libro di prossima pubblicazione intitolato "Sciismo e nazionalismo nel mondo arabo". «Noi lo abbiamo decisamente trascurato. Anzi, lo abbiamo negato» prosegue. Ma Saddam invece ne era pienamente consapevole. Per quanto riguarda gli sciiti Saddam consentì al padre di Moqtada al Sadr di guidare la preghiera del venerdì nella speranza che così facendo assorbisse tutto lo zelo religioso degli sciiti e ne distogliesse l´attenzione dal regime. Quando invece Sadr diresse quell´energia religiosa contro Saddam, quest´ultimo nel ?99 lo fece liquidare. Con i sunniti Saddam fu preso dalla frenesia di costruire moschee per rimarcare la sua legittimità, e per controbilanciare lo sciismo tollerò un´infusione di islam wahabita proveniente dall´Arabia Saudita. Quando gli Usa hanno invaso l´Iraq, afferma Nakash, «l´Islam era ormai una forza potente. L´Iraq non era più un paese essenzialmente laico, che attendeva di accogliere a braccia aperte l´America, come ricordavano molti degli esuli iracheni». Tutto ciò significa che in Iraq tutto è perduto? Non necessariamente, sostiene Nakash. Tutto questo significa però che dobbiamo cambiare strategia e ridurre le aspettative sul breve periodo. Gli sciiti e i curdi, che costituiscono l´80 per cento della popolazione irachena, vogliono ancora un Iraq democratico e questo è già motivo di speranza. Tuttavia, la prima apparizione di un Iraq democratico quasi sicuramente sarà influenzata - se non addirittura dominata - da figure religiose di spicco. Non passeremo da Saddam a Jefferson senza passare prima da Sistani, l´Ayatollah con il quale possiamo collaborare. L´unica cosa è sperare che la strada sia breve. Ciò che ora è quanto mai essenziale da parte americana, conclude Nakash, è «decidere di venire a patti con la realtà sul campo», ovvero accettare il concetto che non tutti i religiosi musulmani sono uguali, e coinvolgere gli islamisti moderati nella soluzione per l´Iraq. Ovviamente, ci occorre una più ampia strategia per l´Iraq e il Medio Oriente, una strategia che offra agli islamisti l´opportunità di dimostrare che una democrazia islamica non soltanto può fermare gli attentatori suicidi, ma altresì farsi valida promotrice di una soluzione tra Islam e Occidente. A pagina 49 un'altra scelta felice del quotidiano diretto da Ezio Mauro: un'anticipazione delle prime pagine del saggio di Robert Kagan "Il diritto di fare la guerra", sottotitolo: "Il potere americano e la crisi di legittimità", in uscita oggi da Mondadori (traduzione di Sergio Giuliese, pagg. 96, euro 10). Ecco l'articolo, "Guerra. Il grande scisma tra Europa e America"
( a cura della redazione di IC)
Anticipiamo le «Che tipo di ordine mondiale vogliamo?». La domanda, formulata nel marzo 2003 dal ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer alla vigilia dell´invasione americana dell´Iraq, attira in questi giorni l´attenzione di molti europei. Ciò evidenzia le divergenze che separano oggi gli americani dagli europei: dallo scoppio della guerra, gran parte degli americani non si è mai posta il problema di un «ordine mondiale». Tuttavia dovrà farlo presto. Il grande dibattito tra le due sponde dell´Atlantico sulla guerra in Iraq affonda le sue radici nel profondo disaccordo su ciò che si intende per «ordine mondiale». Certo, americani ed europei avevano un punto di vista diverso sulla questione specifica di cosa fare dell´Iraq. Hanno discusso sulla realtà della minaccia rappresentata da Saddam Hussein e se la guerra fosse la risposta giusta. La maggior parte degli americani ha risposto sì a entrambi i quesiti, mentre un numero ancora più grande di europei ha risposto no. Questa palese divergenza va però al di là della semplice diversità di opinioni in merito alle valutazioni tattiche o all´analisi della situazione irachena. Come ha fatto notare il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin, non si tratta tanto di uno scontro sull´opportunità di una guerra in Iraq, quanto piuttosto di una contrapposizione tra «due diverse visioni del mondo». Le differenze di opinione sull´atteggiamento da tenere nei confronti dell´Iraq non riguardavano solo la politica, ma investivano anche princìpi fondamentali. Alcuni sondaggi effettuati prima, durante e dopo la guerra hanno evidenziato l´esistenza di due popoli che vivono su pianeti ideologicamente e strategicamente lontani. Più dell´80 per cento degli americani è convinto che la guerra possa essere uno strumento della giustizia; meno della metà degli europei crede che una guerra - qualsiasi guerra - possa mai essere giusta. Americani ed europei dissentono anche sul ruolo delle leggi e delle istituzioni internazionali e sulla questione molto importante, sebbene dai confini nebulosi e astratti, della legittimità internazionale. Le due visioni del mondo, così totalmente differenti, hanno radici profonde e risalgono a prima del conflitto in Iraq e della presidenza di George W. Bush, anche se tanto la guerra quanto la politica estera seguita dall´amministrazione repubblicana hanno contribuito ad approfondire e forse a inasprire la spaccatura tra le due sponde dell´Atlantico, sino a farne una caratteristica permanente del paesaggio internazionale. «L´America è diversa dall´Europa» ha dichiarato inequivocabilmente Gerhard Schroeder alcuni mesi prima della guerra. In effetti, chi lo può più negare? Quando all´inizio del 2003, prima dello scoppio della guerra in Iraq, fu pubblicato il mio libro Paradiso e potere, la spaccatura tra le due sponde dell´Atlantico era già chiaramente visibile. Non altrettanto chiara era invece l´importanza che in seguito avrebbe avuto per il mondo intero. Nelle questioni di strategia politica mondiale era immaginabile una suddivisione dei compiti tra le due parti, se non proprio amichevole, almeno gestibile: una sorta di divisione funzionale del lavoro in cui l´Europa si sarebbe concentrata sull´Europa e gli Stati Uniti su tutto il resto. L´alleanza strategica risalente ai tempi della guerra fredda poteva tranquillamente essere rimpiazzata da una sorta di indifferenza reciproca, ma ciò non lasciava prevedere una crisi permanente in seno all´Occidente. Americani ed europei non potevano dirsi semplicemente, usando le parole di Bob Dylan, «segui la tua strada, e io seguirò la mia»? Oggi si delinea un´eventualità ancora più preoccupante. Nell´Occidente si è prodotto infatti un grande scisma filosofico: al posto dell´indifferenza reciproca, fra America ed Europa si è instaurato un forte antagonismo che minaccia di indebolire entrambi i partner della comunità atlantica. Tale scisma, giunto in un momento storico in cui nuovi pericoli e nuove crisi stanno proliferando rapidamente, potrebbe avere serie conseguenze. Dividersi dal punto di vista strategico si è già rivelato abbastanza deleterio per l´Europa e gli Stati Uniti. Ma cosa accadrà se il disaccordo sul concetto di «ordine mondiale» dovesse influenzare le basi di ciò che consideriamo l´Occidente liberale? L´Occidente resterà l´Occidente? Solo qualche anno fa una domanda del genere era inconcepibile. Dopo la guerra fredda Francis Fukuyama riteneva, come tutti noi, che finalmente le democrazie liberali occidentali avrebbero convissuto in relativa armonia. Ci sarebbero stati conflitti fra l´Occidente e «il resto del mondo», non certo all´interno dello stesso Occidente. Le democrazie mondiali, condividendo i medesimi princìpi liberali e democratici, non avrebbero avuto «alcun motivo di contestare l´una la legittimità dell´altra». Ora, invece, questo ragionevole e tacito accordo è stato messo fortemente in dubbio. La questione della legittimità è infatti il nodo della discussione fra americani ed europei: forse non tanto la legittimità delle rispettive istituzioni politiche, quanto piuttosto quella delle differenti visioni dell´«ordine mondiale». Per essere più precisi, la maggioranza degli europei ha messo in dubbio la legittimità del potere americano e della supremazia mondiale degli Stati Uniti. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, l´America si trova quindi a soffrire di una crisi di legittimità internazionale. Gli americani dovranno prima o poi rendersi conto di non poter più ignorare tale problema. In questa nuova era, la lotta per definire e ottenere la legittimità internazionale potrebbe rivelarsi una delle sfide più ardue del nostro tempo; per certi aspetti, tanto importante nel determinare il futuro assetto mondiale, e la conseguente posizione dell´America al suo interno, quanto lo sono il potere e l´influenza puramente materiali. Se è vero che oggi gli Stati Uniti stanno attraversando una crisi di legittimità, la principale ragione è da ricercare sostanzialmente nel desiderio dell´Europa di riprendere in qualche misura il controllo sul comportamento americano. La stragrande maggioranza degli europei si è opposto all´intervento militare americano in Iraq non solo perché era contraria alla guerra. La volontà e la capacità dell´America di entrare in guerra senza l´approvazione del Consiglio di Sicurezza - e, quindi, senza il consenso di tutta l´Europa - hanno lanciato la più grande sfida sia alla visione europea dell´ordine mondiale sia alla possibilità dell´Europa di esercitare anche il minimo ruolo nel nuovo sistema unipolare. «Un ordine mondiale non può funzionare quando l´interesse nazionale della più grande potenza è il criterio determinante per l´uso del potere di tale paese» si è lamentato Joschka Fischer. Devono esistere norme ben precise, ha insistito, che regolino i comportamenti di tutti i paesi, e tali norme «si devono applicare alle grandi, alle medie e alle piccole nazioni». Come ha sostenuto il presidente francese Jacques Chirac, le crisi mondiali non possono essere gestite «da un´unica nazione che agisce da sola sulla base dei propri interessi e delle proprie valutazioni... Qualsiasi situazione di crisi, a prescindere dalla sua natura, e in qualsiasi parte del mondo si verifichi, riguarda l´intera comunità internazionale». In questi richiami a un coinvolgimento della «comunità internazionale» c´è una chiara insistenza perché l´Europa, in particolare, venga riammessa nella cabina di pilotaggio. Ciò non significa sostenere che la richiesta degli europei che gli Stati Uniti ricerchino la legittimità internazionale per le proprie azioni sia da considerarsi cinica. Data la loro storia, e dal momento che essi operano all´interno di un´organizzazione internazionale, l´Unione europea, che richiede accordi multilaterali su tutte le questioni, il loro impegno per una legittimità derivante da negoziati multilaterali e da istituzioni legali internazionali è sincero, persino zelante. Ma gli ideali e gli interessi personali spesso coincidono, e gli attacchi europei alla legittimità delle azioni e della leadership americane potrebbero essere un modo efficace, seppure non convenzionale, di arginare e controllare la superpotenza americana. La legittimità, scrive Cooper, «è più una fonte di potere che di forza», e molti europei sperano che ciò sia vero. (? 2004 by Robert Kagan. Published by arrangement with A. A. Knopf Inc. and Roberto Santachiara Literary Agency. Per gentile concessione di Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. - Milano. Titolo dell´opera originale: "American Power and the Crisis of Legitimacy") Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.