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Il Manifesto Rassegna Stampa
29.09.2004 Tanto peggio per i fatti se non accadono come vorrebbe il direttore del quotidiano comunista
che continua la sua fuga dalla realtà

Testata: Il Manifesto
Data: 29 settembre 2004
Pagina: 1
Autore: Gabriele Polo
Titolo: «Fine di un ricatto»
Gabriele Polo, direttore del Manifesto, rispose ai dubbi di Riccardo Barenghi ("forse gli americani sono meglio dei tagliatori di teste") opponendo, alla presunta necessità di scegliere il male minore la pratica dell'"esodo", evidentemente dalla realtà.
Fedele alla linea da lui tracciata Polo ripropone oggi, 29-09-04, in un editoriale pubblicato in prima pagina sul suo giornale, la tesi delle responsabilità americane nel rapimento delle pacifiste italiane in Iraq.
Lo fa, contro ogni evidenza: dopo la liberazione delle due ragazze in seguito a lunghe tratattive con i rapitori, di cui ormai si conosce la matrice ideologica, la dietrologia sulla vicenda è stata del tutto smentita

Finalmente. Finalmente Simona, Manhaz, Simona e Fa'ad sono in libertà. Finalmente le due volontarie italiane sono di nuovo qui con noi, ad agire liberamente, a pensare, parlare, raccontare; della loro terribile avventura, delle ragioni che le avevano spinte a una missione di pace, che rimangono intatte come prima. Più di prima. Restituite alle loro famiglie, ai loro amici, alle loro idee. Una liberazione che vale anche per tutti quelli che si sono impegnati a farle vivere, per le associazioni pacifiste che non hanno voluto chiudere gli uffici a Baghdad, per chi è sceso in piazza chiedendo che si facesse di tutto per salvarle, per tutti noi che non avevamo voluto credere a un epilogo tragico anche quando era stato annunciato. Una liberazione anche «politica», che ci aiuta a sopportare i fiumi di retorica che già scorrono, a considerare evento minore l'uso che il governo farà della liberazione degli ostaggi e dei loro doverosi ringraziamenti. Perché oggi non siamo più sotto ricatto, avremo un po' più di spazio per ragionare sulle cause del disastro che ha fatto da sfondo al sequestro, sulla stessa dinamica di un rapimento tanto terribile quanto strano. Finalmente il felice esito di questa vicenda ribadisce quanto fosse assurda la logica dello «scontro di civiltà», nelle pressioni per la fine del sequestro fatte dal mondo islamico, quello ufficiale - dagli stati ai movimenti più radicali - e quello delle persone «normali». Persino le «sedici piste» di trattativa dichiarate da Berlusconi ci dicono che quella è sempre la strada giusta, non certo la parodia della fermezza o la sottovalutazione che aveva portato alla morte di Baldoni. Che, poi, i milioni di dollari che sarebbero stati versati ai sequestratori finiranno per alimentare la guerra contro gli occupanti, è un problema politico e politicamente va affrontato nella radice di una guerra illegale, come del resto fa la Francia subordinando l'apertura di una conferenza internazionale sull'Iraq alla condizione che si affronti il problema del ritiro delle truppe straniere e la gestione della crisi in sede Onu.

Finalmente tornare a ragionare significa anche provare a conoscere e capire i lati oscuri di questo sequestro. Forse non sapremo mai chi è stato, ma molti fatti - dai video mai arrivati ai sospetti su ex agenti del Bath di Saddam riciclatisi nel «nuovo» Iraq fino al ruolo decisivo del giornale kuwaitiano - indicano che gli ostaggi sono stati vittime di un gioco di potere interno a un paese occupato in cui «legalità» e «illegalità» si intrecciano, abusando del destino di milioni di persone innocenti e ignare. In quell'intricato mondo bisognava cercare i quattro volontari rapiti e forse lo stesso esito del sequestro ci dice che lì sono stati trovati.

Finalmente ci sarà il modo per capire tutto questo, per uscire dall'equivoco di un Iraq in cui esistono solo due campi, in cui occidente e oriente si confrontano nella lotta finale, in cui conta e decide solo chi - con un blindato, un mitra o un coltello - ha in potere la vita altrui. E per far sì che la liberazione di Simona, Manhaz, Simona e Fa'ad da «metafora della fine della guerra» - come hanno dichiarato ieri gli amici di «Un ponte per» - si trasformi in obiettivo concreto e riempia la vita di ogni nostro giorno.
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