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La Stampa Rassegna Stampa
28.09.2004 Gli insediamenti al di là degli stereotipi
un articolo di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 28 settembre 2004
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Coloni nell'Eden insanguinato»
Su La Stampa di oggi, 28-09-04, Fiamma Nirenstein racconta gli insediamenti israeliani a Gaza e i coloni. Al di là degli stereotipi e con obiettività.
Un mondo diverso, in cui solo uno scenario di palme e sabbia ha sostanza e forma e il resto è fantasmi, odio, amore, è quello degli insediamenti di Gush Kativ, nel sud della Striscia di Gaza. La terra esiste. Il resto, è vento: sofferenza per la morte e per le ferite ma gioia per l’esperimento di una vita perfetta, di comunità; violenza, il buio della paura ma il coraggio; la ascesi, il senso comunitario ma l’ambizione egoista, la nazione, la religione, e anche l’amore per la patria. Una passionalità deflagrante. Nell’anno dello sgombero, il 5765 appena iniziato, gli insediamenti ebraici di Gaza, 8000 abitanti circa a fronte di 1 milione e 324 mila palestinesi, sono un mondo di ansia, di impossibile elaborazione del lutto su 40 chilometri di mare blu, 360 chilometri quadrati.
I settler che oggi sono i nuovi protagonisti della scena israeliana, specie quelli della Striscia a loro volta suddivisi in tre zone distanziate a nord al centro e al sud (Gush Kativ) non rispondono se non per una minima parte allo stereotipo politico che ci figuriamo. Osnat Levran, una trentenne con i pantaloni neri e arancioni seduta con la sua bambina di due anni sulla spiaggia di un insediamento di 16 famiglie, vive dall’inizio dell’Intifada in un caravan a Shirat ha Yam, canzone del mare, due mobili e un pianoforte. Lo suona Oz, il marito agricoltore con la pistola al fianco. Osnat i lunghi capelli neri al vento, somiglia molto di più a una beatnik nostrana che a quel che immaginiamo essere settler religioso-nazionalista. Eppure è religiosa, è nazionalista, ma anche anticonformista, anche verde, anche piena di allegria e di gioia di vivere, ed è anche molto povera: «Volevamo una vita diversa, una vita con un significato, e che fosse vicina alla natura, alla pace del mare».
La pace? Quale pace con un milione e mezzo di palestinesi a trecento metri di distanza? «Io non ho nulla contro di loro, la loro vita mi è vicina di più di quanto non lo sia un giovane di Tel Aviv che va in discoteca o che adora il consumismo. E’ vicina alla terra, all'agricoltura, al mare, al ritmo del sole e della luna»; Vicina? Ma voi li dominate, loro vi vogliono fuori di qui, e mentre crescono in numero senza tregua, avete bisogno di un numero sempre maggiore di soldati per proteggervi, non avete paura di prevedere una specie di apartheid piuttosto che andarvene, e quando i kassam sparano, chiedete loro di distruggere Khan Yunes. «Ma quale apartheid, non ci penso nemmeno. Quanto a cercare di fermare i terroristi, forse c’è una scelta? Io però spero ancora, il loro odio è legato ai loro leader. Avremmo potuto vivere in pace». No, così pochi in una zona così grande dove gli arabi vivono da centinania d’anni. «Prima di tutto noi qui c’eravamo da migliaia di anni». Ma poi ve ne siete andati. «No, mai del tutto. Prima dello stato nel 1964, fu distrutto l’insediamento ebraico di Kfar Darom, a Gaza città, una Moschea si è insediata in una sinagoga. Certo, ho paura di notte, su questa spiaggia con la mia bambina, ma Oz non ne ha. Ci consoliamo con la vita meravigliosa di questa comunità che non ha bisogno di niente se non della sua terra e della sua agricoltura».
Il marito di Osnat ha molti ettari di serre dal suolo sabbioso in cui coltiva insalate, prezzemolo. Sono serre irrigate con acqua che i palestinesi ritengono rubata; Oz lascia sempre il cancello aperto, e impiega lavoratori thailandesi. «La sabbia è materiale inerte, apprezza tutto ciò di cui la nutro, mi restitusce piante meravigliose, io ne godo e lei gode della mia presenza». Una specie di istruttiva parabola dell’immaginazione di Oz, in cui le serre non sono contese, la sabbia non lo è, la terra non brucia. Invece, persino le onde bruciano e quella capannuccia sul mare può svanire da un momento all’altro: Oz e Osnat non lo vogliono sapere. «Resisteremo, qualcosa cambierà». I settler del Gush hanno vissuto in questi quattro anni una serie di orrori indicibili, in una vera morsa di terrore. Dopo il check point, a pochi metri un cartello con scritto «Ahuva» un nome che significa «Amata», ricorda una donna uccisa proprio là da un cecchino. Ognuna delle macchine che passa può essere presa di mira a ogni istante. Poco più avanti,il punto dove Tali Hatuel è stata trucidata con i suoi quattro bambini; più avanti le rovine di una fabbrica di farina un edificio da cui i cecchini sparavano sulla strada.
Più tardi, dentro la cittadina di Neve Dkalim (2500 anime, la capitale) entreremo in un piccolo salotto pieno di gente che guarda attonita in alto, un buco nel tetto, e poi in basso, macchie di sangue e un divanetto sventrato: a sedere su quel divanetto è morta uccisa da un missile kassam sparato dal vicino campo profughi di Khan Yunes una ragazza Tiferet Tratner, 24 anni, venerdì mattina. Fuori del recinto della Striscia arrivando si incontra la cittadina di Sderot su cui piovono i kassam senza tregua (un bambino di tre anni Afik Zahavi e Mordechai Yosevof di 50 anni ne sono rimasti uccisi il 28 luglio), ieri ne sono caduti tre.
Nella percezione della gente del posto, la pioggia di missili è una tempesta naturale da cui non si può scappare o ripararsi. A Neve Tkalim, fra le case col tetto rosso ornate di aiuole fiorite, il portavoce dei settler Avner Shimoni con i baffi, gli occhi azzurri, la camicia aperta, la kippà a uncinetto dei nazionalisti religosi spiega: «Se ce ne andiamo noi, le rampe per i missili metteranno a rischio tutta la costa». Anche per un grosso ragazzo di diciassette anni, Daniel Maman, spari e missili sono normali.
Alza le sopracciglia nere quando gli chiediamo se ha paura. Paura degli spari, paura della notte solitaria in mezzo alla Striscia infiammata, paura e pena per le case distrutte dei palestinesi di Khan Yunes, paura del loro odio, pena per la loro sofferenza e senso di colpa per il rumore forte delle pale degli elicotteri in volo sulle cittadine palestinesi. La risposta è gentile e senza remissione. Paura, dice Daniel, per niente, io sono abituato; pena, nemmeno, chi deve andare a cercare i terroristi se non l’esercito? Noi mettiamo a rischio i soldati? Noi li difendiamo. Noi stiamo nel rischio per il paese tutto. Loro son qui per noi, noi per loro. Andarmene? Mai, ci sono nato, mio padre ormai non potrebbe più fare che il suo lavoro agricolo, e il mio futuro è qui, con i miei compagni di scuola, nel posto che amo, e non è vero che qui non c’è niente. La sera semmai andiamo a Beer Sheba, o anche più vicino dove c’è una pizza, una coca cola, un film, poi ho il computer, andiamo a volte a guardare i vestiti al centro acquisti di Beersheba.
Tv niente, niente di non adatto a un ragazzo religioso come Daniel, qui solo due insediamenti non lo sono, a differenza della Cisgiordania. «Siamo un bel gruppo di ragazzi - prosegue - anche la spiaggia di Tel Aviv agli inizi era come il Gush, oggi siamo pochi, domani andrà bene».
Per i settler la realtà dei palestinesi che vivono poco più in là è una realtà che suscita sentimenti misti, li amano e li ritengono più vicini a loro di tanti israeliani, e però sentono il fiato del loro odio senza tregua,e pensano che non ci sia altro da fare che combatterli. Il culto dello shahid, i libri di testo, la difesa del terrorismo da parte dell’Autonomia, sono la prova della giustezza del loro patriottismo, la regione, il senso di avere un compito da portare avanti sono il loro scudo. «Non vede quello che dicono e fanno? Quale pace è possibile? E noi vogliamo andarcene senza nessuna garanzia, in cambio di nulla, perchè gioiscano sulle nostre spoglie, nelle case dei bambini che hanno ucciso?».
E guai a nominare Sharon. Quel nome è come quello di un marito adorato e traditore, una ferita aperta, un urlo: «Quello che Sharon vuole compiere - dice Shimoni seduto sotto la foto del premier e quella del presidente Katsav - è una vera e propria deportazione, un osceno programma che renda questa zona vuota di ebrei. Sì, Sharon è minacciato: peccato. Ma lui aveva promesso di difenderci, io gli ho dato il voto, invece ci ha tradito: provi a immaginare uno sradicamento di massa dalla sua casa, in cui la famgilia vive da tre generazioni, dalla sua attività. Non è vero che è diverso da Tel Aviv o Gerusalemme. Siamo tornati a questa terra che era nostra, l’abbiamo fatta fiorire, con i palestinesi non andava male finchè Arafat non è tornato a causa dell’accordo di Oslo. Poi è cominciata l’Intifada. No, non ce ne andremo, del resto fra i palestinesi ci sono tanti profughi che vengono da fuori e vanno risistemati. Lo dicono loro stessi che qui non ci vogliono stare. Se ne vadano loro, perchè io? La scelta di Sharon è una scelta dittatoriale che non serve certo a fermare la guerra o il terrore».
Jonathan Bassi,l’italiano che Sharon ha incaricato di preparare la strada per i rimborsi per i settler che lasceranno le loro case, e che riceve in segreto decine di famiglie pronte a trattare, dice che la gente degli insediamenti vive in uno stato di negazione, una ferita psichica. Negano che lo sgombero ci sarà, negano il pericolo palestinese, negano le circostanze politiche, demografiche di sicurezza che spingono alla drammatica scelta di Sharon.
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