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Il Foglio Rassegna Stampa
27.09.2004 Le conseguenze di un ritiro dall'Iraq, il sostegno dei Fratelli Musulmani al terrorismo iracheno, i predecessori algerini dei tagliagole islamisti di oggi
scenari, notizie e lezioni della storia per un 'Europa distratta

Testata: Il Foglio
Data: 27 settembre 2004
Pagina: 7
Autore: Emanuele Ottolenghi - Carlo Panella
Titolo: «Via dall'Iraq? Tanto vale dare subito le chiavi del medio oriente all'Iran - I fratelli musulmani sponda politica del terrore iracheno - Dieci anni d'Algeria»
A pagina 7 del Foglio di sabato 25-09-04 Emanuele Ottolenghi firma l'articolo: "Via dall'Iraq? Tanto vale dare subito le chiavi del medio oriente all'Iran", che di seguito riproduciamo.
In un articolo apparso giovedì 23 settembre su Repubblica, Sandro Viola mette
in guardia i lettori sulle conseguenze di un ritiro della coalizione dall’Iraq, affermando come l’Europa, meno pronta psicologicamente e politicamente a difendersi dal terrorismo, assorbirà il duro colpo delle conseguenze del disastro iracheno più di America e Israele, meglio preparati alla guerra che incombe. Per Viola, il ritiro è inevitabile e sarebbe meglio capire sin da ora cosa lo seguirà. La sua logica si fonda quindi su tre postulati. Primo: l’intera operazione Iraq – guerra e dopoguerra – è un disastro. Secondo: John F. Kerry verrà eletto sicuramente a novembre e ritirerà le truppe a primavera. Terzo: ne seguirà il caos cui dobbiamo prepararci sin d’ora. Sul primo punto la giuria non si è ancora pronunciata. Che l’Iraq non sia un successo è scontato dirlo, che siano stati commessi gravi errori nella gestione del dopoguerra va da sé, anche se per amor di verità occorrerebbe aggiungere che la responsabilità
del caos non va tutta imputata all’America. Vanno menzionate anche le interferenze destabilizzatrici dei vicini di casa: Siria, Iran, e Arabia Saudita. Ma va detto che l’Iraq non è ancora un fallimento. Se lo diventerà non sarà soltanto per gli errori di esecuzione della transizione, ma anche per una mancanza di volontà politica di perseguire un progetto tanto difficile – quello di un Iraq democratico e forte – quanto ambizioso e auspicabile. Sul secondo punto si pronuncerà l’elettorato americano a novembre. Mancano sei settimane al voto, e tutto può succedere in sei settimane e tre dibattiti faccia a faccia tra George W. Bush e Kerry. Ma i sondaggi per ora danno torto a Viola e ragione a chi ritiene che Bush vincerà e rimarrà in Iraq ancora a lungo. Quanto alla certezza che Kerry si ritiri a primavera se vincerà, anche su questo varrebbe la pena aspettare l’esito del voto, considerando tra l’altro che un ritiro a primavera condannerebbe Tony Blair a sicura sconfitta nelle elezioni politiche in Inghilterra che si terranno con tutta probabilità tra marzo e maggio 2005. Difficile che Kerry abbandoni l’alleato più fedele dell’America così in fretta. Viola ha invece perfettamente ragione sul terzo punto. Un ritiro della coalizione, da lui descritto in analogia al ritiro americano da Saigon nel 1975, sarebbe senz’altro un disastro. Ed è un disastro che merita di essere messo ben a fuoco, per capire quanto sia importante non rassegnarvici, ma tentare ancora di evitarlo Ci sono due tipi di forze che mirano a destabilizzare la transizione irachena alla democrazia: interne ed esterne. Tra le forze interne, vi sono da un lato gruppi più o meno coordinati di ex uomini del regime, servizi segreti e forze speciali, uomini del partito baathista e leali di Saddam, dall’altro le forze sciite più radicali. Né gli uni né gli altri mirano a una restaurazione democratica all’indomani di un ritiro alleato. Mirano alla restaurazione baathista o jihadista. Abbandonare l’Iraq a tale destino sarebbe come e peggio di una Yalta mediorientale, che condannerebbe la regione, come avvenne con l’est europeo, ad altre decadi di oppressione. Dietro entrambe le forze, però, o in collegamento con loro, ci sono forze esterne: l’integralismo sciita iraniano e il radicalismo sunnita ispirato ad al Qaida. Nessuno di questi gruppi persegue una strategia coordinata per raggiungere un fine politico comune che vada oltre la vittoria sulle forze occidentali. C’è da aspettarsi quindi che un ritiro americano porterebbe non alla formazione di un governo provvisorio di un Cln iracheno (per buona pace di chi si ostina a chiamarli "resistenza"), ma a uno scontro tra le varie forze antioccidentali in Iraq per assicurarsi una fetta di territorio e di potere. Il ritiro porterebbe
alla guerra civile con prevedibili massacri di civili in tutto il paese.
Le divisioni sarebbero acuite dalle interferenze esterne. Prima di tutto l’Iran. L’Iran è al centro dell’attenzione mondiale per il suo programma nucleare sospetto. Ma a che cosa serve il programma nucleare iraniano, se non a sostenere le mire egemoniche dell’Iran nella regione? La rivalità Iran-Iraq risale a prima di Saddam e Khomeini e deriva dalla competizione tra i due paesi per conquistare l’egemonia regionale. L’arma nucleare farebbe dell’Iran la prima potenza musulmana del medio oriente. Il ritiro della coalizione dall’Iraq ne favorirebbe lo sfaldamento politico, creando almeno tre Stati successori deboli incapaci di contrastare, anche volendolo, l’espansionismo iraniano. L’Iran ha interesse a destabilizzare l’Iraq perché indebolendolo rafforza la sua posizione regionale. In più, è plausibile aspettarsi un’enclave sciita nel sud del paese che diventerebbe un satellite di Teheran, aumentandone la forza politica e l’estensione territoriale, cosa che destabilizzerebbe tutti quei paesi del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita, dove vivono minoranze sciite discriminate. La nascita di uno ‘Sci’istan’ vicino a Teheran permetterebbe non solo all’Iran di accrescere il proprio prestigio ed estendere i propri tentacoli, ma darebbe a Teheran il controllo degli estesissimi depositi petroliferi del sud dell’Iraq, con gravi ripercussioni sul prezzo del petrolio e sugli approvvigionamenti energetici a occidente. L’aumentata forza iraniana potrebbe imbaldanzire il regime dei mullah e spingerlo a uno scontro con gli emirati del Golfo per risolvere i contenziosi territoriali e imporre loro un rapporto clientelare con l’Iran in cambio della tranquillità domestica che minoranze sciite sobillate da Teheran potrebbero altrimenti vanificare. I curdi non starebbero certamente a guardare la loro tenue speranza di autonomia politica svanire sotto i colpi della disgregazione e dell’anarchia causata dal terrorismo. Ma lo sfaldamento dell’Iraq non porterebbe soltanto a un intervento diretto curdo a difesa del Kurdistan. La Turchia non starebbe certo a guardare quel che farebbero i curdi, con ulteriori conseguenze destabilizzanti nella regione, specie visto che le altre importanti risorse naturali – petrolio e gas – si trovano nel Kurdistan iracheno, come vi si trova la minoranza di lingua turca vicina ad Ankara. Il combinato disposto di petrolio ed etnie Petrolio e fattore etnico provocherebbero dunque interventi esterni e possibile inasprimento degli scontri interetnici, mentre la mancanza di petrolio nel triangolo sunnita porterebbe anche lì a ulteriori elementi di destabilizzazione interna e regionale. I sunniti, sia quelli legati al passato regime sia quelli che si sono associati ad a Qaida o a gruppi di simile ispirazione, difficilmente accetterebbero un Iraq troncato, circondato da nemici, privo di risorse naturali, e dotato solo di una ridotta area fertile dove praticare agricoltura come principale risorsa, ma dipendente dalla disponibilità dei vicini settentrionali a non imbrigliare le acque dei vitali Tigri ed Eufrate per assetare i sunniti. Inoltre, l’alleanza di comodo che di fatto esiste tra sciiti e sunniti, saddamiti e islamisti si sfalderebbe all’indomani dell’uscita dell’America in nome della natura del progetto politico da perseguire e difficilmente i sunniti accetterebbero una supremazia sciita, specie se pilotata da Teheran. Gli Stati che eventualmente emergessero da uno sfaldamento politico a seguito di un ritiro alleato sarebbero troppo deboli per poter far fronte all’interferenza esterna dei paesi vicini, pur destabilizzandoli potenzialmente per il mero fatto di esistere come nuove entità politiche post-Iraq, come punti di incontro e scontro degli interessi regionali circostanti, e come rampe di lancio della riscossa jihadista o saddamita. L’intervento di Turchia, Siria, Iran e Arabia Saudita non sono da escludersi quindi e con esso il rischio di una permanente turbolenza regionale, la possibilità di ulteriori conflitti regionali, il diffondersi del caos che vediamo oggi a Baghdad e Samarra anche a Riad, Amman, e persino al Cairo, più naturalmente l’imbaldanzimento – anche su questo Viola ha ragione – degli jihadisti, prima di tutto nei confronti dei regimi arabi che essi intendono rovesciare e poi nei
confronti dell’occidente. Un ritiro insomma aprirebbe le porte a un prolungato periodo di caos, dove non è da escludersi una destabilizzazione dei regimi circostanti, un tentativo egemonico iraniano probabilmente accompagnato da una corsa agli armamenti, compresi quelli nucleari, e il rischio di conflitti regionali per ricreare quel contraltare – per non dire quel cuscinetto – che l’Iraq unificato offriva a difesa del mondo arabo contro il secolare nemico persiano. Siamo pronti a due decadi di caos e destabilizzazionein medio oriente – nostro vicino prossimo venturo se la Turchia entra in Europa – con le sottese conseguenze di emigrazione di disperati ai nostri lidi, gravi ripercussioni sull’economia globale, e rischio di guerra, anche non convenzionale, su un teatro così vitale all’occidente?
Se siamo pronti a tutto questo allora occorre sperare che Viola abbia ragione anche sui suoi due primi postulati. In fondo, il problema strutturale più grave del medio oriente è causato dai confini artificiali imposti dalle potenze coloniali dopo il 1918. Il caos prolungato che seguisse un ritiro alleato
permetterebbe di ritracciare le linee nella sabbia. Ma a che prezzo? Altrimenti, occorre opporsi energicamente a un ritiro, e chiedere a chi vincerà le presidenziali americane a novembre di impegnarsi a impedire che l’Iraq precipiti nel caos trascinando con sé tutta la regione circostante.
Ancora da pagina 7 Carlo Panella firma l'articolo "I fratelli musulmani sponda politica del terrore iracheno"
Mohammed Mahdi Akef, leader dei Fratelli musulmani d’Egitto, ha legittimato
ieri, con vigore, la "resistenza" irachena, incluse le attività terroristiche (ma escludendo la decapitazione di ostaggi), puntando con chiarezza a fare del più grande partito transnazionale arabo una sponda politica all’azione dei gruppi terroristi, proprio nel giorno in cui in Iraq sono stati sequestrati sei egiziani. La mossa è rilevante, in una scena irachena caratterizzata dall’attività di molti clan del terrore, ma manca di una proiezione politica che ne capitalizzi le azioni sia nei confronti della base sunnita sia nei confronti delle istituzioni irachene. L’evidente pericolosità dei "tagliateste
islamici" iracheni è oggi infatti limitata al puro terreno militare, all’esercizio immediato del terrore, priva com’è di una sponda politica. Di più: spesso questi terroristi si combattono, soprattutto lungo le linee di frattura che separano sciiti e sunniti (gli attentati dell’Ashura a Kerbala e
Najaf così come la strage dell’agosto 2003 in cui morì il leader dello Sciri Bagher al Hakim sono state azioni sunnite-wahabite). Questa carenza di proiezione politica si è ben notata anche nell’avventura di Moqtada al Sadr, che pure pareva godere di quel padrinato pseudo-moderato che sempre indispensabile ai gruppi terroristi; nel giro di pochi mesi, invece, tutti gli
ayatollah iraniani che avevano flirtato con la sua insurrezione hanno tolto il loro manto protettivo e Moqtada è stato consegnato alla sconfitta. Ora però, i Fratelli musulmani, ovviamente già attivi tra i sunniti iracheni, attraverso il leader più prestigioso del loro "Comintern islamico", si candidano a esercitare questo padrinato.
E’ la stessa strategia elaborata dal loro fondatore Hassan al Banna a spingerli a inserirsi nello spazio che in Iraq può collegare iniziative eversive e terroristiche e partecipazione al gioco istituzionale. La forza storica di penetrazione dei Fratelli musulmani nei paesi arabi è dovuta infatti proprio a una spregiudicata politica che li porta a sfruttare tutti gli spazi di partecipazione democratica (mostrando un loro volto moderato, ben incarnato
oggi da Tariq Ramadan), mantenendo però per intero i rapporti con tutte le forze che agiscono sul terreno della lotta armata e del terrorismo.
Hamas, sezione palestinese dei Fratelli musulmani, è il loro successo più evidente (fu il padre di Tariq Ramadan, peraltro, a fondare negli anni Quaranta i Fratelli musulmani in Palestina). Ora i Fratelli musulmani dispongono di un loro partito iracheno che parteciperà alle elezioni di gennaio, ma badando sempre, come ben chiarisce oggi Akef, a non perdere il contatto, anzi a "esercitare egemonia" sull’arcipelago insurrezionale e terrorista islamico. Akef è chiarissimo: "In Iraq è in atto una guerra contro l’islam", quindi non soltanto la resistenza è legittima, ma è dovuta, e tutti gli atti di violenza e di terrorismo sono leciti. Qui Akef spiega ai vari Michel Barnier d’Europa che sono andati a chiedere solidarietà alla Fratellanza – tramite il suo massimo ideologo, il suo Suslov, Yosul al Qaradawi – perché i loro appelli hanno ricevuto buona accoglienza. I terroristi che Akef e Qaradawi chiamano "resistenti" devono infatti rispettare la sharia, se non lo fanno, sostengono i Fratelli musulmani, indeboliscono l’islam. Per questo motivo devono rilasciare gli ostaggi, per questo motivo non devono sgozzarli. Non un aiuto agli ostaggi francesi e italiani, dunque, ma una mossa che punta – pur attraverso la loro liberazione – a rafforzare e purificare in senso musulmano la guerra contro i cristiani che combattono l’islam in Iraq.
Il comunicato della Fratellanza è netto su questo punto, esattamente come è chiaro nella sua proiezione internazionale. La "resistenza" irachena viene infatti equiparata a quelle degli islamici che combattono i "terroristi Hindu" del Khasmir (seminando naturalmente stragi in India), a quella dei ceceni che "contrastano il terrorismo dei russi" (il "moderato al Qaradawi" nell’aprile scorso ha proclamato il jihad in Cecenia), a quella dei palestinesi
che "subiscono il terrorismo sionista. E anche all’azione del governo estremista
islamico del Sudan, che ha fatto un milione di morti nella decennale guerra
civile condotta contro i cristiani e contro gli animisti del sud, prima di scatenarsi nel Darfur. Per i Fratelli musulmani, dunque, i "terroristi" sono innanzitutto quei cristiani e quegli ebrei che "scatenano una guerra contro l’islam".
E, firmato da Carlo Panella, "Dieci anni d'Algeria", sulla guerra terroristica che ha sconvolto il paese nordafricano nella quale gli attuali crimini dei terroristi decapitatori iracheni trovano un precedente, ignorato dall'Europa, sia nelle scelte politiche di allora sia nelle analisi di oggi, che imputano alle politiche dell'amministrazione Bush orrori che ad essa molto precedenti.
Ecco il pezzo:

Dieci anni e pochi mesi ci separano da una notizia agghiacciante che segna l’irrompere nella modernità dell’islam dei tagliatori di teste: il 3 gennaio 1994, nel villaggio di Tulia, seicento chilometri a est di Algeri, un combattente della guerra d’Algeria e un insegnante sono decapitati da militanti del Gia. La notizia scivola via dall’attenzione dell’Europa come goccia sul marmo. Col passare dei giorni, dei mesi, degli anni, quella goccia di sangue diventa torrente e continua a scavare la pietra: ovunque, in Algeria, vengono decapitati civili. L’Europa degli anni Novanta registra distratta. Le agenzie continuano a dare conto di dieci, quindici, quaranta sgozzati in piccoli villaggi che si chiamano Sidi Bakhti, Oum el Bouaghi, Amir Assas, Chief, cento e cento piccole comunità sconosciute. I pochi che cercano di capire percepiscono immediatamente la novità assoluta, ideologica di queste stragi: le vittime, gli sgozzati, i decapitati non sono mai militari, né rivestono cariche politiche o amministrative che li possano ricollegare in qualche modo al regime. Spesso, sempre più spesso, sono donne, bambini, bambine, ragazze incinte violentate, squarciate, decapitate. Mille, due mila… diecimila. L’armata islamica che lancia il jihad in Algeria macella musulmani con un ritmo,
una pervicacia, una ritualità che vogliono trasmettere significati, messaggi, liturgie. Chi conosce la storia dell’islam sa allora benissimo "leggere" quei gesti, quelle decapitazioni. Segnano semplicemente il battesimo di un nuovo islam, un islam che si autonomina "salafita", "dei padri", che vuole ripetere i gesti del Profeta e dei primi quattro califfi e della loro società musulmana perfetta. Libro politico, come nessun altro tra i rivelati, il Corano e il suo Profeta stabiliscono, infatti, i canoni della lotta per il potere civile: il musulmano deve combattere contro il "governo politeistico" (che allora controllava la Mecca, oggi le varie capitali arabe); deve lottare con la spada e nel fare questo deve sgozzare coloro che non rispettano "il patto" dei musulman anche i neutrali, che non parteggiano né per gli uni né per gli altri. Così fa Maometto nel 627, dopo la battaglia del Fossato, quando da ordine di sgozzare i seicento ebrei della tribù dei Banu Quraiza (che pure non avevano affatto combattuto contro di lui). Da quella strage (peraltro comprensibilissima nella logica dei tempi), nasce l’antisemitismo europeo moderno, basato appunto sull’accusa agli ebrei di "violare il patto" della convivenza civile (il seme fiorirà poi in Europa, veicolato dalla dominazione islamica della Spagna). Proprio la strage degli ebrei traditori Banu Quraiza è oggi simbolicamente riproposta nel taglio della gola di ogni donna, di ogni bambino che ha la colpa di non avere favorito il nuovo jihad. L’Europa segue distrattamente, freme d’orrore soltanto quando arriva una fotografia straordinaria: una madre, a Medea – nome terribile – urla al cielo lo strazio per i suoi figli decapitati ed è identica alla Madonna. La foto vince un premio. Poi ci si dimentica di tutto. Poi sette frati benedettini vengono rapiti e infine decapitati a Tibehirine. Nuovo fremito d’orrore in un’Europa che subito dimentica, che non vuole accorgersi che queste decapitazioni sono diverse da tutte le altre della storia; che non sono un modo sbrigativo, da poveri, per dare la morte, ma sono citazione religiosa, di chi capovolge e bestemmia il gesto d’Abramo perché non sente la voce dell’angelo e se la sente la irride e pianta il coltello nella gola del figlio dell’uomo. L’Europa non se ne accorge. Anche perché nessuno può dire che è colpa del presidente americano, George W. Bush, o del premier israeliano Ariel Sharon: l’Algeria è musulmana, indipendente, libera, ma in Algeria musulmani massacrano musulmani. L’ultima strage è del 21 marzo 2002 a Rezaglie: decapitati padre, madre e quattro bambini. La penultima è interessante, è del 17 marzo 2001: venti sono i decapitati, tredici con vestiti afghani. Sono decapitatori del jihad, a loro volta decapitati da avversari. Il cerchio si è chiuso. L’Europa, infine, se ne accorge, al solito, troppo tardi, oggi, guardando all’Iraq, ma si dimentica l’Algeria e così può fingere che anche la responsabilità della nascita degli sgozzatori islamici, sia di Bush o di Sharon. Da notare, en passant, che la Francia nell’occasione, non ha dubbi: contro gli sgozzatori appoggia con finanziamenti e piena copertura internazionale una risposta del governo algerino che è fatta soltanto e unicamente di guerra, guerra sporca (con migliaia di trucidati, di scomparsi); non guerra combinata con un tentativo di democrazia, come oggi provano a fare gli Stati Uniti e gli alleati della Coalizione in Iraq, ma guerra di sterminio unita alla dittatura, in una
guerra civile iniziata proprio perché nel 1991 sono state sospese, con il pieno placet di Parigi, le prime libere elezioni della storia algerina.
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