La dietrologia di Stefano Chiarini anche sul fallito attentato anti-italiano a Beirut senza prove e senza logica
Testata: Il Manifesto Data: 22 settembre 2004 Pagina: 2 Autore: Stefano Chiarini Titolo: «Beirut, un piano contro l'ambasciata?»
A pagina 2 del Manifesto Stefano Chiarini firma l'articolo "Beirut, un piano contro l'ambasciata?" sull'attentato sventato alla rappresentanza diplomatica italiana Beirut. Gli attentatori, appartenenti a un gruppo salafita fanatico e intollerante anche nei confronti degli altri fondamentalisti islamici, per Chiarini fanno gli interessi delle destre americane e israeliane. Un loro comunicato nel quale rivendicavano l'omicidio di un agente di Hezbollah,che Chiarini dichiara apodittico,era in realtà stato emesso da un servizio segreto. Quale sia questo servizio, Chiarini non lo scrive, ma si capisce benissimo che pensa a quello israeliano, naturalmente interessato a eliminare agenti di Hezbollah inviati nei territori a organizzare il terrorismo. L'interesse di Israele e dell'America a colpire l'Italia è invece del tutto inesistente e la dietrologia di Chiarini, in questo caso, risulta priva, oltre che di prove, come sempre, anche del "cui prodest?" Ecco il pezzo. L'ambasciata italiana a Beirut, nell'antico palazzo bianco delle Assicurazioni generali con tanto di leone di San Marco che guarda deciso verso il vicino palazzo del parlamento, può tirare un sospiro di sollievo. I servizi siriani e libanesi, con la collaborazione di quelli italiani, avrebbero arrestato una decina di appartenenti ad un gruppo islamista che stava pianificando un attentato alla nostra sede diplomatica retta dall'ambasciatore Franco Mistretta. Secondo le scarne notizie in circolazione il gruppetto, dopo aver compiuto alcuni attentati contro filiali locali di MacDonald tra il 2002 e il 2003, stava pensando di fare un salto di qualità colpendo alcuni obiettivi di alto profilo come l'ambasciata italiana nel pieno centro città. Si ignora come la presunta cellula terroristica avesse intenzione di far arrivare l'esplosivo nella nostra rappresentanza diplomatica posta ai piani superiori del palazzo, in una isola pedonale sorvegliatissima dalle forze di sicurezza libanesi a guardia del vicino parlamento.
Il ministro della difesa italiano Antonio Martino ha espresso ieri in serata il piu vivo apprezzamento al Sismi «per la brillante operazione condotta in Libano» e un «vivo ringraziamento ai servizi di sicurezza libanesi e siriani». I rischi corsi dalla nostra sede diplomatica di Beirut, non sembrano però essere stati così imminenti come sostenuto dal ministro della difesa dal momento che sino a sabato scorso nella nostra sede diplomatica si respirava la solita tranquilla routine e le misure di sicurezza erano quelle di tutti i giorni. I soldati libanesi di guardia sembravano impegnati più a ripararsi dal calore di una estate ancora viva che a sbarrare il passo ad eventuali attentatori. Il metal detector all'entrata aveva l'aspetto di un pezzo di archeologia industriale. Ai piani superiori i soliti accurati controlli per superare le porte blindate poste a difesa dei vari uffici consolari e dipomatici, da sempre accurati, non sembravano essere stati ulteriormente rafforzati. Ora è chiaro che i servizi segreti non sono tenuti a rivelare il contenuto delle loro indagini ma se il piano fosse stato poco più di una vaga intenzione certamente la misure di sicurezza presso la nostra ambasciata sarebbero state rafforzate adeguatamente per proteggere il personale e i visitatori locali. Nell'ambito dell'operazione sarebbe stato arrestato un certo Miqati, individuato durante un sopralluogo nella piazza del parlamento dove sorge anche la nostra ambasciata, seguendo il quale gli inquirenti sarebbero arrivati ad arrestare altre nove persone tra le quali il presunto capo del gruppo un certo Abu Omar. Il gruppo avrebbe avuto rapporti con la galassia integralista libanese legata al famoso gruppo Dinniyyah, in gran parte annientato sulle omonime montagne nel gennaio del 2000 dall'esercito libanese e da quello siriano. Alcuni sopravvissuti si rifugiarono poi nella zona di Sidone e, successivamente, nel campo palestinese di Ain el Helwe (dove vivono 90.000 rifugiati) dove si sarebbero asserragliati in un paio di vie dell'agglomerato di baracche e case di fortuna . Unica loro attività quella di attaccare le altre organizzazioni palestinesi e rafforzare così la campagna delle destre e degli Usa per un intervento nei campi dell'esercito libanese. Noti per il fanatismo religioso questi gruppi servono spesso come copertura a ben altre organizzazioni. Basti pensare al falso comunicato, messo in giro da un qualche servizio segreto, con il quale il gruppetto Jund As Sham avrebbe rivendicato l'uccisione di un esponente Hezbollah in contatto con i territori occupati, Ghaleb Awali, avvenuta in un attentato alla sua auto lo scorso diciannove luglio da tutti attribuito al Mossad. Interessanti anche i ricorsi storici di queste vicende: molti presunti membri del gruppo Dhinniyyah vennero arrestati anche in quel caso seguendo un certo Umar Miqati. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.