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Il Foglio Rassegna Stampa
21.09.2004 Israele si ritira da Gaza, l'Europa tiene la Turchia fuori dalla porta.
e inoltre: un appello per la Nato in Iraq, la risposta alla Farnesina che prova a "ripulire" Al Qaradawi

Testata: Il Foglio
Data: 21 settembre 2004
Pagina: 4
Autore: un giornalista - Carlo Panella - Autori Vari - Mohamed Aziza
Titolo: «La nuova road map .- Il vecchio sogno - Ankarite - Appello a B. e P. - Gentile farnesino prova a spiegarci che los ceicco è assai buono»
A pagina 4 dell'inserto Il Foglio di oggi pubblica gli articoli "La nuova road map" sugli sforzi diplomatici di Egitto e Israele in vista del ritiro da Gaza e "Il vecchio sogno" che spiega "perchè il premier israelaino ha deciso il ritiro dagli insediamenti (e perchè è una scelta coraggiosa)".
Ecco i due pezzi:

La nuova road map

Roma. Internazionalizzare il piano di ritiro
unilaterale dalla Striscia di Gaza. Sembra
essere questa la nuova strategia israeliana.
Silvan Shalom, ministro degli Esteri
di Gerusalemme, ha in programma l’incontro
con trenta suoi omologhi. L’offensiva diplomatica
del governo Sharon cade (tatticamente)
alla vigilia della sessione d’apertura
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
che ha luogo oggi. A New York, Shalom
parlerà dei progressi del piano di disimpegno
e delle difficoltà incontrate dal governo
Sharon per portarlo avanti; cercherà di evitare
che la questione della barriera difensiva
trovi nuovo spazio di discussione alle
Nazioni Unite (mentre sembra che la delegazione
dell’Olp sia pronta a proporre una
nuova risoluzione che preveda sanzioni
contro Israele); ricorderà che la Siria non si
è attenuta alla recente risoluzione del Consiglio
di sicurezza che chiede a Damasco di
ritirare le sue truppe dal Libano e di mettere
fine al sostegno dei terroristi. Il ministro
degli Esteri israeliano ha incontrato ieri
i suoi omologhi di Canada, Danimarca,
Angola e Giordania e incontrerà giovedì il
segretario generale delle Nazioni Unite,
Kofi Annan. Ma soprattutto Shalom ieri si è
visto con il ministro degli Esteri del paese
mediatore per eccellenza nel piano di ritiro
dalla Striscia di Gaza: l’Egitto. Non si erano
mai incontrati prima Shalom e Ahmed
Abul Gheit, ex incaricato del governo egiziano
all’Onu, ministro da giugno, dopo il
rimpasto governativo voluto al Cairo da Hosni
Mubarak. Anche l’Egitto, nei giorni scorsi,
ha cercato di coinvolgere altri attori nel
programma di disimpegno unilaterale voluto
da Sharon, e Mubarak per questo si è recato
persino a Damasco. Se alcune voci vogliono
che il rais egiziano abbia consigliato
al collega siriano, Bashar al Assad, di "disfarsi"
al più presto del leader di Hamas,
Khaled Mashaal, altre fonti rivelano che gli
egiziani hanno consegnato al palestinese
documenti riguardanti il piano di ritiro
israeliano. Secondo il Jerusalem Post, il
Cairo avrebbe inoltre dato al leader di Hamas
un avvertimento finale: il terrorismo
deve finire. Mashaal è arrivato nella capitale
egiziana sabato per colloqui con funzionari
proprio sul ritiro dalla Striscia di Gaza.
Il governo Mubarak sta infatti tentando da
mesi di convincere la parte palestinese e
quella israeliana a mantenere i propri impegni
anche sulla base dell’antica road
map. Per questo motivo, ancora una volta,
gli sforzi egiziani e israeliani per rendere
"più multilaterale" il piano di ritiro dai territori
si intersecano, anche se l’intenzione
di Mubarak è quella di ottenere, da Israele,
il disimpegno immediato e totale anche dalla
Cisgiordania e, dai palestinesi, le riforme
politiche e dei servizi di sicurezza.

Il vecchio sogno

Gerusalemme. "Chiunque pensi che sia
possibile costruire insediamenti in tutte le
parti di Eretz Israel – ha detto di recente il
premier israeliano Sharon – mantenendo allo
stesso tempo uno Stato ebraico e democratico,
può ritrovarsi senza insediamenti,
senza democrazia e senza maggioranza
ebraica". Quando nel ’47, l’Onu presentò il
piano di partizione per la Palestina, David
Ben Gurion, leader laburista, accettò le condizioni,
nonostante il piccolo fazzoletto di
terra assegnato al futuro Stato d’Israele. "Mi
rifiuto di rifiutare", ripetava Ben Gurion, alle
porte di una nuova guerra col mondo arabo.
"E’ questa la differenza tra i leader
israeliani e i leader arabi – spiega al Foglio
Yigal Carmon, direttore del Middle East Media
Research Institute – il popolo ebraico sa
abbassarsi ai compromessi, dopo millenni
di oppressione, sente il bisogno di un rifugio
dove poter essere sicuro". "I leader arabi,
come Arafat – continua Carmon – hanno alle
spalle secoli di impero musulmano. Non
si piegheranno mai, è una questione di mentalità".
I primi piani per la costruzione dei
settlements nascono dopo la Guerra dei Sei
giorni con la conquista della Giudea e Samaria,
sotto controllo giordano, e di Gaza,
sotto controllo egiziano. Il Partito laburista
inizia la costruzione d’insediamenti strategici
intorno a Gerusalemme, al di fuori della
Green Line, per proteggere la popolazione
da attacchi dalla West Bank. Il 26 luglio
del ’67, Yigal Alon, ministro della Difesa,
presenta un piano, con la costruzione di settlements
solo nella parte est della West
Bank, per lo più disabitata dalla popolazione
palestinese, per avere il controllo dei tre
canyon naturali che portano nel cuore d’Israele
e prevenire un’occupazione del territorio
ebraico da parte dei vicini arabi. Il piano
è tuttora considerato valido per impedire
possibili invasioni di carri armati della
Siria, dell’Iran e, prima della caduta di Saddam,
dell’Iraq, che aveva 11 divisioni addestrate
per l’offensiva contro Israele. La competizione
politica, a fine anni 60, tra Alon e
Moshe Dayan, fece cambiare i piani del ministro
della Difesa, che per ottenere maggiore
popolarità concesse la costruzione di
Kyriat Arba, vicino a Hebron, a ovest della
West Bank, privo di interesse strategico, ma
carico emotivamente. Nel 1977 con il Likud,
l’attività degli insediamenti aumenta a Gaza.
Oggi gli insediamenti sono 150, con una popolazione
prevalentemente giovane di 243
mila persone. Il sogno della Grande Eretz
Israel per molti israeliani è ancora vivo. La
decisione di Sharon di attuare un piano unilaterale
di ritiro da Gaza e dal nord della Samaria
deriva anche dal bisogno di continuare
ad avere un Stato democratico con una
maggioranza demografica ebraica, impossibile
in uno Stato binazionale.
Ancora a pagina 4 l'articolo "Ankarofobia", di Carlo Panella, indica le motivazioni, e la miopia, della persistente ostilità dei paesi europei all'ingresso della Turchia nell'Unione.
Ecco il pezzo:

Roma. La Commissione europea uscente,
presieduta da Romano Prodi, ha deciso di
fare l’ultimo danno possibile, ostacolando la
possibilità che la Commissione entrante,
presieduta da Durão Barroso, possa decidere,
a dicembre, di avviare negoziati con
Ankara per definire tempi e modi dell’ingresso
della Turchia nell’Ue. Jean Christophe
Filory, portavoce del commissario
uscente per l’allargamento Gunter Verheugen,
ha dichiarato: "Verheugen è stato molto
chiaro su questo aspetto centrale, cioè
l’approvazione del codice penale turco: se
non sarà adottato, i negoziati non potranno
essere avviati". Un modo indiretto e ipocrita
per non cominciare neppure le trattative
perché il codice penale non potrà essere
adottato dal Parlamento turco entro il 6 ottobre,
quando Verheugen consegnerà il parere
sull’ammissione, per la semplice ragione
che è andato in ferie senza approvarlo.
Questo rinvio è la giustificata reazione di
un’assemblea democratica che si è sentita
criticare da autorevoli commissari non per
il contenuto delle riforme in tema di libertà
personale, religiosa, associativa o di parità
sessuale, ma perché una parte dei deputati
intendeva introdurvi il reato di adulterio.
La saga del politically correct si è scatenata
in tutta Europa e il premier turco,
Tayyip Erdogan, non ha potuto far altro che
reagire, difendendo con vigore le libere prerogative
del Parlamento turco. E’ ora indicativo
che l’Europa si appigli a una questione
di regolamentazione delle corna per
esorcizzare un passo – l’inclusione della Turchia
– che trova resistenze enormi, di cui
non una collegata al futuro dell’Unione, ma
tutte motivate da basse ragioni elettorali.
Non soltanto perché l’Europa si è unificata
con un’Italia in cui l’adulterio era punito, sino
al 1973, in cui una legge vietava la pubblicità
dei metodi contraccettivi e con una
Francia in cui, fino al 1980, vigeva la pena di
morte. Ma soprattutto perché mostra con
chiarezza l’abisso strategico che separa certa
Europa dagli Stati Uniti.
Nel vertice della Nato di Ankara a giugno,
George W. Bush aveva chiesto, come fa da
anni, l’ingresso di Ankara nell’Ue quale passo
strategico per il rafforzamento della lotta
al terrorismo, e dell’unico paese musulmano
retto da una consolidata democrazia. Jacques
Chirac, presidente francese, gli ha risposto
piccato di non intromettersi; poi ora
l’uno ora l’altro dirigente della "vecchia Europa"
si è opposto in nome del più piccolo e
bieco interesse elettorale. Così l’Ump di Chirac
non vuole Ankara – mentre prima ne era
entusiasta – perché sa che soltanto il 16 per
cento dei francesi concorda e teme di perdere
voti a favore della destra xenofoba di
Jean-Marie Le Pen. La leader del Cdu, Angela
Merkel, preoccupata di perdere il vantaggio
su Schröder, fa lo stesso ragionamento,
con soltanto il 26 per cento dei tedeschi
favorevole all’annessione. Anche Franz Fischler,
commissario uscente austriaco, teme
l’assorbimento da parte dell’Anatolia dei
contributi agricoli. Infine Romano Prodi, dopo
aver proclamato un anno fa il para razzista
"mamma li turchi", oggi si schiera per un
limpido silenzio e promette soltanto "massima
severità" nei lavori della commissione
che imposta l’indagine.
I parametri di Copenaghen
Nessuno peraltro solleva il dubbio che
questa indagine segua parametri semplicemente
pazzeschi. I criteri di Copenaghen –
su cui oggi si valuta la Turchia – furono stesi
soltanto per definire i passaggi che le democrazie
popolari dovevano fare per essere
ammesse nell’Unione. Questa contingenza
storica, così come il termine "democrazie
popolari", sono citate una ventina di volte
nel documento. La specificità turca è invece
quella di essere l’unico paese musulmano al
mondo con un cinquantennio di democrazia
alle spalle. Ma questo elemento è ignorato a
tal punto che i commissari non si sono finora
neanche accorti che il partito islamico di
Erdogan ha accolto con entusiasmo le loro
richieste per la semplice ragione che bloccavano
il ruolo di garanti della laicità dello
Stato e della democrazia dei generali e allargavano
quindi il carattere islamico delle
istituzioni. La riproposizione della legge sull’adulterio
– già abolita nel 1998 – è infatti
conseguenza della folle incoscienza europea
e dello spazio agli islamici turchi che un’Europa
ignorante sta costruendo. Quei leader
che, come il nuovo presidente dell’Ue Barroso
e i premier di Italia e di Gran Bretagna,
si spendono per usare il baluardo turco nella
lotta al terrorismo, si scontrano con chi si
appresta a fare della più bieca diffidenza
antislamica il punto forte della propria opposizione
a soli fini elettorali.
In prima pagina l'appello a Berlusconi e Prodi perchè promuovano l'invio di truppr Nato a garanzia delle elezioni irachene.
Ecco il pezzo:

Siamo angosciati come tutti gli italiani
per la sorte degli ostaggi in Iraq. Ci consola
una certa prova di responsabilità e di
unità che affiora nella classe dirigente, anche
di opposizione, e nei media. Questo ci
deve aiutare a non cadere nelle trappole e
a fare il possibile per raggiungere il risultato
umanitario che tutti auspichiamo. Siamo
però convinti che la frontiera della stabilizzazione
dell’Iraq è la nostra frontiera,
di noi italiani e di noi europei oltre che
dell’intera comunità internazionale. Una
vera sicurezza potrà nascere solo dalla vittoria
in questa battaglia di pacificazione.
Per questo formuliamo una proposta che
aiuterebbe, nei nostri intendimenti, la pacificazione
irachena, fondandola sul diritto
di quel popolo a svolgere in sicurezza libere
elezioni entro il gennaio del 2005.
La proposta è questa, e il governo italiano
potrebbe avanzarla in sede Nato e nella
Unione europea. Un solido contingente della
Nato dovrebbe impegnarsi subito a trasferirsi
in Iraq per il periodo necessario a tutelare
il diritto degli iracheni a votare, per la
prima volta, e a scegliersi il loro Parlamento,
la loro Costituzione, il loro governo.E’ noto
che mancano oggi alcune decine di migliaia
di soldati per proteggere le urne dall’assalto
terrorista, e siccome quell’assalto
ci riguarda, come uomini e come europei,
dobbiamo metterceli noi. Al di là del fattore
militare, sul piano politico la realizzazione
di questa proposta sarebbe un fattore
di stabilizzazione decisivo, un segnale
inequivocabile ai nemici in armi della pace
e della democrazia in Iraq. Sarebbe un
modo di ottemperare a una precisa richiesta
delle Nazioni Unite, che nelle loro recenti
risoluzioni chiedono l’intervento attivo,
anche militare, della comunità internazionale.
Una simile decisione è invocata
anche dalle autorità di Baghdad, scelte di
concerto con l’inviato del segretario dell’Onu,
Lakhdar Brahimi, e ha già come precedente
la decisione Nato di partecipare
all’addestramento del nuovo esercito iracheno.
In altri modelli operativi, come l’Afghanistan
o i Balcani, proprio questo è stato
fatto. La Federazione russa, per esempio,
era contraria alla guerra del Kosovo, ma
alla fine partecipa insieme con la Nato,
sotto egida Onu, alla stabilizzazione; e potrebbe
essere un interlocutore di questa
proposta, facendo scattare la clausola di
consultazione definita nel vertice di Pratica
di Mare. Il problema è di segnare con
chiarezza un’evoluzione politica internazionale,
oltre le legittime divisioni precedenti
la guerra in Iraq, e contribuire nei
fatti, con una vera assunzione di responsabilità
che non può non riguardare la Nato
e l’Europa allargata a venticinque paesi,
due soggetti fondamentalmente coincidenti.
Il carattere provvisorio e delimitato della
missione Nato che l’Italia propone, al fine
di tutelare per alcuni mesi il diritto alla
pace e alla costruzione di un embrione
di regime rappresentativo in Iraq, può rendere
meno difficile la sua accettazione da
parte di governi europei che hanno manifestato
opposizione alla guerra due anni fa.
E l’opinione pubblica europea fornirebbe
il consenso necessario a un’operazione militare
che punti tutte le sue carte su un
obiettivo indiscutibile: la pacificazione e la
difesa dei diritti umani in un paese di venticinque
milioni di abitanti, essendo il diritto
al voto, contrastato dal terrorismo binladenista,
uno dei diritti fondamentali dell’uomo.
Crediamo che anche per i paesi
della Lega araba questa potrebbe essere
una svolta decisiva, nel senso dell’impegno
responsabile: il caos è nemico di tutti coloro
che vivono in quell’area.
La tenuta di libere elezioni in Iraq è un
obiettivo che dovrebbe costituire un’aspirazione
di tutti, perché stare a guardare o
stare alla finestra non è né nell’interesse
sovranazionale dell’Europa né nell’interesse
nazionale di alcun paese europeo. E
poi sappiamo tutti che le truppe Nato sono
le uniche pronte e bene addestrate, le uniche
dislocabili in breve tempo su un teatro
operativo difficile come quello iracheno. E
un accordo in sede Nato
che salvaguardi
eventuali preoccupazioni
intorno al
raccordo con il
comando operativo
in loco delle
forze della coalizione
non è
affatto impossibile.
Con la proposta
italiana, la
Nato non sarebbe
genericamente coinvolta nella guerra in
Iraq, come dirà subito qualche propagandista
superficiale. Sarebbe invece impegnata
in una missione di peace enforcing,
di risonanza e di valore internazionale,
con tempi certi e preventivamente concordati
per il ritiro delle truppe dopo le elezioni,
allo scopo di conseguire uno degli
obiettivi che hanno dato origine all’alleanza
atlantica e al suo allargamento a est: la
più efficace tutela possibile delle esigenze
di sicurezza e di pace nel mondo dopo la fine
della guerra fredda. Gli europei che hanno dissentito sulla guerra possono e devono
valutare una strada che porti all’obiettivo,
limitato ma sacrosanto, di rinsaldare
l’alleanza atlantica su questo punto
cruciale, che ha, come ripetiamo, il timbro
dell’Onu: aiutare l’Iraq a rifarsi una storia
e una vita di pace e di democrazia, nell’ambito
del possibile e
con tutte le difficoltà
che questo presenta.
C’è un rapporto
anche tra questo
e i tentativi
sempre
più feroci
del terrorismo
islamista radicale
di internazionalizzare
ancora di più la guerra
con la terribile strategia della presa d’ostaggi.
Bisogna rispondere, e il governo italiano
potrebbe utilmente mettersi al lavoro
in questa direzione, con l’appoggio responsabile
dell’opposizione parlamentare.
Cordialmente

Marta Dassù, direttore di Aspenia
Giuliano Ferrara, direttore del Foglio
Piero Ostellino, editorialista
del Corriere della Sera
Vittorio Emanuele Parsi, docente
di Relazioni internazionali alla
Università Cattolica di Milano
Nella rubrica delle lettere, botta e risposta tra il giornale e l'"Osservatorio del Mediterraneo", branca della Farnesina, sui contatti tra la nostra diplomazia e lo sceicco Al Qaradawi, sostenitore della liceità dell'uccisione di civili americani.
Ecco la lettera del coordinatore dell'Osservatorio e la risposta:

Al direttore - Non condivido la posizione
assunta dal Foglio in relazione alla recente
visita del ministro Frattini in Kuwait,
Emirati e Qatar e conseguentemente ad alcuni
suoi incontri. In una fase di riflessione,
ma soprattutto di confronto con il mondo
arabo, è naturale la ricerca di un negoziato
con i propri avversari piuttosto che
con gli alleati. Intanto dobbiamo definire
correttamente l’interlocutore, anziché ridurlo,
attraverso una manipolazione infondata,
ad uno spettro o ad una caricatura.
E dunque: lo sceicco al Qaradawi non può
essere considerato un integralista. Egli ha
respinto pubblicamente l’accusa di aver
lanciato, sul canale al Jazeera, una Fatwa
che celebrava il martirio ed invitava all’uccisione
di civili o ostaggi. Al punto che
nessuno più, dopo questa sua vigorosa dichiarazione,
fatta a Londra, ha più potuto
rilanciare quell’accusa. Tuttavia lo sceicco
al-Qaradawi non può certo essere considerato
un musulmano moderato e riformista.
Egli appartiene infatti, con certezza, al
gruppo di conservatori che possiedono una
propria interpretazione e una propria lettura
del messaggio musulmano. Ed è un
oratore molto ascoltato nel mondo musulmano,
anche grazie ad una trasmissione
da lui condotta sul canale Al Jazeera. E’
quindi una personalità capace di grande
influenza. Parlare con lui non significa naturalmente
condividere le stesse teorie, dismettere
le proprie idee, mostrargli complicità.
Il colloquio avvenuto tra lui e il ministro
Frattini ha avuto per tema e riferimento,
piuttosto, un’azione efficace: quella
di avere elementi, anche lontani, per aiutare
la ricerca di un contatto con dei nemici,
difficilmente avvicinabili, e quella di
salvare la vita di due giovani connazionali,
ottenendone la liberazione. In una situazione
terribilmente critica e di emergenza
– come quella che stiamo continuando
a vivere in questi giorni – penso sia un
dovere quello di tentare di utilizzare ogni
mezzo pur di arrivare ad un obiettivo comune:
combattere il terrorismo e quelle
tendenze che confondono il messaggio originale
dell’Islam. E il ministro lo ha fatto e
lo sta facendo tenendo alta la bandiera delle
decisioni del governo e del parlamento
italiani.
In questa situazione, tutti gli interlocutori
che condannano, chiaramente e pubblicamente,
le azioni contrarie all’ universalismo
dei diritti – tra queste certamente
la cattura degli ostaggi – , sono azioni che
possono aiutare la realizzazione dei nostri
obiettivi comuni. Sarebbe davvero grottesco
pretendere ora una discussione teologica
su questa o quella interpretazione di
dogmi religiosi e subordinarla alla decisione
di intraprendere, sempre con lo sceicco,
una discussione che si potrebbe rivelare
utile. Tanto più se tutto questo non significa
rinunciare ai propri principi, al contrario
riaffermarli, invitando l’altra parte ad
utilizzare l’influenza di cui gode per poter
condurre le bande di sequestratori sui veri
e sani, indiscutibili principi dell’Islam. E quanto ha fatto il ministro Frattini richiamando
pubblicamente la sacralità della vita
non solo degli ostaggi italiani ma di tutti
gli ostaggi.
Quando usciremo da questa crisi, dovremo
intraprendere con rapidità un cammino
di recupero del vero messaggio che l’Islam
ha sempre voluto dare di se stesso.
nostri interlocutori sono musulmani tolleranti,
aperti al dialogo. Sono desiderosi
costruire con noi un ponte e riunire le rive
di questo mare nostrum, ritrovando insieme
i cardini di un nuovo umanesimo: allora
sarà possibile una riconciliazione e la solidarietà
ritrovata tra tutti i figli di Abramo.
Ed è a questo obiettivo che mira l’Osservatorio
del Mediterraneo che il ministro
Frattini ha voluto e avviato.
Mohamed Aziza, coordinatore
dell’Osservatorio del Mediterraneo


Della straordinaria influenza dello
sceicco al Qaradawi sui rapitori che
tengono in pugno numerosi ostaggi purtroppo
non si vedono ancora segni tangibili,
né nel modello francese né
quello italiano. Sono d’altra parte i due
soli modelli disponibili (a parte il modello
filippino e quello spagnolo: la fuga),
perché per gli iracheni, per gli americani
e per gli inglesi vale la regola,
riaffermata in ogni occasione, che non
si negozia con i terroristi e con i loro
amici. Della smentita dello sceicco
Al Jazeera a proposito del dovere militante
di sgozzare civili e militari americani,
mentre è opportuno rilasciare
ostaggi di nazionalità amiche, tutto
può dire tranne che fosse convincente:
lo sceicco confermò il suo (diciamo così
"orientamento"), aggiungendo per colmo
di ipocrisia omicida che i militanti
non "devono" sgozzare i nostri alleati
Iraq, ma "possono" (Adn Kronos
8/9/2004, ore 15:57). Questo può bastare
alla Farnesina, di cui il suo Osservatorio
è una branca, a noi no. La nostra
idea è che per vie riservate si possa e
debba fare molto al fine di liberare
ostaggi dalle mani dei predoni religiosi
che li sequestrano, e discutere in vari
modi con i "cattivi" è compito specifico
dei servizi di sicurezza, ma uno Stato
impegnato in una missione militare
pace e in una politica estera di solidarietà
con la coalizione che ha liberato
l’Iraq da Saddam non deve prosternarsi
di fronte a simili interlocutori. Con
tutto il rispetto dovuto alla nostra diplomazia,
non si può dire che non
avessimo informato della nostra opinione
in merito, per quello che conta. Sono
almeno tre settimane che scriviamo
quanto sia politicamente e moralmente
disastroso il "modello francese", cioè
l’attiva collaborazione con una parte
della rete terroristica mediorientale
sulla linea levantina del si-salvi-chipuò.
Questo è tutto.
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