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Panorama Rassegna Stampa
20.09.2004 Volontari da tutto il mondo nelle basi dell'Esercito israeliano
un ottimo reportage di Franca Roiatti

Testata: Panorama
Data: 20 settembre 2004
Pagina: 110
Autore: Franca Roiatti
Titolo: «In divisa per Israele»
Panorama n°39, 23-09-04, pubblica il reportage di Franca Roiatti "In divisa per Israele", sui volontari dell'organizzazione Sar El, che prestano servizio in basi militari israeliane. Un bel pezzo, sull'Israele che nessuno conosce, che ci presenta un aspetto della cooperazione internazionale, non quella "pacifista", bensì quella pacifica.
Ecco il pezzo:

«In vacanza andrò in Messico a fare la guardia alle tartarughe. Mia madre non è felice, ma io le ho detto che altrimenti sarei partita per Israele come volontaria. A piegare paracadute in una base militare». Io sono scoppiata a ridere. La mia amica Cristiana ha un grande senso dell'umorismo e questa minaccia di Israele e dei paracadute mi era sembrata una splendida battuta. Non lo era. Così mi sono ritrovata su un volo per Tel Aviv, domenica 8 agosto. Trascinata dalla curiosità dentro un programma della Sar-El, l'organizzazione con uffici in tutto il mondo che seleziona chi decide di passare le ferie «sotto le armi», permettendo ai riservisti dello Tzahal, l'esercito israeliano, di restare a casa un po' più a lungo e allo stato di risparmiare un po' di soldi.

Inutile cercare di conoscere prima del decollo la base di destinazione. Perfino sul sito internet della Sar-El si chiede ai volontari di non dare troppi dettagli sul soggiorno durante le telefonate a parenti e amici. È Israele, con le sue paure e i suoi indispensabili riti, forse un po' paranoici, per scacciare il terrore. Meglio abituarsi. Ma chi lo spiega alla poliziotta del controllo passaporti all'aeroporto Ben Gurion: «Perché è in Israele e dove starà?» chiede secca. «Sono qui per fare la volontaria con Sar-El, ma non so dove». «È ebrea?». «No». «E vuole andare nell'esercito israeliano?»: la sua faccia si incupisce, mette un timbro misterioso su un foglietto e mi spedisce poco oltre, dalla collega, che mi torchia per un'altra mezz'ora. Alla fine decretano che non sono pericolosa e mi fanno passare. Oltre la porta aspettano Anna, 47 anni, insegnante di Roma, Beppe, 57 anni, di Torino, informatico, e Graziano, diciottenne romano alla prima esperienza di vacanze alternative. Lasciamo l'aeroporto dopo un paio d'ore: destinazione la base Julis, non lontano da Ashkelon. È una struttura per la manutenzione dei veicoli, soprattutto carri armati.

Assieme a noi italiani sono arrivate Karen e Lynn, due americane di 60 anni, Lilya e Rimma, madre e figlia sedicenne di origini russe, che abitano a Boston, Paul, un insegnante quarantenne tedesco, e Daniela, 21 anni, di Ginevra, che studia relazioni internazionali e da bambina è vissuta in Israele. È buio quando arriviamo alla base. Il tempo di salutare i volontari che sono già lì e poi ci vengono assegnate le stanze. Il letto è una brandina di ferro con un materasso alto pochi centimetri. Abbiamo diritto a un unico lenzuolo. Niente cuscino, non ce ne sono più. Confido nella compagnia. Divido la camera con madre e figlia di Stoccarda, Rachel ha una sessantina d'anni, il piglio da marine e due occhi di ghiaccio. Eva, 32 anni, una cascata di ricci e uno sguardo rassegnato. Ogni mio tentativo di creare un clima amichevole viene respinto a monosillabi e sorrisi di circostanza. In tre anni Eva e Rachel sono state 11 volte volontarie con Sar-El. E altri veterani mi giurano che è inutile insistere, preferiscono fare amicizia con gli israeliani. Pazienza.

Il mattino dopo sveglia alle 6.30, colazione alle 7 con pomodori, cetrioli e uova strapazzate. Poi ci ritroviamo per la consegna delle uniformi e l'assegnazione degli incarichi. Io e Karen, mormone appassionata di archeologia biblica, finiamo in pasticceria. Fantastico: in fondo mi sento più a mio agio tra le pagnotte che sulla torretta di un carro armato. Il soldato che fa il pane non parla inglese. Ci spieghiamo a gesti, tanto bisogna soltanto lavare le teglie e per quello non servono istruzioni dettagliate. Dopo cena Julia e Carla, le nostre madricha, soldatesse con il compito di seguire i volontari, snocciolano le regole: alzabandiera alle 7.40, obbligatorio, segue pulizia delle camere, lavoro dalle 8.30 fino alle 12.30. Poi pranzo, si ricomincia a sgobbare alle 13.30 fino alle 16. Cena alle 18.30. Alle 19.30 attività serale. Qualche lezione di ebraico, la storia dei movimenti giovanili israeliani o quella del ladino, l'antica lingua degli ebrei sefarditi.

Non si può lasciare la base, se non con speciale permesso. Nel weekend invece bisogna lasciarla, il permesso serve per restare. Non si può discutere di argomenti che possano urtare la sensibilità altrui: tradotto «per favore, niente politica e religione». «Ci sono stati problemi in passato» avverte Julia. Meno male che alcuni dei «compagni d'armi» sono piacevoli. David è un logorroico avvocato ebreo trentaseienne di New York, cresciuto repubblicano «per colpa della politica economica di Jimmy Carter». È un single da sit-com, «con un certo numero di fidanzate improbabili alle spalle». Come Judy, che almeno gli ha lasciato il freezer pieno di «tairamaisù» kasher, «ma sì, quel dolce italiano...». Ah, il tiramisù. «Sì» aggiunge sconsolato «quando farò l'Alyah (il trasferimento in Israele) mi mancherà la pizza kasher di Brooklyn».

Trovo bizzarri questi slalom quotidiani tra i paletti imposti dalle regole alimentari ortodosse. Quanto poco divertenti possano essere lo scopro il giorno dopo. In panetteria c'è poco da fare, io e Karen veniamo arruolate in cucina a rompere uova per le fettine impanate. Ne abbiamo già rotte una sessantina quando arriva uno dei cuochi che comincia a sbraitare. Ci guardiamo stranite. Il soldato a gesti e monosillabi in inglese ci fa capire che non abbiamo seguito la procedura kasher, che impone di rompere le uova uno alla volta in un bicchiere per verificare che nel tuorlo non ci siano residui di sangue. Oddio, adesso butterà via tutto. Il rabbino di questa base è particolarmente rigido. Nessuno ci ha spiegato la procedura, ma non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Per fortuna i tuorli vengono salvati. E io spedita di corsa a dare una mano alla squadra in servizio alla mensa ufficiali. A lavare piatti. Che sia una punizione? Mah...

Quello che accade dopo cena, invece, ha decisamente il sapore della punizione. La sera si mangiano formaggi e insalate e alla fine i piatti vengono accatastati in un carrello. «Ragazzi, dovete dare una mano in cucina» intima Julia. A lavare quei piatti. Perché, visto che c'è una lavastoviglie grande quanto metà del mio bilocale? Semplice, lì si sono lavati i piatti del pranzo a base di carne e non si possono lavare quelli del formaggio. Sono perplessa. Beppe mi spiega che la regola biblica «Non mangerai il capretto nel latte di sua madre» ha estensioni variabili, che vanno dal non mischiare latticini e carne nello stesso pasto a, per l'appunto, usare lavastoviglie separate. E quando ce n'è una sola, come qui, si sgobba sul lavello. A deciderlo, naturalmente, è il rabbino. È difficile comprendere questa irruzione del sacro nei ritmi militari, soprattutto in un luogo dove perfino l'obbedienza agli schemi marziali sembra tiepida. La maggior parte dei soldati sono ventenni, che scherzano tra loro come al liceo e la sera posano l'M16 per imbracciare la chitarra. Le ragazze hanno le unghie dipinte e i capelli bicolori, flirtano e si truccano. Tutti giocano con il telefonino. «Il clima è più disteso dell'anno scorso» rileva Anna. «Forse perché da mesi non ci sono attentati gravi». «Credo che il muro sia davvero la soluzione» dice Paul, riassumendo il pensiero di molti israeliani.

«Jaaace!», urla Carla al parrucchiere diciannovenne di Londra, con un bulldog rabbioso tatuato sul braccio. Jace è parcheggiato qui, in cerca di se stesso e in fuga da un figlio di due anni. Colleziona strigliate perché non si sveglia, non va a lavorare, non mette l'uniforme ed è ruvido con le persone. Troppo, secondo Carla. Lui scuote la testa e mi dice: «Ho bisogno di disciplina, devo entrare nell'esercito». Intanto Benjamin sospira, guardando Daniela poco lontano. Lei è la più corteggiata tra le volontarie. Lui è un diciottenne sveglio di Parigi. Fino a pochi mesi fa abitava a Nantes, con la famiglia, che una mattina si è ritrovata svastiche e frasi antisemite sul muro di cinta. «Se fosse successo qualcosa a me o a mio fratello, i miei genitori ci avrebbero portati qui. Non ho dubbi. Per noi ebrei Israele è un baluardo».

Daniela annuisce. Lei qui sogna di tornarci ad abitare dopo l'università. Ma alle sue compagne di corso non ha detto che avrebbe passato le vacanze in divisa. «Per poi dovere spiegare che non sono andata a uccidere i palestinesi?» sottolinea sarcastica. «Sono stanca delle bugie che accompagnano Israele». Anna, che ebrea non è, si infervora. «Come si fa a non appoggiare un popolo che ha dimostrato un tale coraggio nel resistere ai nemici?». Beppe, invece, è in cerca di un delicato equilibrio tra l'inevitabile slancio verso la patria di tutti gli ebrei e le scelte non sempre condivisibili di chi governa quella patria: «A volte sono critico con Israele, ma mi sembrava giusto venire qui a testimoniare l'importanza che questo paese ha per me e conquistarmi il diritto a esprimere i miei dubbi».

Dopo qualche giorno mi assegnano all'armeria. Uno stanzone pieno di piante, riproduzioni di cime innevate alle pareti e una voliera con due pappagalli. Ci lavorano ragazzine soldato bellissime, che smontano i Galil (fucili d'assalto) ballando il rap che tuona dallo stereo. Io e Steve, ex militare americano esperto di Iraq, dobbiamo pulire le canne dei fucili, passando con cura all'interno un'asticella con in cima un quadratino di stoffa. Steve mi spiega che anche un solo granello di polvere può deviare la traiettoria di un proiettile. L'idea mi mette terribilmente a disagio. Decido che il giorno dopo, l'ultimo dei 15 trascorsi in divisa, tornerò in cucina. Con in testa il contrasto tra le armi e la freschezza di queste ragazzine soldato, che ridono guardando Steve e i suoi 150 chili accennare un movimento dance. E lui che mi confida: «Io voglio stabilirmi in Israele. Perché la guerra contro il terrorismo si potrà vincere o perdere soltanto qui».
In un riquadro a parte Panorama riporta la storia del gruppo Sar-El:
Sar-El (abbreviazione di Sherùt LeIsraèl, Servizio per Israele) è nato nel 1973 all'indomani della guerra durante la quale vennero occupate le alture del Golan. Ha sedi in 30 paesi e ha portato in Israele oltre 85 mila volontari da tutto il mondo. Il 6 per cento dei quali ha deciso di trasferirsi definitivamente in Israele. Al programma possono partecipare anche i non ebrei. A volte vengono chieste referenze da parte di qualche esponente della comunità giudaica.

I volontari Sar-El nel 2003 sono stati in tutto 4.058. Di questi, 2.124 maschi e 1.934 femmine; 1.417 avevano meno di 25 anni; 703 erano nella fascia tra i 25 e i 45, 1.345 tra i 46 e i 65 e 593 avevano superato i 65 anni. E se la maggior parte dei volontari (3.545) del 2003 era di religione ebraica, 513 erano non ebrei. Interessante anche la provenienza geografica. La maggior parte dei volontari arrivava dalla Francia (1.161) e dagli Usa (1.178), gli italiani erano 80, 62 australiani, 370 russi e anche un marocchino. Le informazioni si possono reperire sul sito www.sar-el.org.
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