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La Stampa Rassegna Stampa
04.10.2004 11 settembre tre anni dopo
la divisione dell'Occidente

Testata: La Stampa
Data: 04 ottobre 2004
Pagina: 8
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «L'Occidente: non siamo più tutti americani»
Domani è l'11 settembre. Vogliamo ricordarlo pubblicando l'articolo di Maurizio Molinari uscito sulla Stampa. Non un semplice ricordo nè rievocazione. E'una analisi del terrorismo così come viene percepito in un paese come l'America, un paese dove la parola speranza ha ancora un significato, e con una proiezione sull'Europa, un continente alla deriva nel quale si stanno perdendo i valori di libertà e giustizia, sostituiti da viltà e tradimento.
A tre anni dal crollo delle Torri Gemelle, Ground Zero assomiglia ad un grande cantiere dove operai ed addetti al progetto della costruzione della Freedom Tower in un grande catino di cemento si confondono con i passeggeri in transito nella nuova stazione della metropolitana inaugurata per testimoniare l'inizio della rinascita di Downtown Manhattan. Lungo la rete metallica che protegge la zona dei lavori gruppi di giovani volontari offrono ai passanti magliette dell'11 settembre, chiedendo loro di «firmarle per i soldati in Iraq». Sono in molti, giovani ed adulti, ad accettare con un gesto che unisce il ricordo delle tremila vittime di Al Qaeda alla solidarietà per i militari al fronte in Iraq. Sebbene le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non siano state ancora trovate nè i legami fra l'Iraq e l'11 settembre siano stati provati i sondaggi attestano che una parte consistente degli americani pensa ciò che l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ha detto dal palco della Convention repubblicana: «L'attacco è stato giusto perché l'Iraq di Saddam Hussein era un pilastro del terrorismo internazionale».
E' questa interpretazione della guerra al terrorismo che allontana gli Stati Uniti dall'Europa e che divide la società americana, facendo apparire un evento remoto la compatta solidarietà internazionale che seguì l'11 settembre - «Siamo tutti americani» scrisse Le Monde - come anche l'assenza di divisioni che vi fu allora fra gli stessi cittadini americani. I motivi delle spaccature nell'Occidente sono due, evidenziati da altrettanti sondaggi. Primo: dietro il 76 per cento di europei che secondo il «Marshall German Fund» avversano la politica di Bush, il 20 per cento in più di due anni fa, c'è la convinzione che gli Stati Uniti abbiano sfruttato la reazione all'11 settembre per affermare una visione unipolare ed arrogante degli equilibri del Pianeta. Secondo: dietro il sostegno popolare per Bush secondo l'«Associated Press» c'è il fatto che il 98 per cento degli americani ricordano dove erano l'11 settembre, molti condizionano le loro abitudini al timore di attentati, la grande maggioranza ha paura di un nuovo attacco ed il 40 per cento ritiene che sarà più devastante dell'11 settembre mentre solo fra quelli che affermano di «non temere un nuovo attentato» prevale la tendenza a votare il democratico John F. Kerry.
In entrambe le indagini lo spartiacque è il giudizio sulla visione che George W. Bush ha della guerra al terrorismo: un conflitto lungo e su più fronti, definito dall'intellettuale neoconservatore Norman Podhoretz su «Commentary» come la «Quarta Guerra Mondiale». «Come il nazismo ed il comunismo, il terrorismo vuole non solo ucciderci e conquistarci ma distruggere tutto ciò in cui l'America crede» scrive Podhoretz identificando il nemico non solo in Al Qaeda ma in «un'ideologia» - quella dell'Islam estremista - che ha dichiarato guerra al mondo libero.
E' questa lettura dell'11 settembre che ha fatto di George W. Bush il più grande innovatore della politica estera americana dai tempi di Harry Truman perché ha identificato progressivamente in questi tre anni il nuovo nemico nell'Islam estremista e negli Stati che lo sostengono, la nuova dottrina nell'attacco preventivo, la nuova strategia militare nell'esercito leggero con armi hi-tech e truppe speciali, i nuovi alleati nei Paesi che sostengono l'America nei singoli interventi e il nuovo progetto politico di lungo termine nelle riforme politiche, sociali ed economiche nel Grande Medio Oriente per estirpare il germe dell'odio che genera il terrorismo. Bush ha modificato l'approccio dell'America alle relazioni internazionali rileggendo anche la storia degli ultimi trent'anni, imputando a governi americani e non di aver ignorato la genesi dell'ideologia terrorista sottovalutando o scendendo a patti con chi dirottava aerei negli anni ‘60 e ‘70 e lanciava autobombe negli anni ‘80.
Al di là degli interessi politici (aumentare l'influenza strategica) ed economici (diminuire la dipendenza dal greggio straniero) che muovono i passi dell'America in Medio Oriente ciò che spinge Bush è una nuova visione del mondo, nata dall'11 settembre e perseguita con la determinazione che distingue un uomo che ogni mattina legge i salmi e quando fa jogging si porta un conta-battiti non per monitorare il cuore ma per gareggiare con se stesso. «La crisi di mezza età per Bush non è stata una motocicletta o un'amante ma l'addio al bere e la scoperta della Bibbia» ha scritto Nancy Gibbs su «Time» per riassumere ciò che distingue George W. dagli altri leader politici, americani e non. Da quandò lasciò il bere, 18 anni fa, Bush vive nel rigore: non ama registrare in anticipo i discorsi nè dire che parla dalla California quando si trova a New York. Questa dimensione della leadership lo ha portato a rappresentare i valori tradizionali di un'America dove ciò che conta è famiglia, fede e business, dove si va in Chiesa la domenica e si teme l'Apocalisse e dove la sua visione della guerra al terrorismo è largamente condivisa.
Agli occhi di questa America la Spagna che ritira i soldati dall'Iraq dopo l'attacco di Madrid, la Francia che chiede aiuto ad Hamas per liberare i propri ostaggi a Baghdad e quegli intellettuali europei che immaginano negoziati di pace con Al Qaeda sono «di fatto alleati del nemico» come ha osservato Bill Gertz nel suo ultimo libro «Treachery», tradimento intenzionale.
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