Per che cosa combattiamo - terza parte la guerra preventiva e l'approccio al conflitto israelo-palestinese
Testata: Il Foglio Data: 01 settembre 2004 Pagina: 2 Autore: Norman Podhoretz Titolo: «La quarta guerra mondiale. Non solo ritorsione, così Bush sancì il diritto alla prevenzione»
Terza parte del saggio di Norman Podhoretz sulla quarta guerra mondiale, pubblicato dal Foglio. La dottrina della guerra preventiva e il cambio di prospettiva sul conflitto arabo israeliano: i palestinesi come pedina della politica delle dittature mediorientali, il sì allo Stato palestinese, condizionato alla democrazia e al rifiuto del terrorismo. Ecco il pezzo: Il terzo pilastro della dottrina Bush è l’affermazione del nostro diritto di prevenzione. Bush aveva già espresso con chiarezza il 20 settembre 2001 che non aveva alcuna intenzione di rimanere fermo ad aspettare di essere attaccato un’altra volta ("Daremo la caccia alle nazioni che forniscono aiuto o protezione al terrorismo"). Ma nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato nel gennaio 2002, è stato ancora più esplicito: "Saremo determinati, ma il tempo non gioca a nostro favore. Non starò ad aspettare il corso degli eventi, rimanendo a guardare i pericoli che si accumulano. Non resterò con le mani in mano, mentre la minaccia si avvicina sempre di più. Gli StatiUniti d’America non permetteranno ai più pericolosi regimi del mondo di minacciarci con le armi più terribili e spaventose". Per quelli che hanno orecchie per ascoltare, il discorso di gennaio dovrebbe avere reso perfettamente chiaro che Bush proponeva di andare oltre la ritorsione sferrata contro l’Afghanistan e di intraprendere azioni preventive. Tuttavia, all’inizio, quasi nessuno sembrò accorgersi che questo diritto di colpire, non per ritorsione, ma per prevenzione contro un possibile attacco, era una logica estensione del quadro generale che Bush aveva presentato il 20 settembre. Né questa nuova posizione di principio sembrò suscitare particolare attenzione quando fu ribadita in termini chiarissimi il 29 gennaio. Fu soltanto in occasione del discorso pronunciato il primo giugno 2002 all’accademia di West Point che il messaggio fu finalmente recepito. Forse la ragione per cui il terzo pilastro della dottrina Bush è diventato chiaro soltanto allora è che, per la prima volta, Bush ha collocato le sue idee in un contesto storico: "Per buona parte del secolo scorso, la difesa dell’America si è basata sulle dottrine della deterrenza e del contenimento, caratteristiche della guerra fredda. In alcuni casi, queste strategie sono ancora valide. Ma le nuove minacce richiedono anche nuove risposte. La deterrenza (ossia la promessa di una massiccia ritorsione contro le nazioni) non serve a nulla contro reti terroristiche clandestine che non devono proteggere nessuna nazione e nessun cittadino". Questa considerazione valeva per al Qaida e organizzazioni analoghe. Ma Bush ha anche spiegato, in aggiunta, il motivo per cui le vecchie dottrine non potevano funzionare con un regime come quello di Saddam Hussein in Iraq: "Il contenimento non è possibile se un dittatore squilibrato in possesso di armi di distruzione di massa può impiegare queste armi o offrirle segretamente ai suoi alleati terroristi".
I sacri dogmi del controllo degli armamenti
Rifiutandosi di sottrarsi alle implicazioni di questa analisi, Bush ha ripudiato i sacri dogmi del controllo degli armamenti e dei trattati contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa come mezzo adeguato per affrontare i pericoli costituiti dall’Iraq e da altri membri dell’asse del male: "Non possiamo difendere l’America e in nostri amici soltanto con ottimistiche speranze. Non possiamo dare fiducia alla parola dei tiranni, che sottoscrivono solennemente i trattati di non proliferazione e poi li violano sistematicamente". E poi, con assoluta determinazione, Bush ha proseguito così: "Se aspettiamo che le minacce si materializzino interamente, avremo aspettato troppo a lungo. La guerra contro il terrorismo non sarà vinta rimanendo sulla difensiva. Dobbiamo portare la battaglia nel campo nemico, distruggere i suoi piani e affrontare le minacce più gravi prima che si concretizzino. Nel mondo in cui viviamo, la sola strada per la sicurezza è la strada dell’azione. E questa nazione agirà". In questa fase iniziale, l’Amministrazione Bush negava ancora di avere già raggiunto una decisione definitiva su Saddam Hussein; ma tutti sapevano che, promettendo un nuovo intervento, Bush si riferiva a lui. Lo scopo immediato era quello di rovesciare il dittatore iracheno prima che avesse la possibilità di fornire ai terroristi armi di distruzione di massa. Ma questo non era affatto la sola né (…) la considerazione più importante per Bush e i suoi sostenitori (e anche per i suoi avversari). E in ogni caso, la logica strategica di lungo termine andava ben al di là della causa immediata per l’invasione. L’idea di Bush era quella di proseguire l’opera di "bonifica delle paludi" iniziata in Afghanistan e, successivamente, di mettere l’intera regione sulla strada della democratizzazione. Perché, se l’Aghanistan dei talebani rappresentava il volto religioso del terrorismo mediorientale, l’Iraq di Saddam costituiva il suo più potente alleato laico. E’ appunto per affrontare questo mostro a due teste che era stata elaborata una duplice strategia. A differenza del piano per l’Afghanistan, tuttavia, l’idea di invadere l’Iraq e di rovesciare Saddam Hussein ha suscitato una tempesta altrettanto forte di quella scatenata dall’uso delle parole "bene "male". Ancora prima che si aprisse il dibattito sull’Iraq, c’erano già state decise obiezioni contro tutta la tesi delle azioni preventive. Alcuni sostenevano che simili azioni sarebbero state una violazione del diritto internazionale, mentre altri ritenevano che avrebbero stabilito un pericoloso precedente in virtù del quale, per esempio, il Pakistan avrebbe potuto attaccare l’India, o viceversa l’India attaccare il Pakistan. Ma non appena la discussione è passata dalla dottrina Bush alla questione irachena, le proteste si sono fatte più circostanziate. La maggior parte di queste critiche sono state riunite all’inizio di agosto del 2002 (…) in un pezzo intitolato "Non attaccate l’Iraq". L’autore era Brent Scowcroft, già consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Bush padre. Scowcroft ha dichiarato, innanzitutto, che c’erano "pochi indizi per collegare Saddam alle organizzazioni terroristiche, e ancor meno per attribuirgli la responsabilità degli attentati dell’11 settembre. In realtà, gli obiettivi di Saddam non hanno quasi nulla in comune con quelli dei terroristi che ci minacciano, e Saddam non ha alcun interesse a fare causa comune con loro". Stando così le cose, continua Scowcroft, "in questo momento un attacco contro l’Iraq metterebbe seriamente a rischio, o addirittura annienterebbe, la campagna globale contro il terrorismo che abbiamo cominciato": campagna che deve restare "il nostro obiettivo prioritario di sicurezza". Ma questo non era il solo obiettivo prioritario per Scowcroft: "Probabilmente le conseguenze peggiori di un attacco contro Saddam sarebbero le ripercussioni che avrebbe sulla regione mediorientale. In questa regione, l’opinione diffusa è che l’Iraq sia innanzitutto un chiodo fisso degli Stati Uniti. Il chiodo fisso della regione, invece, è il conflitto israelo-palestinese". Mostrando scarso interesse per il "chiodo fisso" degli americani, Scowcroft appariva invece molto attento a quello della regione: "Se si affermasse l’impressione che voltiamo le spalle al terribile conflitto israelo-palestinese, per essere liberi di occuparci dell’Iraq, ci sarebbe un’esplosione di rabbia contro di noi. Si concluderebbe che ce ne infischiamo di un fondamentale interesse del mondo musulmano al fine di soddisfare un ristretto interesse americano". Questo, aggiunge Scowcroft, "potrebbe davvero destabilizzare i regimi arabi della regione", cosa che per un realista assoluto come lui è la peggiore di tutte. Schierandosi apertamente (…) contro la politica del secondo presidente Bush, Scowcroft ha sottovalutato la portata del mutamento di prospettiva di questa politica rispetto a quella del primo presidente Bush. Inoltre, assegnando maggiore credibilità alla già verosimile voce che Bush padre si sia opposto all’invasione dell’Iraq, l’articolo di Scowcroft smentiva quella che sarebbe presto diventata una delle teorie preferite della sinistra estrema, ossia che Bush figlio era entrato in guerra per vendicare il tentato assassinio di suo padre. Dall’altro lato, accettando implicitamente l’idea che il rovesciamento di Saddam rispondeva unicamente "a un ristretto interesse americano", Scowcroft ha fornito un certo aiuto e vantaggio alla sinistra estrema e ai suoi compagni di viaggio all’interno della comunità liberal. Infatti, proprio da questi ambienti è uscita l’accusa che fossero state le corporation, in particolare la Halliburton (di cui il vicepresidente Dick Cheney era stato direttore) e le compagnie petrolifere, a trascinarci in una guerra niente affato necessaria. Lo stesso vale anche per il rilievo dato da Scowcroft alla necessità di risolvere il "conflitto israelo-palestinese", formula ormai standard per esercitare pressione su Israele, la cui "intransigenza" viene considerata il principale ostacolo per la pace. Insistendo sul fatto che il primo ministro israeliano Ariel Sharon era per noi una minaccia ben maggiore di Saddam Hussein, Scowcroft ha fornito una rispettabile giustificazione logica a quell’ostilità nei confronti d’Israele che si è manifestata senza ritegno poche ore dopo gli attentati dell’11 settembre e che ha continuato a crescere in modo sempre più violento e diffuso. Per la destra "paleoconservatrice", all’interno della quale quest’accusa si è inizialmente coagulata, non erano le compagnie petrolifere ma Israele ad averci trascinato nell’invasione dell’Iraq. Poco dopo, questa accusa sarebbe stata fatta propria dalla sinistra, poi diffondendosi ampiamente nell’opinione pubblica. A questa accusa se ne collegava un’altra, secondo la quale l’invasione dell’Iraq era stata segretamente architettata da una cricca di ufficiali ebrei che agivano non nell’interesse del proprio paese ma al servizio d’Israele e più particolarmente di Ariel Sharon. All’inizio gli autori di questa accusa diffamante ritennero più prudente identificare i cospiratori non come ebrei ma come "neoconservatori". Era una tattica intelligente, in quanto gli ebrei rappresentavano in effetti una fetta importante di quei liberal e sinistroidi pentiti che, dopo avere rotto due o tre decenni fa con la sinistra ed essersi spostati verso destra, vennero classificati come neoconservatori. Tutti gli esperti lo sapevano già; ma per quelli che ancora non lo sapevano, era piuttosto facile sostenere quest’accusa puntando il dito su quei neoconservatori che avevano nomi ebrei e trascurando tutti gli altri numerosi esponenti del gruppo il cui nome chiaramente non ebreo avrebbe potuto confondere il quadro. Questa tattica era stata sfruttata per la prima volta da Patrick J. Buchanan per opporsi alla prima guerra del Golfo nel 1991. Buchanan aveva già denunciato i neoconservatori per avere dirottato e corrotto il movimento conservatore, ma ora rincarò ulteriormente la dose proclamando che c’erano "soltanto due gruppi che battevano il tamburo della guerra in medio oriente: il ministero della Difesa israeliano e le sue ramificazioni negli Stati Uniti". (…) Buchanan ha successivamente individuato quattro autorevoli falchi con nomi ebrei, contrapponendoli a "ragazzi con nomi come McAllister, Murphy, Gonzales e Leroy Brown", i quali, se gli ebrei l’avessero avuta vinta, sarebbero stati costretti a scendere sul campo di battaglia.
La nuova combriccola delle alte sfere
Dieci anni dopo, nel 2001, negli scritti di Buchanan e di altri paleoconservatori all’interno della comunità giornalistica (in particolare Robert Novak, Arnaud de Borchgrave e Paul Craig Roberts) è riapparso il nome di uno dei quattro falchi del 1991, Richard Perle. Ma Perle era ora affiancato da Paul Wolfowitz e Douglas Feith (entrambi con importanti incarichi al Pentagono) e da un folto numero di intellettuali e commentatori ebrei al di fuori del governo (tra i quali Charles Krauthammer, William Kristol e Robert Kagan). Come i loro predecessori del 1991, i membri della nuova combriccola erano ritratti come agenti dei loro bellicosi colleghi del governo israeliano. Ma c’era anche una differenza: il nuovo gruppo era riuscito a infiltrarsi nelle alte sfere del governo americano. In questo modo, era riuscito a manipolare i propri capi non ebrei (il vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice e lo stesso presidente George W. Bush) convincendoli a invadere l’Iraq. Non passò molto tempo prima che questa tesi fosse raccolta e diffusa da tutti coloro che volevano mettere in discredito la dottrina Bush. Ed è una cosa del tutto comprensibile: infatti, che cosa potrebbe essere meglio (…) di "smascherare" l’invasione dell’Iraq (…) come una guerra scatenata dagli ebrei e combattuta solo nell’interesse di Israele? Per proteggersi dall’accusa di antisemitismo, i sostenitori di questa tesi talvolta ribadiscono falsamente che quando parlano di "neoconservatori" non intendono gli "ebrei". Ciononostante, la tesi si fonda inequivocabilmente su fin troppo familiari fandonie antisemite, in particolare quella secondo la quale gli ebrei non sono mai realmente leali verso il paese in cui vivono e che sono sempre pronti a cospirare nell’ombra (…). A parte le sue deleterie implicazioni morali e politiche, questa tesi appare del tutto ridicola. (…) Bisognerebbe credere all’incredibile, vale a dire che persone risolute come Bush, Rumsfeld, Cheney e Rice possano essere raggirate da un sparuto gruppo di astuti subordinati (ebrei o meno), in grado di convincerli a fare qualsiasi cosa rinunciando alla propria capacità di giudizio, come persino una guerra che non sembra avere alcun rapporto con gli interessi americani. In secondo luogo, ci sarebbero delle prove scoperte dagli stessi sostenitori della tesi del complotto ebraico. Queste prove, trionfalmente proclamate, sono rappresentate da alcuni articoli e dichiarazioni pubbliche in cui i presunti cospiratori invocavano apertamente e senza alcuna ambiguità proprio quelle politiche che ora sono accusati di avere imposto a una debole Amministrazione Bush. Non soltanto questi presunti cospiratori segreti non avevano mai nascosto la loro convinzione che il rovesciamento di Saddam Hussein e l’adozione di una politica per la democratizzazione di tutto il medio oriente sarebbe stata vantaggiosa per gli Stati Uniti e per i popoli della regione, ma avevano persino dichiarato che sarebbe stata utile anche per Israele ("E allora?", domandò un Richard Perle stranamente perplesso a un ostile intervistatore, "cosa c’è che non va in questo?"). Il che ci porta al quarto pilastro della dottrina Bush. Ascoltando le proteste di Scowcroft e di molti altri, si potrebbe pensare che George W. Bush abbia completamente ignorato il "conflitto israelo-palestinese, assorbito dalla sua "ossessione" per l’Iraq. Tuttavia, già prima dell’11 settembre, si riportava diffusamente e sulla base di fonti autorevoli che Bush avesse intenzione di schierarsi apertamente in favore della creazione di uno Stato palestinese come sola strada possibile per una soluzione pacifica del conflitto. E a ottobre, con un leggero ritardo causato dagli attentati dell’11 settembre, è diventato il primo presidente americano a farlo concretamente. Eppure, (…) nel corso dei mesi successivi, sembra che Bush si sia reso conto che ci fosse qualcosa di balzano nell’idea di appoggiare la creazione di uno Stato palestinese che sarebbe stato governato da un terrorista come Yasser Arafat e dai suoi scagnozzi. Per quale motivo gli Stati Uniti avrebbero dovuto concedere, o addirittura aiutare, la creazione di un ulteriore Stato sponsor del terrorismo proprio nello stesso momento in cui erano entrati in guerra per liberare il mondo da regimi di questo genere? E’ stato presumibilmente sotto la spinta di questa domanda che Bush ha formulato un’idea ancora più innovatrice della già nuova concezione del terrorismo che aveva elaborato dopo l’11 settembre. Quest’idea è stata proposta il 24 giugno 2002 (…) in una dichiarazione sulle condizioni da lui ritenute necessarie per l’approvazione di uno Stato palestinese: "Oggi, le autorità palestinesi stanno incoraggiando, e non combattendo, il terrorismo. E’ una cosa inaccettabile. Gli Stati Uniti non appoggeranno la creazione di uno Stato palestinese fino a quando i suoi leader non si impegneranno in un’autentica lotta contro i terroristi (…)".
Alla ricerca di nuovi leader
Ma per impegnarsi in una simile lotta, ha aggiunto Bush, è necessaria l’elezione di "nuovi leader, leader non compromessi con il terrorismo", che si dedichino alla costruzione di "istituzioni politiche ed economiche completamente nuove, fondate sui principi della democrazia, dell’economia di mercato e della lotta contro il terrorismo". E’ con queste parole che Bush ha accostato la sua "visione" (come lui stesso la definisce) di uno Stato palestinese in pace con Israele alla sua prospettiva complessiva sulla piaga del terrorismo. Ed essendosi spinto fino a questo punto, ha fatto ancora e ha ricollocato la questione palestinese nel più ampio contesto dal quale la propaganda araba l’aveva tolta a forza. Poiché quest’iniziativa è passata praticamente inosservata, è opportuno ribadirne l’importanza. Ancora prima della nascita di Israele nel 1948, i paesi musulmani del medio oriente si erano opposti alla creazione di uno Stato ebraico sovrano (o di qualsiasi altro tipo di Stato ebraico) sulla terra che credevano Allah avesse riservato ai seguaci del profeta Maometto. Di conseguenza il conflitto arabo- israeliano aveva riunito centinaia di milioni di arabi e altri musulmani, che occupavano e controllavano più di due dozzine di paesi e vasti territori, contro un pugno di ebrei che, in quel momento, non superavano i tre quarti di milione e che vivevano su una minuscola striscia di terra non più grande del New Jersey. Poi, nel 1967, ci fu la guerra dei Sei giorni. Scatenata con lasperanza di cancellare Israele dalle carte geografiche, terminò con il controllo israeliano della Cisgiordania (prima occupata dalla Giordania) e della Striscia di Gaza (che prima era sotto il controllo dell’Egitto). Questa umiliante sconfitta, tuttavia, fu successivamente trasformata in una vittoria retoricae politica da parte della propaganda araba, la quale ridefinì la guerra in atto tra tutto il mondo musulmano e lo Stato ebraico come un semplice conflitto tra israeliani e palestinesi. Così, l’immagine d’Israele fu trasformata da quella di un Davide in quella di un Golia: una mossa che è riuscita ad alienare buona parte dell’antica simpatia precedentemente goduta dall’assediato piccolo Stato ebraico. Ora Bush ha rigirato nuovamente la carta. Non soltanto ha ricreato un quadro veritierio affermando che il popolo palestinese che per decenni era stato trattato come "una pedina nel conflitto mediorientale". Ha anche detto chiaramente quali sono le nazioni che ne sono protagoniste e ha spiegato senza mezzi termini quali sono i loro autentici scopi: "Ho detto in passato che, nella guerra contro il terrorismo, le nazioni del mondo o sono con noi o sono contro di noi. Per entrare nello schieramento della pace, le nazioni devono agire. Ogni capo di Stato sinceramente impegnato per la pace deve fare cessare l’incitamento alla violenza sui media ufficiali e denunciare gli attentati. Ogni nazione sinceramente impegnata per la pace deve interrompere il flusso di denaro, equipaggiamento e reclute a gruppi terroristici che vogliono la distruzione d’Israele, come Hamas, il Jihad Islamico e Hezbollah. Ogni nazione che desidera la pace deve impedire l’invio di rifornimenti iraniani a questi gruppi e opporsi ai regimi che sostengono il terrorismo, come l’Iraq. E la Siria deve dimostrare di avere scelto lo schieramento giusto in questa guerra chiudendo i campi d’addestramento dei terroristi e cacciando dal proprio territorio le organizzazioni terroristiche". In questo modo, dunque, Bush ha ricostruito il contesto adeguato per comprendere il conflitto mediorientale. Nei mesi successivi, messo sotto pressione dal suo principale alleato europeo, il primo ministro inglese Tony Blair, e dal suo stesso segretario di Stato, Colin Powell, Bush ha in qualche caso dovuto dare l’impressione di ritornare ai vecchi schemi di pensiero. Ma ogni volta è poi ritornato sui suoi passi. Né ha mai perso di vista la sua "visione" iniziale, grazie alla quale era riuscito a coinvolgere non soltanto l’Autorità Palestinese ma tutto il mondo musulmano (gli "amici" come i nemici) nella sua concezione della guerra contro il terrorismo. Rimossa così ogni incongruenza e debolezza strutturale con l’aggiunta del quarto pilastro, la dottrina Bush era ormai stabile, armonica e completa. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.