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Il Foglio Rassegna Stampa
01.09.2004 Stragi, sequestri e solidarietà insanguinate
cronache del terrore globale

Testata: Il Foglio
Data: 01 settembre 2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: «Francesi, nepalesi, israeliani, russi - Quanto rende un veto all'Onu?»
In prima pagina Il Foglio di oggi, 01-09-04, pubblica 4 colonne dedicate agli ultimi crimini del terrorismo: "I Francesi", "I nepalesi", "Gli israeliani", "I russi" La prima, "I Francesi", riporta dichiarazioni di gruppi terroristici come Hamas, responsabile della strage di Beersheva, che ciedono la liberazione degli ostaggi francesi.
In fondo alla colonna viene anche riprodotto l'allucinante proclama del gruppo Ansar al Sunna responsabile della strage dei dodici ostaggi nepalesi.
Di seguito i quattro pezzi:

I francesi

Hamas/1: "Questa (l’attentato a Beersheba,
ndr) è solo una delle risposte al martirio
dei nostri capi: lo sceicco Yassin e Rantissi.
La nostra religione ci obbliga a rispondere
alle aggressioni. Il popolo israeliano
ha scelto i suoi governanti e ha scelto
di esserne lo scudo. Per questo lo scudo dovrà
subire altri colpi. Considerate quello di
oggi un regalo ai nuovi arrivati nella nostra
terra: questo è il destino che vi attende".
Hamas/2: "Liberare i due ostaggi francesi
accrescerebbe l’isolamento dell’atteggiamento
ostile di americani e israeliani rispetto
alle nazioni arabe e musulmane e farebbe
aumentare l’appoggio della Francia a
favore delle nostre aspirazioni".
Jihad islamico: "Chiediamo all’Esercito
islamico in Iraq di liberare George Malbrunot
e Christian Chesnot… Il rapimento
non è il modo giusto per affrontare la legge
che vieta l’uso del velo islamico… La Francia
ha mantenuto sempre una posizione
equilibrata nei confronti dell’Iraq e contro
la guerra, motivo per cui non esiste alcuna
ragione che possa giustificare il sequestro".
Comitato degli Ulema (Baghdad): "Inviamo
un appello all’Esercito islamico in Iraq.
Capiamo la rabbia che ha provocato in voi
la legge sulla laicità in Francia, ma vogliamo
dirvi che noi del comitato non crediamo
che l’uccisione dei due ostaggi francesi sia
la soluzione giusta per risolvere
il problema. Ora ci sono problemi
più grandi, come quello dell’occupazione
dell’Iraq. L’uccisione
dei due ostaggi darà una grande
forza all’occupazione del paese".
Portavoce di Moqtada al Sadr:
"Questo (il rilascio dei due giornalisti
francesi, ndr) aiuterà a rafforzare
i rapporti con la Francia, che sostiene
il popolo iracheno".
Gruppo del Tawhid islamico-Brigate
Omar al Mukhtar: "Inviamo questo appello
ai nostri fratelli mujsheddin dell’Esercito
islamico in Iraq ai quali chiediamo
di liberare i due ostaggi francesi e il siriano
che sono nelle vostre mani. Vi chiediamo
nel nome dell’Islam di liberare gli
ostaggi considerando la posizione della
Francia sulla guerra e non quella del suo
governo, così come per esaudire la richiesta
di milioni di musulmani sia in Francia
sia nei paesi islamici. Noi apprezziamo le
vostre richieste, ma la mancata liberazione
degli ostaggi francesi farà rivoltare il mondo
contro l’islam e i musulmani ovunque,
compreso in Francia, e questo peggiorerà
la situazione dei musulmani. Allo stesso
modo chiediamo al popolo francese di fare
delle manifestazioni per fermare la legge
francese che vieta il velo".
Hezbollah: "Il rapimento non porterà alcun
risultato positivo e farà soltanto gravi
danni". La liberazione "nel più breve tempo
possibile" è essenziale per fare in modo
"che l’attenzione possa concentrarsi sull’occupazione
dell’Iraq".
Yasser Arafat/1: "A nome dell’Autorità
palestinese e dell’Olp mi rivolgo al popolo
fratello iracheno, a tutte le organizzazioni
irachene e, in particolare, ai nostri fratelli
che tengono prigionieri i giornalisti francesi,
perché facciano tutto il possibile per ottenere
il loro rilascio, senza indugio".
Yasser Arafat/2: "Questo lavoro (la liberazione,
ndr) sarà un tributo per la causa
palestinese e la garanzia delle buone relazioni
esistenti con i nostri amici che appoggiano
il popolo francese e il presidente Jacques
Chirac".
Fronte d’azione islamico (Giordania): "A
causa della posizione del governo francese,
che rifiuta l’occupazione anglo-americana
dell’Iraq ci appelliamo alle persone che
hanno rapito i due giornalisti affinché risparmino
la loro vita".
Ansar al Sunna così rivendica la decapitazione
dei dodici lavoratori nepalesi rapiti
e uccisi in Iraq: "Ci rivolgiamo alla Nazione
islamica da oriente a occidente, non
c’è dubbio che i torti subiti dai nemici di Allah
costringono i musulmani a usare la lingua
del Jihad. Allah fa rivivere la nazione
islamica attraverso il Jihad, così come lui
stesso dice: ‘Oh voi che credete, rispondete
ad Allah e al Suo messaggero quando vi
chiama a ciò che vi fa rivivere e sappiate
che Allah si insinua tra l’uomo e il suo cuore
e che sarete tutti radunati davanti a lui’.
L’America si è presa gioco di noi e ha chiesto
l’aiuto agli altri per combattere l’islam e
la sua gente sotto la cosiddetta ‘guerra contro
il terrorismo’ che è soltanto una guerra
crociata contro i musulmani affinché non ritornino
alla loro religione e non siano governati
dalla sharia. A causa di questi torti
abbiamo agito secondo il favore di Allah
eseguendo la pena di morte nei confronti
dei dodici nepalesi che sono sono venuti dal
loro paese per aiutare chi combatte l’islam
e i musulmani. Il loro paese è servo dei cristiani
e degli ebrei. In conclusione lanciamo
un appello al governo nepalese: ciò che
avete visto con i vostri occhi è il destino che
hanno tutti gli agenti, i traditori e le spie".

I nepalesi

Baghdad. Un’esecuzione in massa è l’ultimo
crimine dei terroristi sunniti in Iraq.
Dodici ostaggi nepalesi, rapiti il 16 agosto,
sono stati uccisi dal gruppo Ansar al Sunna,
che conclude il comunicato di rivendicazione
della strage in maniera lapidaria:
"Questa è la fine che fanno tutti gli agenti,
le spie e i traditori". Le immagini della
mattanza sono state pubblicate su Internet
e mostano due terroristi mascherati, che
immobilizzano a terra un ostaggio. Uno degli
assassini utilizza un coltello per tagliare
la testa a un nepalese e staccarla di netto.
Gli altri ostaggi vengono finiti da colpi di
armi automatiche. Sette fotografie e un video
mostrano i corpi senza vita dei sequestrati
in mezzo a pozze di sangue. Si tratta
della più spietata rappresaglia dei terroristi
sunniti da quando è iniziata l’offensiva
dei rapimenti degli stranieri, lo scorso aprile.
I nepalesi lavoravano per una società
giordana, che garantisce i servizi di cucina
e pulizia alle basi americane. "Abbiamo
eseguito la sentenza di Allah contro dodici
nepalesi venuti dal loro paese per combattere
i musulmani e servire gli ebrei e i cristiani",
si legge nel delirante comunicato.
Ebrei e cristiani vengono bollati come "genitori
delle scimmie e dei maiali", animali
impuri per l’islam. I terroristi imputano alle
loro vittime un altro peccato: "Credere in
Buddha come loro Dio". Il gruppo terrorista
inserisce la barbara azione nel progetto
di guerra santa contro l’occidente. "L’America
ha chiesto aiuto agli altri per
combattere l’islam e la sua gente nella
cosiddetta guerra contro il terrorismo
– è scritto nel testo – che è soltanto
una crociata contro i musulmani
affinché non siano governati
dalla sharia (la legge islamica,
ndr)".
Il Nepal non ha truppe in
Iraq, ma gli ostaggi sono stati
volutamente ripresi in un video
con delle bandiere americane.
Gli uomini erano considerati dal loro
governo degli illegali. Sembra che siano
partiti dal Nepal entrando clandestinamente
in India e poi, in cerca di lavoro, avevano
raggiunto la Giordania, dove una ditta
di servizi li ha assunti per spedirli in
Iraq promettendo loro che non avrebbero
corso rischi. I nepalesi erano già finiti nel
mirino di Abdul Sattar Abul Giabbar, membro
del Consiglio degli ulema sunniti, che li
aveva invitati a rimanere a casa, altrimenti
avrebbero potuto diventare "obiettivi dei
gruppi della resistenza, che ha il diritto di
colpire tutti quelli che collaborano con l’occupazione".
L’obiettivo dei terroristi è scatenare
il panico fra i lavoratori stranieri e
convincere le ditte che forniscono assistenza
alle truppe straniere ad abbandonare il
paese. In parte ci stanno riuscendo. Oltre ai
due giornalisti francesi, oggi sono una ventina
gli ostaggi stranieri, quasi tutti camionisti
che trasportavano merci dai paesi vicini.
I sequestratori distribuiscono cd
Ansar al Sunna, l’esercito dei sunniti, è
sorto lo scorso anno da una costola di Ansar
al Islam, il gruppo fondamentalista nato in
Kurdistan, prima dell’attacco americano,
con i soldi di al Qaida e l’aiuto di veterani
della guerra in Afghanistan come Abu Musab
al Zarqawi. Gli assassini dei nepalesi
operano soprattutto nel triangolo sunnita e
nell’Iraq centrale, dove è stato rapito e ucciso
il giornalista italiano Enzo Baldoni. Ansar
al Sunna ha stretti contatti operativi con
la cupola del terrore fondata da al Zarkawi,
al Tawhid Waljihad (Monoteismo e guerra
santa). L’emiro dell’Eserciro sunnita è Abu
Abdullah al Hassan bin Mahmoud, che ama
definirsi "il principe" e deve la sua feroce
militanza a un fratello, membro di spicco
dei fondamentalisti curdi. Il gruppo è di origine
salafita, come i tagliatori di teste del
terrorismo algerino, e fa proseliti nella comunità
wahhabita che risiede in Iraq. Odia
gli sciiti, considerandoli eretici, compresi i
più ribelli, come Moqtada al Sadr. Secondo
un comunicato "i nazionalisti arabi sono tutti
infedeli e contrari all’islam. Non esiste
differenza fra nazioni, ma solo giustizia e fede
in nome di Allah". Il gruppo occupa l’ala
più estrema della guerriglia antiamericana
in contrasto con la fazione moderata e nazionalista,
che punta a un accordo con il governo
Allawi. L’esercito è diviso in unità,
compartimentate fra loro, come la brigata
Hamza, la divisione di battaglia al Firq al
Mansura e l’Abu Hanifa, imam sunnita che
dà il nome a una famosa moschea di Baghdad.
All’inizio dell’anno i terroristi hanno
distribuito un cd: "Rayat al haq" (Bandiere
del diritto), con il quale descrivevano 285
"operazioni" contro il governo iracheno e le
truppe americane. I dati delle perdite avversarie
sono esagerate e si sospetta che terroristi
suicidi dell’Ansar al Sunna abbiano
decapitato i vertici curdi a Irbil. Una delle
azioni più eclatanti che hanno rivendicato è
stata l’imboscata in cui hanno perso la vita
sette agenti dell’intelligence spagnola, lo
scorso novembre. Una volta, però, il "principe"
di Ansar al Sunna è caduto in una provocazione
in rete: qualcuno aveva annunciato
a suo nome la decapitazione di un marine
di origine libanese. In realtà il soldato
americano era stato rilasciato ed è rispuntato
all’ambasciata americana a Beirut, ma
per smentire l’esecuzione era sceso in campo
addirittura al Zarqawi.

Gli israeliani

Gerusalemme. Dopo cinque mesi di fallimenti,
il terrorismo palestinese ha colpito
di nuovo. Ieri pomeriggio, a Beersheba, due
attentatori si sono fatti esplodere su due autobus
a poche decine di metri l’uno dall’altro,
a distanza di pochi secondi, uccidendo
almeno 16 persone e ferendone un centinaio.
L’attacco è il primo successo dei gruppi
terroristi palestinesi dal marzo scorso,
quando due attentatori si fecero esplodere
ad Ashdod, causando la morte di dieci persone,
ed è il primo dopo l’uccisione mirata
da parte di Israele dei due maggiori leader
di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin e il pediatra
Abdel Aziz el Rantisi. La rivendicazione
di Hamas spiega l’azione come vendetta
per la morte dei due leader, anche se
manca di credibilità a cinque mesi dai fatti.
Altre rivendicazioni sostengono che l’evento
è legato allo sciopero della fame dei prigionieri
palestinesi nelle carceri israeliane,
ormai in corso con fasi alterne da più di due
settimane. Ieri un attentatore è stato bloccato
al checkpoint di Erez, il passaggio di
frontiera tra Israele e Gaza; tra marzo e fine
luglio la sicurezza israeliana ha sventato 65
attentati, indicazione di come Hamas e gli
altri gruppi palestinesi ancora impegnati
nella lotta armata hanno visto la loro capacità
operativa seriamente danneggiata. Dall’attacco
ad Ashdod soltanto tre tentativi
hanno avuto successo fino a ieri, nessuno
dei tre all’interno della linea verde.
La tecnica usata nell’attentato di ieri
quindi stupisce per una recuperata capacità
non soltanto di colpire, ma anche di
mettere insieme un’operazione logisticamente
difficile e sofisticata, che ha comportato
il coordinamento di due attentatori su
due autobus diversi ma su percorsi simili
per massimizzare il danno a cose e persone.
Resta da vedere se a questo successo ne seguiranno
a breve degli altri. La reazione
israeliana sarà probabilmente moderata, vista
la concomitanza con la Convention repubblicana
a New York e la prevedibile
scarsa inclinazione del governo Sharon a un
incremento della violenza in questo frangente.
Va subito esclusa la possibilità che
Hamas abbia scelto questa concomitanza
per il timing dell’azione, è un’organizzazione
troppo provinciale, a differenza di Hezbollah
e dei suoi protettori iraniani, per fare
un calcolo di questo tipo.
Sharon accelera sulla road map del ritiro
Nel brevissimo termine una cosa è sicura.
In Israele vi saranno reazioni verbali
rabbiose a destra, come è già avvenuto ieri
con due esponenti di spicco (Gila Finkelstein
del Partito nazionale religioso e Zvi
Handel dell’Unione nazionale) che hanno
indirettamente collegato l’attentato al piano
di disimpegno da Gaza di Ariel Sharon,
piano cui il premier ha appena dato una notevole
accelerata, annunciando le prossime
tappe formali, fino alla sua esecuzione anticipata
forse già a febbraio 2005. Ma nel lungo
periodo il sostegno per il disimpegno non
calerà. L’attentato di ieri, i cui esecutori arrivavano
da Hebron, zona della Cisgiordania
dove la barriera difensiva israeliana
esiste soltanto sulla carta, rafforzerà la spinta
a completarne il progetto. E dove sorge la
barriera, quello sarà nei fatti il confine sul
quale Israele si ritirerà in un futuro disimpegno
anche in Cisgiordania. In quanto a
contromisure interne, Israele sta già facendo
il massimo, tra uccisioni mirate e raid
giornalieri (l’ultimo ha portato all’arresto di
38 terroristi). La destra solleva lo spettro del
ritiro come cedimento sotto la pressione
terrorista. Non si rende conto invece che
Israele, oggi di nuovo in posizione di forza
di fronte allo scollamento dell’Anp, si vuole
disimpegnare per sfiducia e disillusione nei
confronti dei vicini palestinesi, la cui società
ha generato l’orrore del terrorismo
suicida. L’evento di ieri non fa altro che
rafforzare i sentimenti che stanno dietro il
sostegno per la barriera e il disimpegno.

I russi

Roma. Poche ore dopo il vertice di Soci –
presenti Vladimir Putin, Gerhard Schroeder
e Jacques Chirac – una vettura imbottita di
esplosivo è saltata in aria davanti alla centrale
stazione Rizhskaya della metro di Mosca,
provocando la morte di almeno 10 persone.
A indagini appena iniziate, l’ipotesi
più probabile è quella di un attacco terroristico
riconducibile al nazionalismo ceceno,
un atto che peraltro giunge poche ore dopo
l’ammissione da parte delle autorità russe
che i due Tupolev caduti alla
vigilia delle elezioni presidenziali
a Grozny, provocando
la morte di 90 persone,
erano stati fatti saltare
con un esplosivo usato in
passato dalla guerriglia.
L’ultimo grave attentato a
Mosca si era verificato a
febbraio, quando un martire
assassino aveva ucciso 39
persone, ed era poi giunta
una rivendicazione cecena.
Il Cremlino, che in un primo momento
aveva scelto come pista principale per le indagini
sulla tragedia dei Tupolev quella dei
guasti tecnici o degli errori umani (pista peraltro
ardita, visto che i due velivoli erano
scomparsi dai radar a distanza di tempo di
un minuto l’uno dall’altro), sta ora indirizzando
la sua attenzione ai possibili legami
tra la guerriglia cecena e al Qaida. Lo ha
detto il presidente Putin, aggiungendo che
le indagini chiariranno la fondatezza di questa
ipotesi. "Il marchio dei terroristi che ancora
operano in Cecenia è confermato per
l’ennesima volta, almeno una delle organizzazioni
terroristiche internazionali legate ad
al Qaida ha rivendicato la responsabilità degli
attacchi terroristici – ha affermato Putin
– Se un’organizzazione terroristica legata ad
al Qaida ha rivendicato la responsabilità degli
attacchi, ciò conferma il legame tra specifiche
forze in Cecenia e il terrorismo internazionale".
Ma il presidente russo ha difeso
la legittimità e la credibilità delle elezioni
di domenica scorsa in Cecenia, che
hanno portato alla più alta carica della piccola
Repubblica caucasica, Alu Alkhanov, 47
anni di età, ex ufficiale di polizia che era stato
nominato da Akhmad Khadirov (allora
presidente poi ucciso in un terribile attentato)
ministro dell’Interno l’anno scorso.
Le dichiarazioni del presidente russo
hanno due obiettivi. Il primo: confermare
che la politica del Cremlino – linea dura
contro la guerriglia e contro i leader indipendentisti,
sostegno a candidati locali filorussi
in elezioni (quantomeno discusse e
non osservate da vicino dalla comunità internazionale)
– sta, nonostante tutto, portando
a una normalizzazione della situazione. Il
secondo: aprire lo scenario a fattori esterni
che in qualche modo possano giustificare
l’incapacità russa di fermare l’ondata di attacchi
e di provare che davvero la crisi di
Grozny si avvia verso un futuro di normalità.
Putin vuole far rientrare la recrudescenza
della violenza cecena e le reazioni russe nell’ambito
della più ampia
guerra al terrorismo internazionale.
Vuole farlo da
mesi, ma ha di solito ricevuto
segnali contrastanti da
Washington, comunque
preoccupata per l’instabilità
dell’area caucasica. Il
Cremlino può certo avanzare
alcune prove, come i contatti
in passato tra l’ala della
guerriglia che fa capo a
Basaiev e settori della rete
di al Qaida e come l’ultima rivendicazione
degli attentati, ma secondo molti osservatori
c’è un aspetto di tattica diplomatica – ottenere
un via libera della comunità internazionale
alla sua politica in Cecenia e rinsaldare
il legame con gli Stati Uniti – che spinge
Putin a insistere su Grozny come particolare
di un problema generale.
Le preoccupazioni sull’Iran
Questa volta però per Putin l’arma politico-
diplomatica può essere a doppio taglio.
Perché per gli Stati Uniti anche l’Iraq da stabilizzare
è un problema particolare di una
crisi più generale, quella della guerra al terrorismo
internazionale. Ieri da Soci, dai tre
leader – russo, francese e tedesco – sono giunte
rassicurazioni sul fatto che Mosca, Parigi e
Berlino sono interessate e disposte a collaborare
– con ogni strumento? – all’opera di
pacificazione in atto nel dopoguerra iracheno.
Il presidente Putin si è spinto anche oltre
nell’andare incontro alle preoccupazioni dell’Amministrazione
Bush sulla proliferazione
di armi di distruzione di massa, spiegando:
"Ci opponiamo categoricamente all’allargamento
del club delle potenze atomiche. Abbiamo
cooperato con l’Iran in passato e continueremo
a farlo, ma come l’Europa e gli Stati
Uniti ci interroghiamo sulle finalità del
programma nucleare di Teheran".
Nella fase della guerra in Iraq, la Russia
ha, in via sotterranea e in qualche modo,
non ostacolato (per non dire che abbia aiutato)
Washington, ma poco poi ha fatto negli
ultimi mesi, mentre tutta la vicenda Yukos
provocava agli Stati Uniti e al mondo assetato
di petrolio grane non da poco. Ora qualcuno
in America potrebbe decidere di credere
a Putin, quando dice che la crisi cecena
è legata alla rete di al Qaida, ma a condizione
che Mosca si impegni di più anche su
altri fronti della guerra al terrorismo.
A pagina 3 l'editoriale "Quanto rende un veto all'Onu", un commento sulle solidarietà espresse alla Francia da Hamas, Moqtada Sadr, il Jihad islamico e altri personaggi di simile raccomandabilità.
Ecco il pezzo.

Abbiamo passato la giornata di ieri
sperando che Chesnot e Malbrunot,
i due giornalisti francesi nelle mani del
nemico islamico radicale, fossero liberati.
Abbiamo sperato che l’appello in
loro favore di Hamas, appena reduce
dal macello di Beersheba, avesse il suo
autorevole effetto. Abbiamo letto con
apprensione tutti i segnali di fumo positivi
della giornata: l’appello del Jihad
islamico palestinese, altro gruppo sterminatore
di ebrei, e quello di Moqtada
Al Sadr, il bandito di Najaf riciclato in
politica; quello del Consiglio degli Ulema
di Baghdad, così sottile nella distinzione
tra il diritto alla vita di un francese
e il dovere di dare la morte agli altri,
e quello di Arafat, ormai meno autorevole
ma sempre utile; ci siamo bevuti
l’articolo di un giornale islamico algerino
che attacca i sequestratori perché
"si danno la zappa sui piedi, visto che
Chirac ha cercato di dare un volto umano
al nuovo ordine mondiale con il suo
veto". E abbiamo sperato che il veto di
Jacques Chirac all’Onu possa essere
messo all’incasso almeno in questa occasione,
che vale due vite qualunque.
Noi non facciamo distinzione tra i prigionieri
e le vittime della guerra santa,
tra ebrei cristiani body guard pacifisti
buddisti nepalesi soldati americani
guardie irachene funzionari dell’Onu
operatori della Croce rossa civili di
ogni etnia e religione. Ci sembra più logico,
più intelligente e forse anche meno
indifferente, concentrarci sul nemico,
cercare di capirne l’odio nelle sue
radici, e magari combatterlo sacrificando
la voglia di pace e di serenità che
pervade il nostro modo di vita. Per questo
speriamo fino all’ultimo che per una
volta il nemico una distinzione la faccia,
e che la stessa mano che ha trucidato
dodici nepalesi qualunque o i qualunque
Baldoni e Quattrocchi si ritiri e
lasci pietosamente in libertà due ragazzi
qualunque delle nostre parti europee
catturati e minacciati di morte.
Ma la nostra speranza finisce qui,
dove comincia la riflessione politica
sulla circostanza più atroce che potessimo
immaginare, nonostante qualche
sospetto: il nemico terrorista islamico,
per una sua parte cospicua e ferocemente
insanguinata, guarda alla Francia
come a un alleato prezioso nella
lotta contro gli ebrei e i cristiani d’occidente,
e perfino contro i buddisti nepalesi.
E siccome la Francia sta ad occidente
del Nepal, siccome è il grande
paese dei diritti universali dell’uomo,
siccome la sua cultura ci è sorella amata,
siccome è nostro alleato e partner
in Europa anche nei finanziamenti ad
Hamas, siccome è il faro dell’ideologia
pacifista e terzomondista, ci domandiamo
tristi che cosa sia successo perché
un simile denudamento appaia oggi
in questa luce fosca. E l’unica residua
speranza è che i francesi si sappiano
levare al di sopra di una classe
dirigente indecente, e ci restituiscano
la Francia che abbiamo sempre amato.
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