martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
31.08.2004 Per che cosa combattiamo - secona parte
la dottrina Bush e la guerra in Afghanistan secondo Norman Podhoretz

Testata: Il Foglio
Data: 31 agosto 2004
Pagina: 1
Autore: Norman Podhoretz
Titolo: «La quarta guerra mondiale. L'impegno etico e la scelta politica della "dottrina Bush"»
Pubblichiamo la seconda parte del saggio di Norman Podhoretz sulla "quarta guerra mondiale".
Podhoretz analizza dapprima la "dottrina Bush", così come è stata delineata dal discorso al Congresso del 20 settembre 2001 e in tre successivi discorsi. Passa poi alla guerra in Afghanistan, alla sua conduzione militare e al suo significato politico.
Ecco il pezzo:

In "The Sources of Soviet Conduct" (del
1947) la difesa teorica della strategia
adottata da Harry Truman per combattere
la nuova guerra, George F. Kennan (allora
direttore del Policy planning staff del Dipartimento
di Stato, e autore del documento
con lo pseudonimo "X"), descriveva questa
strategia come "un contenimento di lungo
termine, paziente ma risoluto e attento
alla volontà di espansione russa (…) per
mezzo dell’applicazione acuta e vigile della
controforza in una serie di aree geografiche
e politiche in costante mutamento".
In altri termini (sebbene lo stesso Kennan
non abbia usato proprio quelle parole),
avevamo di fronte la prospettiva di un’altra
guerra mondiale; e – benché negli anni successivi,
sconfessando il significato evidente
delle parole che lui stesso aveva usato,
Kennan cercasse di pretendere che la
"controforza"che aveva in mente non fosse
di tipo militare – non sarebbe stata una
guerra completamente "fredda". Prima della
sua conclusione, sarebbero morti oltre
100.000 americani sui lontani campi di battaglia
della Corea e del Vietnam, e sarebbe
stato sparso anche il sangue di molti nostri
alleati nella lotta ideologica e politica contro
l’Unione Sovietica su quegli stessi campi
di battaglia e in molti altri ancora.
Per queste ragioni, sono d’accordo con
uno dei nostri quattro più autorevoli studiosi
di strategia militare, Eliot A. Cohen, il
quale ritiene che a quella che si definisce
normalmente "guerra fredda" (un’espressione,
detto per inciso, coniata dalla propaganda
sovietica) dovrebbe essere dato un
altro nome. "La guerra fredda", scrive
Cohen, fu in realtà "la terza guerra mondiale,
cosa che ci fa ricordare che non tutti
i conflitti globali implicano il movimento di
eserciti di milioni di uomini, o le convenzionali
linee del fronte disegnate su una
carta". Sono anche d’accordo sul fatto che
la natura del conflitto che combattiamo oggi
può essere compresa adeguatamente soltanto
se lo consideriamo come la quarta
guerra mondiale.
Per giustificare questo nome (anziché,
per esempio, "guerra al terrorismo"),
Cohen elenca "alcune caratteristiche fondamentali"
che l’accomunano alla terza
guerra mondiale: "Il fatto che sia, in effetti,
globale; che preveda una combinazione di
iniziative militari e non militari; che richieda
la mobilitazione di notevoli capacità,
esperienze e risorse, se non di un vasto
numero di soldati; che possa durare
molto tempo; che abbia radici ideologiche".
C’è ancora una caratteristica in comune
non menzionata da Cohen: sia la terza che
la quarta guerra mondiale sono state dichiarate
per mezzo di una dottrina presidenziale.
La dottrina Truman del 1947 nacque
con l’annuncio che "la politica degli
Stati Uniti doveva essere a sostegno dei popoli
liberi che resistono contro la sottomissione
da parte di minoranze armate o di
pressioni esterne". Cominciando con un
programma speciale di aiuti alla Grecia e
alla Turchia, che erano minacciate dalla
possibilità di un golpe comunista, la strategia
fu presto estesa lanciando un ambizioso
programma di aiuti economici noto come
Piano Marshall.
Lo scopo del Piano Marshall era quello
di promuovere e affrettare la ricostruzione
dell’economia dell’Europa occidentale, distrutta
dalla guerra: non solo perché si trattava
di una cosa giusta in sé, né soltanto
perché era nell’interesse americano, ma
anche perché avrebbe contribuito a eliminare
le rimostranze di cui il comunismo si
nutriva
Poi avvenne però un colpo di Stato comunista
in Cecoslovacchia. Essendo avvenuto
subito dopo l’insediamento nei paesi
occupati dell’Europa dell’est di regimi fantoccio
da parte dell’Unione Sovietica, il colpo
di Stato cecoslovacco dimostrò che le
misure economiche non sarebbero state
sufficienti per allontanare un analogo pericolo
per l’Italia e la Francia da parte dei
fortissimi partiti comunisti locali completamente
asserviti a Mosca. Sulla base di
questa consapevolezza (e di analoghe
preoccupazioni su una possibile invasione
sovietica dell’Europa occidentale) fu creata
la North Atlantic Treaty Organization
(Nato).
Il contenimento si presentava quindi come
una strategia triplice: economica, politica
e militare. Tutte e tre queste componenti
sarebbero state utilizzate in varia misura
nel corso dei quattro decenni che ci
sono voluti per vincere la terza guerra mondiale.
Se la dottrina Truman si è dispiegata in
modo graduale, rivelando il suo pieno significato
poco a poco, la dottrina Bush è
stata enunciata in modo pressoché completo
in un solo discorso, pronunciato davanti
a una seduta plenaria del Congresso il 20
settembre 2001. E’ stata poi ulteriormente
chiarita ed elaborata in tre successive dichiarazioni:
il primo discorso sullo stato
dell’Unione pronunciato da Bush il 29 gennaio
2002; il discorso all’accademia militare
di Westpoint del primo giugno 2002 e le
osservazioni sul medioriente rilasciate tre
settimane dopo, il 24 giugno. A parte questa
differenza, lo stupore è stato altrettanto
grande che al tempo di Truman, sia per il
contenuto della nuova dottrina sia per la
trasformazione che rivelava nel suo autore.
Perché George W. Bush, che in politica
estera era sempre stato un più o meno passivo
discepolo di suo padre, si era messo a
parlare come un combattivo seguace di Ronald
Reagan.
In netto contrasto con Reagan, generalmente
considerato un pericoloso ideologo,
Bush padre (che era stato vicepresidente di
Reagan) fu spesso accusato di non avere alcuna
"visione ideale". L’accusa era giusta
perché Bush padre non aveva in effetti alcun
principio guida per il ruolo che gli Stati
Uniti avrebbero potuto svolgere nel rimodellamento
del mondo post guerra fredda.
Tenace sostenitore del punto di vista
"realista" negli affari mondiali, riteneva
che il mantenimento della stabilità fosse lo
scopo precipuo della politica estera americana,
e la sola via saggia e prudente da seguire.
Perciò, quando, nel 1991, Saddam
Hussein sconvolse l’equilibrio di potenza
in medioriente invadendo il Kuwait, Bush
entrò in guerra non per creare una nuova
configurazione nella regione ma per restaurare
lo status quo ante. E fu a causa
della stessa dominante preoccupazione per
il mantenimento della stabilità che, dopo
avere realizzato l’obiettivo di cacciare Saddam
dal Kuwait, Bush lo lasciò al potere.

Prima e dopo l’11 settembre

Quanto al secondo presidente Bush, prima
dell’11 settembre era, secondo tutte le
apparenza, altrettanto privo di una "visione
ideale". Se nutriva qualche dubbio sull’opportunità
dell’approccio "realista", non
lo dava a vedere. Nulla di ciò che diceva o
faceva poteva in alcun modo far supporre
che fosse insoddisfatto dell’idea secondo la
quale il suo principale compito in politica
estera era quello di mantenere in equilibrio
la situazione. Né c’era alcun segno che
potesse essere attratto dalla più "idealistica"
ambizione reaganiana di cambiare il
mondo, e in particolare con il fine "wilsoniano"
di renderlo un luogo "sicuro per la
democrazia" incoraggiando in tutti i paesi
possibili le libertà di cui godevano gli americani.
E’ per questo che il discorso fatto da
Bush il 20 settembre 2001 ha lasciato tutti
di stucco. Pronunciato soltato nove giorni
dopo l’attacco al World Trade Center e al
Pentagono, con l’ufficiale dichiarazione
che gli Stati Uniti erano ora in guerra, il discorso
del 20 settembre diede a questa nazione
la consapevolezza che, pur se era stato
davvero un rigido e tradizionale realista
come suo padre, George W. Bush era ora diventato
un politico rinato come un appassionato
idealista della democrazia secondo
il modello reaganiano.
Questo discorso fu anche l’atto di nascita
della dottrina Bush, nella quale si delineava
il concetto di quarta guerra mondiale
con la stessa chiarezza con cui nella dottrina
Truman si era delineato quello di terza
guerra mondiale. Bush non definì esplicitamente
quarta guerra mondiale il nuovo
conflitto, ma lo caratterizzò come il diretto
successore delle due precedenti guerre
mondiali. Così, a proposito della "rete terroristica
globale" che ci aveva attaccato sul
nostro stesso suolo, disse: "Abbiamo già visto
questo tipo di cose. Sono le eredi di tutte
le violente ideologie del ventesimo secolo.
Sacrificando la vita umana al servizio
delle loro idee radicali, rinunciando ad
ogni valore tranne che alla volontà di potenza,
seguono la strada del fascismo, del
nazismo e del totalitarismo. E continueranno
a seguire quella strada fino a precipitare
nella fossa comune delle menzogne".
Se questo passaggio, all’inizio del discorso,
collegava la dottrina Bush a quella Truman
e alla grande battaglia prima combattuta
da Franklin D. Roosevelt, la parte finale
dimostrava che, se il presidente George
W. Bush non aveva fino ad allora avuto
una "visione ideale", ora gli luccicava addirittura
negli occhi. "Ci è stato fatto un
enorme male", proclamò verso la fine, "abbiamo
subito una grande perdita. Ma nel
nostro dolore e nella nostra rabbia abbiamo
trovato la nostra missione e il nostro
scopo". Poi ne definì concretamente il contenuto:
"Il progresso della libertà umana, il
grande risultato del nostro tempo e la grande
speranza di sempre, ora dipende da noi.
La nostra nazione libererà il suo popolo e
il suo futuro da quest’oscura minaccia di
violenza. Con il nostro impegno e il nostro
coraggio, chiameremo a raccolta il mondo.
Non si stancheremo, non tentenneremo e
non falliremo".
Alla fine del suo appello, usando in parte
le stesse parole che prima aveva riferito
alla nazione nel suo complesso, Bush passò
a parlare in prima persona, giurando il proprio
impegno nella grande missione che
tutti eravamo chiamati a compiere: "Non
dimenticherò la ferita inferta al nostro paese
né tantomeno coloro che ci hanno colpito.
Non esiterò, non mi fermerò e non mi tirerò
mai indietro in questa battaglia per la
libertà e la sicurezza del popolo americano.
Lo svolgimento di questo conflitto è ignoto,
ma il suo risultato è certo. La libertà e la
paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre
state in guerra, e noi sappiamo che Dio
non è neutrale in questa lotta".
Nemmeno Ronald Reagan, il "Grande
Comunicatore", aveva mai espresso con simile
eloquenza lo slancio "idealistico" sul
quale si fondava la sua concezione del ruolo
dell’America nel mondo. E non è stata la
sola volta che Bush ha battuto su questo tasto.
Due anni e mezzo dopo il discorso del
20 settembre 2001, in un momento in cui la
guerra sembrava andare molto male, ha ribadito
le stesse idee con cui aveva cercato
di rincuorare la nazione subito dopo gli attentati.
L’occasione è stata un discorso d’apertura
alla Air Force Academy, pronunciato
il 2 giugno 2004, nel corso del quale ha
ripetutamente posto la "guerra contro il
terrorismo" in diretta successione alla seconda
e alla terza guerra mondiale. Ha anche
rinunciato a qualsiasi cortesia diplomatica
nel suo rifiuto del realismo: "Per decenni,
le nazioni libere hanno tollerato, in
nome della stabilità, l’oppressione in medioriente.
In pratica, questo atteggiamento
ha portato soltanto a meno stabilità e a più
oppressione. Perciò, ho deciso di cambiare
politica".
E in modo ancora meno diplomatico:
"Alcuni di coloro che si definiscono realisti
si chiedono se la diffusione della democrazia
in medioriente debba essere una nostra
preoccupazione. Ebbene, i realisti in
questo caso hanno perso contatto con una
realtà fondamentale: l’America è sempre
stata meno al sicuro quando la libertà è costretta
a battere in ritirata, e lo è sempre
stata di più quando la libertà marcia trionfalmente
in avanti".
Per coronare il tutto, Bush ha infine asserito
che la sua politica, da lui giustificata
in primo luogo come il modo migliore per
proteggere gli interessi americani, si inseriva
anche nel solco della versione reaganiana
dell’idealismo wilsoniano: "Questo
conflitto avrà molte svolte, e ci saranno disfatte
lungo la strada della vittoria. Ma la
nostra fiducia deriva da una convinzione
incrollabile: Noi crediamo nelle parole di
Ronald Reagan, il quale affermava che "il
futuro appartiene agli uomini liberi".
Il primo pilastro della dottrina Bush,
dunque, poggia sul rifiuto del relativismo
morale e su una affermazione aperta e risoluta
della necessità e della possibilità di
un giudizio morale nell’ambito degli affari
internazionali. E per essere certo che ciò
che aveva detto il 20 settembre 2001 aveva
colpito nel segno, Bush lo ha ribadito con
precisione ancora maggiore nel discorso
sullo stato dell’Unione, pronunciato il 29
gennaio 2002.
Bush aveva ottenuto da molti un entusiastico
applauso per la "chiarezza morale"
del suo discorso del 20 settembre, ma aveva
anche provocato un disprezzo e un disgusto
ancora più profondi in numerosi
pensatori "progressisti", commentatori
"raffinati" e diplomatici, tanto in patria
quanto all’estero. Nel discorso sullo stato
dell’Unione esasperò addirittura il loro
sdegno mettendosi a parlare in modo più
specifico. Mentre prima aveva parlato soltanto
in termini generali del nemico contro
il quale dovevamo combattere la quarta
guerra mondiale, ora Bush indicò tre nazioni
(Iraq, Iran e Corea del Nord), da lui
definite come parte di un "asse del male".

Dall’impero all’asse

Ancora una volta Bush seguiva in questo
le orme di Ronald Reagan, il quale aveva
denunciato l’Unione Sovietica (nostro principale
nemico durante la terza guerra mondiale)
come un "impero del male" ed era
stato accolto da un autentico scoppio di
isteria nelle ambasciate, nelle università e
nei giornali di tutto il mondo. Male? Quale
posto poteva avere una parola come quella
nel vocabolario degli affari internazionali,
concesso poi che non sarebbe mai venuto
in mente a una persona illuminata di riesumarla
dal cimitero dei concetti antiquati
nemmeno per impiegarla in qualsiasi altro
ambito? Ma agli occhi degli "esperti", Reagan
non era affatto una persona illuminata.
Era invece un "cowboy", un attore di film
di serie B, il quale, per qualche meccanismo
perverso della democrazia, era riuscito
a salire alla Casa Bianca. Per la sua denuncia
dell’impero sovietico, Reagan fu accusato
sia di volere scatenare una guerra
nucleare sia di essere troppo stupido per
capire ciò che la sua retorica violentemente
provocatoria avrebbe inavvertitamente
potuto provocare.
La reazione di fronte alle parole di Bush è
stata forse meno isterica ma più sprezzante
e sdegnata rispetto a quella suscitata
da Reagan, dal momento che in questo caso
non si è paventata la guerra nucleare.
Ma l’atmosfera è stata altrettanto spessa e
fitta di scherno e derisione. Chi altri se non
un ignorante sempliciotto – o un fanatico
fondamentalista religioso – potrebbe ricorrere
a antiquati e sorpassati commenti morali
assoluti come "bene" e "male"? Da un
lato, ci voleva davvero una massiccia dose
di semplicioneria per bollare un’intera nazione
come il "male"; dall’altro, soltanto
uno sciocco come Bush (ancora più di Reagan)
poteva convincersi e sostenere con
completa e infantile sincerità che solo gli
Stati Uniti, tra tutti i paesi del mondo, rappresentino
il bene. Senza dubbio soltanto
un ignorante zoticone può non essere consapevole
degli innumerevoli crimini commessi
dall’America, tanto sul suo stesso
suolo quanto all’estero; crimini che i più
autorevoli intellettuali del paese hanno documentato
con la massima precisione richiesta
dalla ormai classica visione accademica
della storia di questo paese.
Ecco come si esprime Gore Vidal, uno di
questa schiera di intellettuali: "Insomma,
vedere Bush fare la sua piccola danza di
guerra nel Congresso contro i "malfattori"
e "l’asse del male" (…) Ho pensato: non sa
nemmeno che cosa significhi la parola ‘asse’.
Qualcuno deve avergliela suggerita. E’
forsa la cosa più insensata che si possa dire.
Poi se ne viene fuori con una dozzina di
altri paesi che ospitano gente ‘cattiva’, che
potrebbe compiere ‘atti terroristici’. Che
cos’è un atto terroristico? Tutto ciò che secondo
lui è un atto terroristico. E noi daremo
la caccia ai terroristi. Perché noi siamo
il bene e loro sono il male. E li ‘beccheremo’".
Sono parole più dure e violente di quelle
lette sulle pagine degli editoriali, ascoltate
nei think tank e nei ministeri esteri o
espresse dalla maggior parte degli altri intellettuali,
ma in realtà niente affatto diverse
da ciò che quasi tutti costoro pensano
e dicono in privato.
Ma si è capito abbastanza presto che Bush
non si sarebbe fatto intimidire. In successive
dichiarazioni ha continuato a ribadire
il primo pilastro della sua dottrina e
ad affermare l’universalità del fine morale
che anima questa nuova guerra: "Alcuni si
preoccupano del fatto che non sia diplomatico
o gentile parlare nei termini di ciò
che è giusto o sbagliato. Non sono d’accordo.
Circostanze differenti richiedono metodi
differenti, ma non principi morali differenti.
La verità morale è la stessa in ogni
cultura, in ogni tempo, in ogni luogo. Siamo
impegnati in una battaglia tra il bene e il
male, e l’America chiama il male con il suo
nome".
Poi, con un affascinante salto nel grande
dibattito teoretico dell’era post guerra fredda
(sebbene senza identificare i principali
partecipanti), Bush si è schierato apertamente
dalla parte della molto fraintesa tesi
di Francis Fukuyama sulla "fine della
storia", secondo la quale la sconfitta del comunismo
aveva eliminato il solo vero rivale
del nostro sistema politico: "Il ventesimo
secolo si è concluso con un solo modello
ancora in vita di progresso umano, fondato
su esigenze imprescindibili della dignità
umana, sul regno della legge, sui limiti del
potere dello Stato, sul rispetto delle donne,
della proprietà privata, della libertà di parola,
della giustizia uguale per tutti e della
tolleranza religiosa".
Dopo avere condiviso la tesi di Fukuyama,
Bush ha respinto la tesi rivale del politologo
Samuel Huntington, secondo il quale
stiamo assistendo ad uno "scontro di civiltà",
nato dal conflitto fra visioni apparentemente
incompatibili dominante nelle
varie regioni del mondo: "Quando si tratta
dei diritti comuni e delle esigenze degli uomini
e delle donne, non c’è nessuno scontro
di civiltà. I canoni della libertà sono gli
stessi in Africa, in America Latina e nel
mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche
desiderano e meritano le stesse libertà
e le stesse opportunità che hanno i
popoli di altre nazioni. I loro governi devono
soddisfare queste speranze".

Il regime change

Se il primo dei quattro pilastri sui quali
poggia la dottrina Bush è rappresentato da
un nuovo atteggiamento morale, il secondo
è costituito da un altrettanto significativo
spostamento di concezione sul terrorismo
rispetto alla definizione che si è imposta
nel mondo accademico e in quello degli intellettuali.
In base a questa nuova concezione
(confermata ripetutamente dal fatto
che la maggior parte dei terroristi di cui
sappiamo qualcosa provengono da famiglie
benestanti), il terrorismo non viene più
considerato il prodotto di fattori economici.
Le "paludi" in cui questa peste assassina
si nutre non sono quelle della povertà e
della fame ma quelle dell’oppressione politica.
Soltanto prosciugando queste paludi
attraverso una strategia di "cambio di regime"
possiamo liberarci dalla minaccia del
terrorismo e allo stesso tempo dare ai popoli
di "tutto il mondo islamico" le libertà
che "desiderano e meritano".
Inoltre, secondo questa nuova concezione,
i terroristi, con pochissime eccezioni,
non sono folli che agiscono per proprio conto,
ma agenti di organizzazioni che dipendono
dall’appoggio di vari governi. Il nostro
scopo, perciò, non può essere semplicemente
quello di catturare o uccidere Osama
bin Laden e di annientare i terroristi di
al Qaida che stanno ai suoi ordini. Bush ha
giurato che sradicheremo e distruggeremo
l’intera rete delle organizzazioni e delle
cellule terroristiche "con ramificazioni globali"
che hanno le proprie basi in almeno
50 o 60 paesi. Non considererò più i membri
di questi gruppi come criminali comuni
che devono essere arrestati dalla polizia, ai
quali devono essere concessi tutti i diritti e
che devono essere sottoposti a regolare
processo. Da ora in poi, devono essere considerati
come cambattenti irregolari di una
alleanza militare in guerra contro gli Stati
Uniti, e anzi contro tutto il mondo civile.
Non che questa analisi del terrorismo
fosse stata esattamente un segreto. Lo stesso
Dipartimento di Stato aveva redatto un
elenco di sette Stati sponsor del terrorismo
– tutti tranne due, Cuba e la Corea del
Nord, sono a maggioranza musulmana – e
pubblicava regolarmente rapporti sugli attentati
terroristici in tutte le regioni del
mondo. Ma a parte il lancio di un paio di
missili cruise, qualche provvedimento diplomatico
e qualche sanzione economica
applicata in modo saltuario e soltanto
proforma, nonché un certo numero di operazioni
segrete, continuava a dominare
l’approccio legalistico.
L’11 settembre ha cambiato molto, se non
proprio tutto. Ma continuavano a essere
usate frasi arcaiche come "consegnare i
terroristi alla giustizia". Ma nessuno poteva
più sognarsi che la risposta americana a
ciò che ci era stato fatto a New York e Washington
avrebbe potuto cominciare con
un’indagine dell’Fbi e terminare con una
serie di normali processi. Era stata dichiarata
guerra contro gli Stati Uniti, e gli Stati
Uniti erano entrati in guerra.
Ma contro chi? Poiché era certo che Osama
bin Laden era l’architetto dell’11 settembre,
e poiché Osama stesso si nascondeva
in Afghanistan insieme alla leadership
di al Qaida, il primo obiettivo, e quindi
il primo banco di prova per questo secondo
pilastro della dottrina Bush si è offerto
da se stesso.
Prima di ricorrere alla forza militare,
tuttavia, Bush ha lanciato un ultimatum ai
radicali estremisti talebani che erano al
potere in Afghanistan. L’ultimatum richiedeva
ai talebani di consegnarci Osama bin
Laden e i suoi seguaci e di chiudere tutti i
loro campi di addestramento. Rifiutando
l’ultimatum, i talebani hanno provocato
non soltanto l’invasione del paese ma anche,
in base alla dottrina Bush, il loro stesso
rovesciamento. Così, il 7 ottobre 2001, gli
Stati Uniti (affiancati dalla Gran Bretagna
e da una dozzina di altri Stati) hanno sferrato
una campagna militare contro al Qaida
e il regime che le forniva "aiuto e protezione".
In confronto a quello che sarebbe avvenuto
in seguito, non ci fu molta opposizione
né in patria né all’estero al momento dell’apertura
del primo fronte di battaglia della
quarta guerra mondiale. Il motivo era
che la campagna in Afghanistan poteva essere
facilmente giustificata come una ritorsione contro i terroristi che ci avevano attaccato.
E, per quanto si discutesse piuttosto
animatamente sul pericolo di seguire
una politica di "cambio di regime", in pratica
c’era ben poca simpatia (al di fuori del
mondo musulmano, ovviamente) per i talebani.
Tutte le critiche contro la guerra in Afghanistan
si condensavano in uno scetticismo
sulle possibilità di vincerla. In verità,
dietro a questo scetticismo si nascondeva
in certi settori una vera e propria opposizione
contro la potenza americana in generale.
Ma una volta avviata la campagna afghana,
l’attenzione principale fu rivolta a
tutto ciò che sembrava andare storto sul
campo di battaglia.
Per esempio, soltanto un paio di settimane
dopo l’inizio della campagna, quando ci
furono alcuni passi falsi nell’uso dei combattenti
afghani dell’Alleanza del Nord, osservatori
come R.W. Apple, del New York
Times, richiamarono immediatamente lo
spettro del Vietnam. Questo fantasma inquietante,
richiamato dalle vaste profondità,
da questo momento in poi rifiutò di
farsi esorcizzare, e si sarebbe insinuato in
tutti i dibattiti sulle prime battaglie della
quarta guerra mondiale. In quest’occasione,
il messaggio era che stavamo cadendo
vittime dell’illusione che potevamo contare
su una forza locale male addestrata per
svolgere i combattimenti sul terreno mentre
noi ci limitavamo a fornire il supporto
logistico e la copertura aerea.
Questa strategia era inevitabilmente destinata
a fallire, e ci avrebbe fatto precipitare
in quello stesso "pantano" in cui eravamo
finiti in Vietnam. Dopo tutto, come
Apple e altri hanno sostenuto, anche l’Unione
Sovietica aveva subito il proprio
"Vietnam" in Afghanistan, ma, a differenza
nostra, non era stata intralciata dai problemi
logistici di proiezione della forza militare
a grande distanza. Come ci si poteva
aspettare di avere maggiore successo?
Tuttavia, quando i B52 scaricarono le
bombe da 15 mila libbre "Daisy Cutter", lo
spettro del Vietnam scomparve, almeno
temporaneamente, e smentì i timori di alcuni
(e le speranze di altri) che stavamo finendo
in un pantano. Ben lungi dal non servire
ad altro che "abbattere le macerie",
come gli avversari di Bush avevano scritto
con sarcasmo, le "Daisy Cutter" hanno avuto,
come persino un articolo del New York
Times ha dovuto ammettere, "un terrificante
effetto psicologico nel momento stesso
in cui esplodevano sul terreno, spazzando
via tutto quello che esisteva nel raggio
di chilometri".
Ma le "Daisy Cutters" erano solo una
parte della storia. Come tutti scoprirono
presto, le nostre "bombe intelligenti" avevano
ormai una tecnologia molto superiore
a quelle usate nel 1991. Nel 2001, in Afghanistan,
queste bombe (guidate da uomini
"spotters" sul terreno, equipaggiati con radio,
computer, laser, che molto spesso si
muovevano a cavallo e aiutati da satelliti e
altri rilevatori aerei) si sono dimostrate incredibilmente
precise, evitando perdite di
civili e causando enorme distruzione nelle
postazioni nemiche. E’ stato questo "nuovo
tipo di potenza americana", si leggeva nello
stesso articolo del New York Times, "a
offrire a una forza male addestrata" (vale a
dire la stessa Alleanza del Nord che, a
quanto pare, ci stava trascinando in un pantano)
la possibilità di sconfiggere le "truppe
esperte" dei talebani in meno di tre mesi,
e con la perdita di pochissimi soldati
americani. Osama non è stato catturato, e al
Qaida non è stata annientata. Ma è stata
fortemente danneggiata dalla campagna afghana.
Quanto al regime talebano, è stato
rovesciato e sostituito da un governo che
non avrebbe più dato aiuto e protezione ai
terroristi. Per di più, per quanto il nuovo
governo afghano possa non essere ancora
una perfetta democrazia, è infinitamente
meno oppressivo della dittatura che lo ha
preceduto. E grazie alla bonifica del terreno
politico (che era stato infestato dal radicale
estremismo islamico dei talebani), è
stato gettato il seme di libere istituzioni è
gli è stata data la possibilità concreta di
crescere e svilupparsi.
La campagna in Afghanistan ha dimostrato
nel modo più evidente le conseguenze
della nuova concezione del terrorismo
che costituisce il secondo pilastro della dottrina
Bush: i paesi che davano rifugio ai terroristi
e che si rifiutavano di cacciarli dal
loro territorio ne affidavano di fatto il compito
agli Stati Uniti, e i regimi che erano al
potere in questi paesi si esponevano al rischio
di essere rovesciati e sostituiti da
nuovi leader sostenitori dei principi democratici.
Naturalmente, a seconda delle circostanze,
altri strumenti di potere, economici
o diplomatici, potevano essere impiegati.
Ma l’Afghanistan aveva dimostrato che
l’opzione militare era reale, e fatalmente
efficce
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT