Per che cosa combattiamo - secona parte la dottrina Bush e la guerra in Afghanistan secondo Norman Podhoretz
Testata: Il Foglio Data: 31 agosto 2004 Pagina: 1 Autore: Norman Podhoretz Titolo: «La quarta guerra mondiale. L'impegno etico e la scelta politica della "dottrina Bush"»
Pubblichiamo la seconda parte del saggio di Norman Podhoretz sulla "quarta guerra mondiale". Podhoretz analizza dapprima la "dottrina Bush", così come è stata delineata dal discorso al Congresso del 20 settembre 2001 e in tre successivi discorsi. Passa poi alla guerra in Afghanistan, alla sua conduzione militare e al suo significato politico. Ecco il pezzo: In "The Sources of Soviet Conduct" (del 1947) la difesa teorica della strategia adottata da Harry Truman per combattere la nuova guerra, George F. Kennan (allora direttore del Policy planning staff del Dipartimento di Stato, e autore del documento con lo pseudonimo "X"), descriveva questa strategia come "un contenimento di lungo termine, paziente ma risoluto e attento alla volontà di espansione russa (…) per mezzo dell’applicazione acuta e vigile della controforza in una serie di aree geografiche e politiche in costante mutamento". In altri termini (sebbene lo stesso Kennan non abbia usato proprio quelle parole), avevamo di fronte la prospettiva di un’altra guerra mondiale; e – benché negli anni successivi, sconfessando il significato evidente delle parole che lui stesso aveva usato, Kennan cercasse di pretendere che la "controforza"che aveva in mente non fosse di tipo militare – non sarebbe stata una guerra completamente "fredda". Prima della sua conclusione, sarebbero morti oltre 100.000 americani sui lontani campi di battaglia della Corea e del Vietnam, e sarebbe stato sparso anche il sangue di molti nostri alleati nella lotta ideologica e politica contro l’Unione Sovietica su quegli stessi campi di battaglia e in molti altri ancora. Per queste ragioni, sono d’accordo con uno dei nostri quattro più autorevoli studiosi di strategia militare, Eliot A. Cohen, il quale ritiene che a quella che si definisce normalmente "guerra fredda" (un’espressione, detto per inciso, coniata dalla propaganda sovietica) dovrebbe essere dato un altro nome. "La guerra fredda", scrive Cohen, fu in realtà "la terza guerra mondiale, cosa che ci fa ricordare che non tutti i conflitti globali implicano il movimento di eserciti di milioni di uomini, o le convenzionali linee del fronte disegnate su una carta". Sono anche d’accordo sul fatto che la natura del conflitto che combattiamo oggi può essere compresa adeguatamente soltanto se lo consideriamo come la quarta guerra mondiale. Per giustificare questo nome (anziché, per esempio, "guerra al terrorismo"), Cohen elenca "alcune caratteristiche fondamentali" che l’accomunano alla terza guerra mondiale: "Il fatto che sia, in effetti, globale; che preveda una combinazione di iniziative militari e non militari; che richieda la mobilitazione di notevoli capacità, esperienze e risorse, se non di un vasto numero di soldati; che possa durare molto tempo; che abbia radici ideologiche". C’è ancora una caratteristica in comune non menzionata da Cohen: sia la terza che la quarta guerra mondiale sono state dichiarate per mezzo di una dottrina presidenziale. La dottrina Truman del 1947 nacque con l’annuncio che "la politica degli Stati Uniti doveva essere a sostegno dei popoli liberi che resistono contro la sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne". Cominciando con un programma speciale di aiuti alla Grecia e alla Turchia, che erano minacciate dalla possibilità di un golpe comunista, la strategia fu presto estesa lanciando un ambizioso programma di aiuti economici noto come Piano Marshall. Lo scopo del Piano Marshall era quello di promuovere e affrettare la ricostruzione dell’economia dell’Europa occidentale, distrutta dalla guerra: non solo perché si trattava di una cosa giusta in sé, né soltanto perché era nell’interesse americano, ma anche perché avrebbe contribuito a eliminare le rimostranze di cui il comunismo si nutriva Poi avvenne però un colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia. Essendo avvenuto subito dopo l’insediamento nei paesi occupati dell’Europa dell’est di regimi fantoccio da parte dell’Unione Sovietica, il colpo di Stato cecoslovacco dimostrò che le misure economiche non sarebbero state sufficienti per allontanare un analogo pericolo per l’Italia e la Francia da parte dei fortissimi partiti comunisti locali completamente asserviti a Mosca. Sulla base di questa consapevolezza (e di analoghe preoccupazioni su una possibile invasione sovietica dell’Europa occidentale) fu creata la North Atlantic Treaty Organization (Nato). Il contenimento si presentava quindi come una strategia triplice: economica, politica e militare. Tutte e tre queste componenti sarebbero state utilizzate in varia misura nel corso dei quattro decenni che ci sono voluti per vincere la terza guerra mondiale. Se la dottrina Truman si è dispiegata in modo graduale, rivelando il suo pieno significato poco a poco, la dottrina Bush è stata enunciata in modo pressoché completo in un solo discorso, pronunciato davanti a una seduta plenaria del Congresso il 20 settembre 2001. E’ stata poi ulteriormente chiarita ed elaborata in tre successive dichiarazioni: il primo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Bush il 29 gennaio 2002; il discorso all’accademia militare di Westpoint del primo giugno 2002 e le osservazioni sul medioriente rilasciate tre settimane dopo, il 24 giugno. A parte questa differenza, lo stupore è stato altrettanto grande che al tempo di Truman, sia per il contenuto della nuova dottrina sia per la trasformazione che rivelava nel suo autore. Perché George W. Bush, che in politica estera era sempre stato un più o meno passivo discepolo di suo padre, si era messo a parlare come un combattivo seguace di Ronald Reagan. In netto contrasto con Reagan, generalmente considerato un pericoloso ideologo, Bush padre (che era stato vicepresidente di Reagan) fu spesso accusato di non avere alcuna "visione ideale". L’accusa era giusta perché Bush padre non aveva in effetti alcun principio guida per il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero potuto svolgere nel rimodellamento del mondo post guerra fredda. Tenace sostenitore del punto di vista "realista" negli affari mondiali, riteneva che il mantenimento della stabilità fosse lo scopo precipuo della politica estera americana, e la sola via saggia e prudente da seguire. Perciò, quando, nel 1991, Saddam Hussein sconvolse l’equilibrio di potenza in medioriente invadendo il Kuwait, Bush entrò in guerra non per creare una nuova configurazione nella regione ma per restaurare lo status quo ante. E fu a causa della stessa dominante preoccupazione per il mantenimento della stabilità che, dopo avere realizzato l’obiettivo di cacciare Saddam dal Kuwait, Bush lo lasciò al potere.
Prima e dopo l’11 settembre
Quanto al secondo presidente Bush, prima dell’11 settembre era, secondo tutte le apparenza, altrettanto privo di una "visione ideale". Se nutriva qualche dubbio sull’opportunità dell’approccio "realista", non lo dava a vedere. Nulla di ciò che diceva o faceva poteva in alcun modo far supporre che fosse insoddisfatto dell’idea secondo la quale il suo principale compito in politica estera era quello di mantenere in equilibrio la situazione. Né c’era alcun segno che potesse essere attratto dalla più "idealistica" ambizione reaganiana di cambiare il mondo, e in particolare con il fine "wilsoniano" di renderlo un luogo "sicuro per la democrazia" incoraggiando in tutti i paesi possibili le libertà di cui godevano gli americani. E’ per questo che il discorso fatto da Bush il 20 settembre 2001 ha lasciato tutti di stucco. Pronunciato soltato nove giorni dopo l’attacco al World Trade Center e al Pentagono, con l’ufficiale dichiarazione che gli Stati Uniti erano ora in guerra, il discorso del 20 settembre diede a questa nazione la consapevolezza che, pur se era stato davvero un rigido e tradizionale realista come suo padre, George W. Bush era ora diventato un politico rinato come un appassionato idealista della democrazia secondo il modello reaganiano. Questo discorso fu anche l’atto di nascita della dottrina Bush, nella quale si delineava il concetto di quarta guerra mondiale con la stessa chiarezza con cui nella dottrina Truman si era delineato quello di terza guerra mondiale. Bush non definì esplicitamente quarta guerra mondiale il nuovo conflitto, ma lo caratterizzò come il diretto successore delle due precedenti guerre mondiali. Così, a proposito della "rete terroristica globale" che ci aveva attaccato sul nostro stesso suolo, disse: "Abbiamo già visto questo tipo di cose. Sono le eredi di tutte le violente ideologie del ventesimo secolo. Sacrificando la vita umana al servizio delle loro idee radicali, rinunciando ad ogni valore tranne che alla volontà di potenza, seguono la strada del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E continueranno a seguire quella strada fino a precipitare nella fossa comune delle menzogne". Se questo passaggio, all’inizio del discorso, collegava la dottrina Bush a quella Truman e alla grande battaglia prima combattuta da Franklin D. Roosevelt, la parte finale dimostrava che, se il presidente George W. Bush non aveva fino ad allora avuto una "visione ideale", ora gli luccicava addirittura negli occhi. "Ci è stato fatto un enorme male", proclamò verso la fine, "abbiamo subito una grande perdita. Ma nel nostro dolore e nella nostra rabbia abbiamo trovato la nostra missione e il nostro scopo". Poi ne definì concretamente il contenuto: "Il progresso della libertà umana, il grande risultato del nostro tempo e la grande speranza di sempre, ora dipende da noi. La nostra nazione libererà il suo popolo e il suo futuro da quest’oscura minaccia di violenza. Con il nostro impegno e il nostro coraggio, chiameremo a raccolta il mondo. Non si stancheremo, non tentenneremo e non falliremo". Alla fine del suo appello, usando in parte le stesse parole che prima aveva riferito alla nazione nel suo complesso, Bush passò a parlare in prima persona, giurando il proprio impegno nella grande missione che tutti eravamo chiamati a compiere: "Non dimenticherò la ferita inferta al nostro paese né tantomeno coloro che ci hanno colpito. Non esiterò, non mi fermerò e non mi tirerò mai indietro in questa battaglia per la libertà e la sicurezza del popolo americano. Lo svolgimento di questo conflitto è ignoto, ma il suo risultato è certo. La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra, e noi sappiamo che Dio non è neutrale in questa lotta". Nemmeno Ronald Reagan, il "Grande Comunicatore", aveva mai espresso con simile eloquenza lo slancio "idealistico" sul quale si fondava la sua concezione del ruolo dell’America nel mondo. E non è stata la sola volta che Bush ha battuto su questo tasto. Due anni e mezzo dopo il discorso del 20 settembre 2001, in un momento in cui la guerra sembrava andare molto male, ha ribadito le stesse idee con cui aveva cercato di rincuorare la nazione subito dopo gli attentati. L’occasione è stata un discorso d’apertura alla Air Force Academy, pronunciato il 2 giugno 2004, nel corso del quale ha ripetutamente posto la "guerra contro il terrorismo" in diretta successione alla seconda e alla terza guerra mondiale. Ha anche rinunciato a qualsiasi cortesia diplomatica nel suo rifiuto del realismo: "Per decenni, le nazioni libere hanno tollerato, in nome della stabilità, l’oppressione in medioriente. In pratica, questo atteggiamento ha portato soltanto a meno stabilità e a più oppressione. Perciò, ho deciso di cambiare politica". E in modo ancora meno diplomatico: "Alcuni di coloro che si definiscono realisti si chiedono se la diffusione della democrazia in medioriente debba essere una nostra preoccupazione. Ebbene, i realisti in questo caso hanno perso contatto con una realtà fondamentale: l’America è sempre stata meno al sicuro quando la libertà è costretta a battere in ritirata, e lo è sempre stata di più quando la libertà marcia trionfalmente in avanti". Per coronare il tutto, Bush ha infine asserito che la sua politica, da lui giustificata in primo luogo come il modo migliore per proteggere gli interessi americani, si inseriva anche nel solco della versione reaganiana dell’idealismo wilsoniano: "Questo conflitto avrà molte svolte, e ci saranno disfatte lungo la strada della vittoria. Ma la nostra fiducia deriva da una convinzione incrollabile: Noi crediamo nelle parole di Ronald Reagan, il quale affermava che "il futuro appartiene agli uomini liberi". Il primo pilastro della dottrina Bush, dunque, poggia sul rifiuto del relativismo morale e su una affermazione aperta e risoluta della necessità e della possibilità di un giudizio morale nell’ambito degli affari internazionali. E per essere certo che ciò che aveva detto il 20 settembre 2001 aveva colpito nel segno, Bush lo ha ribadito con precisione ancora maggiore nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato il 29 gennaio 2002. Bush aveva ottenuto da molti un entusiastico applauso per la "chiarezza morale" del suo discorso del 20 settembre, ma aveva anche provocato un disprezzo e un disgusto ancora più profondi in numerosi pensatori "progressisti", commentatori "raffinati" e diplomatici, tanto in patria quanto all’estero. Nel discorso sullo stato dell’Unione esasperò addirittura il loro sdegno mettendosi a parlare in modo più specifico. Mentre prima aveva parlato soltanto in termini generali del nemico contro il quale dovevamo combattere la quarta guerra mondiale, ora Bush indicò tre nazioni (Iraq, Iran e Corea del Nord), da lui definite come parte di un "asse del male".
Dall’impero all’asse
Ancora una volta Bush seguiva in questo le orme di Ronald Reagan, il quale aveva denunciato l’Unione Sovietica (nostro principale nemico durante la terza guerra mondiale) come un "impero del male" ed era stato accolto da un autentico scoppio di isteria nelle ambasciate, nelle università e nei giornali di tutto il mondo. Male? Quale posto poteva avere una parola come quella nel vocabolario degli affari internazionali, concesso poi che non sarebbe mai venuto in mente a una persona illuminata di riesumarla dal cimitero dei concetti antiquati nemmeno per impiegarla in qualsiasi altro ambito? Ma agli occhi degli "esperti", Reagan non era affatto una persona illuminata. Era invece un "cowboy", un attore di film di serie B, il quale, per qualche meccanismo perverso della democrazia, era riuscito a salire alla Casa Bianca. Per la sua denuncia dell’impero sovietico, Reagan fu accusato sia di volere scatenare una guerra nucleare sia di essere troppo stupido per capire ciò che la sua retorica violentemente provocatoria avrebbe inavvertitamente potuto provocare. La reazione di fronte alle parole di Bush è stata forse meno isterica ma più sprezzante e sdegnata rispetto a quella suscitata da Reagan, dal momento che in questo caso non si è paventata la guerra nucleare. Ma l’atmosfera è stata altrettanto spessa e fitta di scherno e derisione. Chi altri se non un ignorante sempliciotto – o un fanatico fondamentalista religioso – potrebbe ricorrere a antiquati e sorpassati commenti morali assoluti come "bene" e "male"? Da un lato, ci voleva davvero una massiccia dose di semplicioneria per bollare un’intera nazione come il "male"; dall’altro, soltanto uno sciocco come Bush (ancora più di Reagan) poteva convincersi e sostenere con completa e infantile sincerità che solo gli Stati Uniti, tra tutti i paesi del mondo, rappresentino il bene. Senza dubbio soltanto un ignorante zoticone può non essere consapevole degli innumerevoli crimini commessi dall’America, tanto sul suo stesso suolo quanto all’estero; crimini che i più autorevoli intellettuali del paese hanno documentato con la massima precisione richiesta dalla ormai classica visione accademica della storia di questo paese. Ecco come si esprime Gore Vidal, uno di questa schiera di intellettuali: "Insomma, vedere Bush fare la sua piccola danza di guerra nel Congresso contro i "malfattori" e "l’asse del male" (…) Ho pensato: non sa nemmeno che cosa significhi la parola ‘asse’. Qualcuno deve avergliela suggerita. E’ forsa la cosa più insensata che si possa dire. Poi se ne viene fuori con una dozzina di altri paesi che ospitano gente ‘cattiva’, che potrebbe compiere ‘atti terroristici’. Che cos’è un atto terroristico? Tutto ciò che secondo lui è un atto terroristico. E noi daremo la caccia ai terroristi. Perché noi siamo il bene e loro sono il male. E li ‘beccheremo’". Sono parole più dure e violente di quelle lette sulle pagine degli editoriali, ascoltate nei think tank e nei ministeri esteri o espresse dalla maggior parte degli altri intellettuali, ma in realtà niente affatto diverse da ciò che quasi tutti costoro pensano e dicono in privato. Ma si è capito abbastanza presto che Bush non si sarebbe fatto intimidire. In successive dichiarazioni ha continuato a ribadire il primo pilastro della sua dottrina e ad affermare l’universalità del fine morale che anima questa nuova guerra: "Alcuni si preoccupano del fatto che non sia diplomatico o gentile parlare nei termini di ciò che è giusto o sbagliato. Non sono d’accordo. Circostanze differenti richiedono metodi differenti, ma non principi morali differenti. La verità morale è la stessa in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni luogo. Siamo impegnati in una battaglia tra il bene e il male, e l’America chiama il male con il suo nome". Poi, con un affascinante salto nel grande dibattito teoretico dell’era post guerra fredda (sebbene senza identificare i principali partecipanti), Bush si è schierato apertamente dalla parte della molto fraintesa tesi di Francis Fukuyama sulla "fine della storia", secondo la quale la sconfitta del comunismo aveva eliminato il solo vero rivale del nostro sistema politico: "Il ventesimo secolo si è concluso con un solo modello ancora in vita di progresso umano, fondato su esigenze imprescindibili della dignità umana, sul regno della legge, sui limiti del potere dello Stato, sul rispetto delle donne, della proprietà privata, della libertà di parola, della giustizia uguale per tutti e della tolleranza religiosa". Dopo avere condiviso la tesi di Fukuyama, Bush ha respinto la tesi rivale del politologo Samuel Huntington, secondo il quale stiamo assistendo ad uno "scontro di civiltà", nato dal conflitto fra visioni apparentemente incompatibili dominante nelle varie regioni del mondo: "Quando si tratta dei diritti comuni e delle esigenze degli uomini e delle donne, non c’è nessuno scontro di civiltà. I canoni della libertà sono gli stessi in Africa, in America Latina e nel mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche desiderano e meritano le stesse libertà e le stesse opportunità che hanno i popoli di altre nazioni. I loro governi devono soddisfare queste speranze".
Il regime change
Se il primo dei quattro pilastri sui quali poggia la dottrina Bush è rappresentato da un nuovo atteggiamento morale, il secondo è costituito da un altrettanto significativo spostamento di concezione sul terrorismo rispetto alla definizione che si è imposta nel mondo accademico e in quello degli intellettuali. In base a questa nuova concezione (confermata ripetutamente dal fatto che la maggior parte dei terroristi di cui sappiamo qualcosa provengono da famiglie benestanti), il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici. Le "paludi" in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell’oppressione politica. Soltanto prosciugando queste paludi attraverso una strategia di "cambio di regime" possiamo liberarci dalla minaccia del terrorismo e allo stesso tempo dare ai popoli di "tutto il mondo islamico" le libertà che "desiderano e meritano". Inoltre, secondo questa nuova concezione, i terroristi, con pochissime eccezioni, non sono folli che agiscono per proprio conto, ma agenti di organizzazioni che dipendono dall’appoggio di vari governi. Il nostro scopo, perciò, non può essere semplicemente quello di catturare o uccidere Osama bin Laden e di annientare i terroristi di al Qaida che stanno ai suoi ordini. Bush ha giurato che sradicheremo e distruggeremo l’intera rete delle organizzazioni e delle cellule terroristiche "con ramificazioni globali" che hanno le proprie basi in almeno 50 o 60 paesi. Non considererò più i membri di questi gruppi come criminali comuni che devono essere arrestati dalla polizia, ai quali devono essere concessi tutti i diritti e che devono essere sottoposti a regolare processo. Da ora in poi, devono essere considerati come cambattenti irregolari di una alleanza militare in guerra contro gli Stati Uniti, e anzi contro tutto il mondo civile. Non che questa analisi del terrorismo fosse stata esattamente un segreto. Lo stesso Dipartimento di Stato aveva redatto un elenco di sette Stati sponsor del terrorismo – tutti tranne due, Cuba e la Corea del Nord, sono a maggioranza musulmana – e pubblicava regolarmente rapporti sugli attentati terroristici in tutte le regioni del mondo. Ma a parte il lancio di un paio di missili cruise, qualche provvedimento diplomatico e qualche sanzione economica applicata in modo saltuario e soltanto proforma, nonché un certo numero di operazioni segrete, continuava a dominare l’approccio legalistico. L’11 settembre ha cambiato molto, se non proprio tutto. Ma continuavano a essere usate frasi arcaiche come "consegnare i terroristi alla giustizia". Ma nessuno poteva più sognarsi che la risposta americana a ciò che ci era stato fatto a New York e Washington avrebbe potuto cominciare con un’indagine dell’Fbi e terminare con una serie di normali processi. Era stata dichiarata guerra contro gli Stati Uniti, e gli Stati Uniti erano entrati in guerra. Ma contro chi? Poiché era certo che Osama bin Laden era l’architetto dell’11 settembre, e poiché Osama stesso si nascondeva in Afghanistan insieme alla leadership di al Qaida, il primo obiettivo, e quindi il primo banco di prova per questo secondo pilastro della dottrina Bush si è offerto da se stesso. Prima di ricorrere alla forza militare, tuttavia, Bush ha lanciato un ultimatum ai radicali estremisti talebani che erano al potere in Afghanistan. L’ultimatum richiedeva ai talebani di consegnarci Osama bin Laden e i suoi seguaci e di chiudere tutti i loro campi di addestramento. Rifiutando l’ultimatum, i talebani hanno provocato non soltanto l’invasione del paese ma anche, in base alla dottrina Bush, il loro stesso rovesciamento. Così, il 7 ottobre 2001, gli Stati Uniti (affiancati dalla Gran Bretagna e da una dozzina di altri Stati) hanno sferrato una campagna militare contro al Qaida e il regime che le forniva "aiuto e protezione". In confronto a quello che sarebbe avvenuto in seguito, non ci fu molta opposizione né in patria né all’estero al momento dell’apertura del primo fronte di battaglia della quarta guerra mondiale. Il motivo era che la campagna in Afghanistan poteva essere facilmente giustificata come una ritorsione contro i terroristi che ci avevano attaccato. E, per quanto si discutesse piuttosto animatamente sul pericolo di seguire una politica di "cambio di regime", in pratica c’era ben poca simpatia (al di fuori del mondo musulmano, ovviamente) per i talebani. Tutte le critiche contro la guerra in Afghanistan si condensavano in uno scetticismo sulle possibilità di vincerla. In verità, dietro a questo scetticismo si nascondeva in certi settori una vera e propria opposizione contro la potenza americana in generale. Ma una volta avviata la campagna afghana, l’attenzione principale fu rivolta a tutto ciò che sembrava andare storto sul campo di battaglia. Per esempio, soltanto un paio di settimane dopo l’inizio della campagna, quando ci furono alcuni passi falsi nell’uso dei combattenti afghani dell’Alleanza del Nord, osservatori come R.W. Apple, del New York Times, richiamarono immediatamente lo spettro del Vietnam. Questo fantasma inquietante, richiamato dalle vaste profondità, da questo momento in poi rifiutò di farsi esorcizzare, e si sarebbe insinuato in tutti i dibattiti sulle prime battaglie della quarta guerra mondiale. In quest’occasione, il messaggio era che stavamo cadendo vittime dell’illusione che potevamo contare su una forza locale male addestrata per svolgere i combattimenti sul terreno mentre noi ci limitavamo a fornire il supporto logistico e la copertura aerea. Questa strategia era inevitabilmente destinata a fallire, e ci avrebbe fatto precipitare in quello stesso "pantano" in cui eravamo finiti in Vietnam. Dopo tutto, come Apple e altri hanno sostenuto, anche l’Unione Sovietica aveva subito il proprio "Vietnam" in Afghanistan, ma, a differenza nostra, non era stata intralciata dai problemi logistici di proiezione della forza militare a grande distanza. Come ci si poteva aspettare di avere maggiore successo? Tuttavia, quando i B52 scaricarono le bombe da 15 mila libbre "Daisy Cutter", lo spettro del Vietnam scomparve, almeno temporaneamente, e smentì i timori di alcuni (e le speranze di altri) che stavamo finendo in un pantano. Ben lungi dal non servire ad altro che "abbattere le macerie", come gli avversari di Bush avevano scritto con sarcasmo, le "Daisy Cutter" hanno avuto, come persino un articolo del New York Times ha dovuto ammettere, "un terrificante effetto psicologico nel momento stesso in cui esplodevano sul terreno, spazzando via tutto quello che esisteva nel raggio di chilometri". Ma le "Daisy Cutters" erano solo una parte della storia. Come tutti scoprirono presto, le nostre "bombe intelligenti" avevano ormai una tecnologia molto superiore a quelle usate nel 1991. Nel 2001, in Afghanistan, queste bombe (guidate da uomini "spotters" sul terreno, equipaggiati con radio, computer, laser, che molto spesso si muovevano a cavallo e aiutati da satelliti e altri rilevatori aerei) si sono dimostrate incredibilmente precise, evitando perdite di civili e causando enorme distruzione nelle postazioni nemiche. E’ stato questo "nuovo tipo di potenza americana", si leggeva nello stesso articolo del New York Times, "a offrire a una forza male addestrata" (vale a dire la stessa Alleanza del Nord che, a quanto pare, ci stava trascinando in un pantano) la possibilità di sconfiggere le "truppe esperte" dei talebani in meno di tre mesi, e con la perdita di pochissimi soldati americani. Osama non è stato catturato, e al Qaida non è stata annientata. Ma è stata fortemente danneggiata dalla campagna afghana. Quanto al regime talebano, è stato rovesciato e sostituito da un governo che non avrebbe più dato aiuto e protezione ai terroristi. Per di più, per quanto il nuovo governo afghano possa non essere ancora una perfetta democrazia, è infinitamente meno oppressivo della dittatura che lo ha preceduto. E grazie alla bonifica del terreno politico (che era stato infestato dal radicale estremismo islamico dei talebani), è stato gettato il seme di libere istituzioni è gli è stata data la possibilità concreta di crescere e svilupparsi. La campagna in Afghanistan ha dimostrato nel modo più evidente le conseguenze della nuova concezione del terrorismo che costituisce il secondo pilastro della dottrina Bush: i paesi che davano rifugio ai terroristi e che si rifiutavano di cacciarli dal loro territorio ne affidavano di fatto il compito agli Stati Uniti, e i regimi che erano al potere in questi paesi si esponevano al rischio di essere rovesciati e sostituiti da nuovi leader sostenitori dei principi democratici. Naturalmente, a seconda delle circostanze, altri strumenti di potere, economici o diplomatici, potevano essere impiegati. Ma l’Afghanistan aveva dimostrato che l’opzione militare era reale, e fatalmente efficce Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.