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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Foglio Rassegna Stampa
28.08.2004 Per che cosa combattiamo
un saggio di Norman Podhoretz spiega la guerra ai terroristi islamisti

Testata: Il Foglio
Data: 28 agosto 2004
Pagina: 2
Autore: Norman Podhoretz
Titolo: «La quarta guerra mondiale: come è cominciata, che cosa significa e perchè dobbiamo vincerla»
Il Foglio di oggi, 28-08-04, pubblica la prima parte di un saggio di Norman Podhoretz, intellettuale americano tra i fondadori del neo conservatorismo, intitolato: "La quarta guerra mondiale: come è cominciata, che cosa significa e perchè dobbiamo vincerla".
Podhoretz denuncia la sistematica incapacità delle amministrazioni americane, da Nixon a Clinton, di far fronte alla minaccia terroristica.
L'amministrazione Bush, insediata da otto mesi quando avvennero gli attentati dell'11 settembre, non aveva impresso una correzione di rotta a queste politiche inadeguate.
A suo merito però, va la decisione di raccogliere finalmente la sfida, come mai era stato fatto prima.
Ecco il pezzo:

Una nota per il lettore
La scorsa primavera, quando sembrava che in Iraq stesse andando tutto storto, un’epidemia di amnesia ha cominciato a diffondersi per tutto il paese. Intrappolati nelle notizie e nei dettagli con cui venivamo bombardati ventiquattro ore al giorno, sembrava che avessimo perso di vista il contesto sulla base del quale questi dettagli potevano essere valutati e connessi l’uno all’altro. Piccole cose sono diventate enormi, cose importanti sono divenute invisibili e l’isteria si è fatta galoppante. Da allora, naturalmente, e specialmente dopo il trasferimento d’autorità a un governo provvisorio iracheno avvenuto il 30 giugno, la situazione si è fatta più complessa. Ma l’inarrestabile pressione degli eventi, e il continuo attacco sia dei dettagli sia della loro spesso tendenziosa interpretazione, non si è affatto allentata. E’ per questo motivo che, nelle pagine che seguono, ho cercato di tenermi fuori dal battage quotidiano e di ricomporre la storia di ciò che questa nazione ha cercato di realizzare fin dall’11 settembre 2001. Facendo questo, ho usato diversi miei scritti già pubblicati in passato, e in particolare tre articoli apparsi su questa rivista poco più di due anni fa. In alcuni casi, ho inserito alcuni passaggi di questi articoli in un nuovo contesto, altri passaggi sono stati rivisti e aggiornati. Per raccontare in modo appropriato questa storia non bastava un semplice resoconto dei fatti avvenuti dall’11 settembre ad oggi. Da un lato, ho dovuto interrompere più volte la narrazione degli eventi per discutere ed eliminare parecchi fraintendimenti, distorsioni e vere e proprie mistificazioni. Inoltre, ho dovuto ampliare la prospettiva per sottolineare che la grande battaglia in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti dopo l’11 settembre può essere compresa soltanto se la concepiamo come la quarta guerra mondiale. La mia speranza è che raccontare la storia da questa prospettiva e in questo modo servirà a dimostrare che la strada sulla quale ci siamo incamminati dopo l’11 settembre è la sola sicura da seguire. Mentre procediamo su di essa, sorgono inevitabilmente questioni sulla necessità o la giustezza di una determinata scelta; e tali questioni faranno a loro volta sorgere preoccupazioni e persino richieste di un ritiro dal campo di battaglia. Cose analoghe sono avvenute durante la seconda guerra mondiale e ancor più durante la terza guerra mondiale (ossia la guerra fredda); e ora avvengono di nuovo, in particolare in riferimento all’Iraq. Ma, come cercherò di dimostrare, siamo soltanto nella fasi iniziali di quella che promette di essere una guerra molto lunga, e l’Iraq è soltanto il secondo fronte che si è aperto in questa guerra: la seconda scena, per così dire, del primo atto di una commedia in cinque atti. Nella seconda guerra mondiale, e poi anche nella terza, siamo andati avanti nonostante insofferenze, scoraggiamento e opposizioni per tutto il tempo necessario fino al giorno della vittoria, e questo è esattamente ciò che siamo chiamati a fare oggi nella quarta guerra mondiale. Perché oggi, proprio come durante quei titanici conflitti, dobbiamo combattere contro una forza assolutamente malvagia: l’islamismo radicale e gli Stati che appoggiano, proteggono e finanziano il terrorismo. Questo nuovo nemico ci ha già attaccato sul nostro stesso territorio (cosa che né i nazisti né tantomeno la Russia sovietica erano mai riusciti a fare), e minaccia di colpirci di nuovo, ma questa volta con armi infinitamente più potenti di quelle usate l’11 settembre. Il suo obiettivo non è semplicemente quello di uccidere il maggior numero possibile di americani e di conquistare la nostra terra. Come già i nazisti e i comunisti prima di lui, vuole la distruzione di tutto ciò per cui l’America ritiene giusto combattere. E’ proprio questo, quindi, che (per parafrasare George W. Bush e numerosi suoi predecessori, sia repubblicani che democratici) noi, non meno della "grande generazione" degli anni quaranta e della sua erede spirituale degli anni cinquanta, abbiamo il dovere e l’onore di difendere. Un fulmine a ciel sereno L’attentato è avvenuto, metaforicamente ma anche letteralmente, come un fulmine a ciel sereno. Letteralmente, nel senso che gli aeroplani dirottati schiantatisi contro il World Trade Center la mattina dell’11 settembre stavano volando in un cielo di un blu così limpido da sembrare irreale. Quel giorno mi trovavo, come membro della giuria, in un’aula di giustizia a circa settecento metri da quello che è stato poi chiamato Ground Zero. Poche ore dopo lo schianto dei due aeroplani, uscimmo tutti in strada, proprio mentre la seconda torre stava crollando. Questo tremendo spettacolo, come se non fosse già quasi impossibile da credere di per sé, fu reso ancora più incredibile dal colore terso e meraviglioso del cielo. Mi sembrava di essere stato catapultato in uno di quei vecchi film del genere catastrofico girati in technicolor. Ma l’attacco è stato un fulmine a ciel sereno anche in senso metaforico. Circa un anno dopo, nel novembre 20 sarebbe stata nominata una commissione per svolgere un’inchiesta sui motivi per cui un simile attentato ci abbia potuti cogliere di sorpresa e per verificare se fosse stato possibile evitarlo. Poiché sono cominciate soltanto dopo l’inizio della accesissima campagna elettorale americana, le udienze della commissione sono ben presto degenerate in un tentativo da parte dei democratici di dimostrare che l’amministrazione Bush aveva ricevuto sufficienti avvertimenti ma che li aveva semplicemente ignorati. Questo tentativo ha ricevuto un’ulteriore spinta dalla testimonianza di Richard A. Clarke, che era stato il direttore delle operazioni antiterrorismo all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale durante la presidenza di Clinton e poi anche di Bush, fino alle sue dimissioni all’indomani dell’11 settembre. Ciò che in pratica ha fatto Clarke (sia alle udienze sia nel suo libro "Against all Enemies") è stato dare la colpa a Bush, il quale, al momento degli attentati, era salito alla Casa Bianca soltanto da otto mesi, ed escludere da ogni accusa Clinton, che aveva passato otto lunghi anni senza fare nulla di significativo per rispondere alla serie di attacchi terroristici contro obiettivi americani in varie parti del mondo. Il punto che voglio sottolineare non è che Clarke abbia esagerato o addirittura mentito. Il fatto è che l’attentato dell’11 settembre è stato effettivamente improvviso nel senso che nessuno aveva mai preso veramente sul serio una simile possibilità. Persino Clarke ha dovuto ammettere che se anche tutte le sue raccomandazioni fossero state rispettate l’attentato non sarebbe stato in ogni caso prevedibile. E nel suo rapporto finale, reso noto il 22 luglio di quest’anno, la commissione, pur evidenziando non meno di dieci episodi che si possono considerare come mancate "opportunità operative", ha concluso che queste opportunità non sarebbero comunque servite a impedire l’attacco. O almeno non nell’America di quei giorni: un’America in cui erano state messe le catene alla Cia e all’Fbi; in cui era stato eretto un "muro di separazione" per impedire la comunicazione e la collaborazione tra le forze di polizia e gli agenti della sicurezza nazionale; in cui, infine, i politici e tutta l’opinione pubblica erano ancora incapaci e non disposti a credere che il terrorismo potesse rappresentare un’autentica minaccia. Contraddicendo in parte sé stessa, la commissione ha detto che "gli attentati dell’11 settembre sono stati uno shock, ma non avrebbero dovuto essere considerati come una sorpresa". Forse è proprio così; ma non c’è una sola persona, all’interno del governo o al di fuori, che non li abbia considerati una sorpresa. La commissione ha parlato anche di un "fallimento della capacità d’immaginazione". Ancora una volta, può essere che sia così; ma la parola "fallimento" può essere inappropriata in quanto implica che un successo fosse possibile. Un fallimento così completo deve essere considerato inevitabile. Per il New York Times, tuttavia, il fallimento non era affatto inevitabile. In un editoriale di prima pagina camuffato da "resoconto", questo giornale ha scritto che il rapporto finale della commissione indicava che "un attacco descritto come inimmaginabile era stato in realtà immaginato, varie volte". Ma nessuna delle testimonianze citate dal Times per la sua categorica affermazione prediceva in realtà che al Qaida avrebbe dirottato aerei di linea per farli schiantare sugli edifici di New York e Washington. Per di più, tutte queste testimonianze appartenevano agli anni Novanta. Ciononostante, il "resoconto" del Times cercava di convincere i suoi lettori che, nell’autunno del 2000, l’Amministrazione Bush (in quel momento non ancora in carica) aveva ricevuto sicuri avvertimenti di un attacco imminente. Per rafforzare quest’impressione, il Times ha citato un briefing fatto a Bush un mese prima dell’11 settembre. Ma il documento in questione era piuttosto vago e, in ogni caso, era soltanto uno dei tanti briefing fatti dall’intelligence, senza alcuna speciale pretesa di credibilità rispetto ad altre informazioni che lo contraddicevano. Così l’Amministrazione Bush, che era appena stata severamente criticata nelle udienze tenute dal Senate intelligence committee per avere invaso l’Iraq sulla base di sbagliate informazioni di intelligence, veniva ora ulteriormente criticata per non avere agito sulla base di informazioni ancora più vaghe al fine di prevenire gli attentati dell’11 settembre. Questa contraddizione ha suscitato un sarcastico commento di Charles Hill, ex funzionario di governo che era stato un abituale "consumatore"di informazioni d’intelligence: "La raccolta e l’analisi dell’intelligence è un’attività molto imprecisa. Il rifiuto di ammettere questo fatto ha prodotto la davvero ridicola contraddizione del Senate intelligence committee che critica l’Amministrazione Bush per avere agito sulla base di informazioni scadenti, nello stesso momento in cui la commissione di indagine sull’11 settembre la critica per non avere agito sulla base di informazioni dello stesso tipo". Comunque, il punto che mi preme sottolineare è che nelle recriminazioni su tale questione c’era qualcosa di immorale, per non dire di sacrilego, che ha insudiciato le udienze pubbliche della commissione e alcuni dei rapporti preliminari dello staff. E’ stata perciò allo stesso tempo uno shock e una sorpresa che questo stesso spirito sacrilego sia stato quasi interamente esorcizzato dal rapporto finale. Alla fine la commissione ha concluso che nessun presidente americano poteva essere ritenuto responsabile per l’aggressione subita dagli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Punto e a capo. Infatti, la semplice verità è che la responsabilità tocca esclusivamente ad al Qaida, insieme ai regimi che le hanno dato appoggi e protezione. Inoltre, se è vero che la passività e l’inazione dell’America ha aperto le porte all’11 settembre, è anche vero che né i democratici né i repubblicani (né tantomeno i liberal o i conservatori) possono trarne qualche vantaggio ideologico. La ragione, molto semplicemente, è che le amministrazioni di entrambi i partiti hanno sempre usato praticamente gli stessi metodi per affrontare il terrorismo, a cominciare da Richard Nixon nel 1970, passando attraverso Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan (sì, pure lui), George H. W. Bush, Bill Clinton, fino a George Bush.

Una "tigre di carta"
La storia ci offre un quadro sconsolante. Dal 1970 al 1975, durante le amministrazioni di Nixon e Ford, parecchi diplomatici americani sono stati uccisi in Sudan e in Libano e molti altri rapiti. I colpevoli erano agenti di una delle tante fazioni dell’Olp. Anche in Israele molti cittadini americani sono stati assassinati dall’Olp, sebbene, fatta eccezione per i missili sparati dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina contro la nostra ambasciata e altri edifici americani a Beirut, questi attacchi non fossero direttamente rivolti contro gli Stati Uniti. In ogni caso, non c’è stata alcuna forma di ritorsione militare da parte degli americani. I nostri diplomatici venivano dunque già da alcuni anni impunemente uccisi dai terroristi musulmani quando, nel 1979, con Carter alla Casa Bianca, alcuni studenti iraniani (con l’avallo dell’ayatollah Khomeini) entrarono nell’ambasciata americana di Teheran e presero 52 ostaggi americani. Per cinque mesi, rimase a tentennare. Alla fine, facendosi coraggio, ha autorizzato un’operazione militare di salvataggio finita nel nulla dopo una serie di clamorosi sbagli che sarebbero stati degni di figurare in un film dei fratelli Marx, se non fosse che erano più umilianti che comici. Dopo 444 giorni, e poche ore dopo l’insediamento di Reagan alla Casa Bianca nel gennaio 1981, gli ostaggi furono finalmente rilasciati dagli iraniani, evidentemente perché temevano che il nuovo e bellicoso presidente potesse effettivamente lanciare un vero colpo militare contro di loro. Tuttavia, se avessero potuto prevedere come sarebbe andata durante la presidenza Reagan, non sarebbero stati così timorosi. Nell’aprile 1983, Hezbollah (un’organizzazione terrorista islamica appoggiata dall’Iran e dalla Siria) mandò un attentatore suicida a fare esplodere il suo camion di fronte all’ambasciata americana di Beirut. Rimasero uccisi 63 impiegati, tra i quali il direttore della Cia per il Medio Oriente, e altri 120 furono feriti. Ma Reagan non fece nulla. Sei mesi dopo, nell’ottobre 1983, un altro attentatore suicida appartenente a Hezbollah fece saltare in aria una caserma americana nell’aereoporto di Beirut uccidendo nel sonno 241 marine e ferendone altri 81. Questa volta Reagan approvò un piano di ritorsione, ma diede poi il permesso al suo segretario della difesa Caspar Weinberger di cancellarlo (perché avrebbe potuto danneggiare le nostre relazioni con il mondo arabo, verso il quale Weinberger era sempre stato teneramente sollecito). Poco tempo dopo, il presidente ritirò i soldati dal Libano. Dopo essere fuggito dal Libano in ottobre, Reagan non fece nulla nemmeno in dicembre, quando fu bombardata l’ambasciata americana in Kuwait. E non fece nulla neppure quando, poco dopo il ritiro degli americani da Beirut, il capo della sezione locale della Cia, William Buckley, fu rapito e poi ucciso da Hezbollah. Buckley era il quarto americano ad essere rapito a Beirut; tra il 1982 e il 1992 molti altri subirono la stessa sorte (anche se non tutti furono uccisi). A quanto pare, furono proprio questi rapimenti a convincere Reagan (il quale aveva giurato che non avrebbe mai negoziato con i terroristi) a fare un patto segreto con l’Iran che prevedeva la fornitura di armi in cambio di ostaggi. Ma mentre gli iraniani furono pagati profumatamente con quasi 1500 missili anticarro, tutto quello che gli americani ottennero furono tre ostaggi americani (senza parlare del grave scandalo Iran-contra). Nel settembre 1984, sei mesi dopo l’assassinio di Buckley, un annesso dell’ambasciata americana a Beirut fu colpito da un’altra bomba (la responsabilità fu nuovamente ricondotta a Hezbollah). Reagan ancora una volta non fece nulla. O piuttosto, dopo avere dato luce verde a operazioni segrete di ritorsione delegate ad agenti dei servizi segreti libanesi, vi rinunciò non appena una di queste operazioni (diretta contro il religioso che si pensava essere il capo di Hezbollah) fallì, uccidendo per sbaglio 80 persone. Ci vollero solo altri due mesi prima di un nuovo attacco di Hezbollah. Nel dicembre 1984, fu dirottato un aereo di linea kuwaitiano, e due passeggeri americani (funzionari della U.S. Agency for international development) furono uccisi. Gli iraniani, che avevano fatto irruzione sull’aereo dopo il suo atterraggio a Teheran, promisero di processare i dirottatori, ma invece gli permisero di lasciare indisturbati il paese. A questo punto, tutto quello che seppe fare l’Amministrazione Reagan fu offrire una ricompensa di 250.000 dollari a chi fornisse informazioni utili all’individuazione e all’arresto dei dirottatori. Ma non si fece avanti nessuno. Il giugno seguente, i combattenti di Hezbollah dirottarono un altro aereo di linea, questa volta di bandiera americana (Twa volo 847) e lo fecero atterrare a Beirut, dove fu costretto a rimanere per più di due settimane. Durante questi giorni, un ufficiale di marina americano che si trovava a bordo dell’aereo fu ucciso, e il suo corpo fu brutalmente gettato sulla pista. Grazie a questo loro exploit, i dirottatori furono premiati con il rilascio di centinaia di terroristi detenuti in Israele in cambio della liberazione dei passeggeri. Sia gli Stati Uniti che Israele negarono di avere violato la propria politica di non negoziazione con i terroristi, ma, come nel caso dell’affare "armi in cambio di ostaggi", e per le stesse buone ragioni, nessuno gli credette, e si ritenne scontato che Israele avesse agito su pressione da Washington. Successivamente, quattro dirottatori furono catturati, ma soltanto uno fu processato e condannato (peraltro dalla Germania, non dagli Stati Uniti). Lo stillicidio proseguì. Nell’ottobre 1985, un gruppo guidato dal membro dell’Olp Abu Abbas (con l’appoggio della Libia) prese in ostaggio l’Achille Lauro, un nave da crociera italiana. Un terrorista gettò giù dalla nave un vecchio passeggero americano, Leon Klinghoffer. Quando i terroristi cercarono di fuggire con un aereo, gli Stati Uniti inviarono alcuni caccia per intercettarlo e lo costrinsero ad atterrare. L’assassino di Klinghoffer fu poi catturato e condannato in Italia, ma le autorità italiane lasciarono libero Abu Abbas. Washington (che evidentemente aveva esaurito il suo repertorio di ritorsioni militari) si limitò a protestare per il rilascio di Abu Abbas. Senza ottenere nulla. Il coinvolgimento della Libia nel sequestro dell’Achille Lauro fu, comunque, l’ultima concessione dell’Amministrazione Reagan al dittatore di quel paese, Muammar Gheddafi. Nel dicembre 1985, in due attentati negli aeroporti di Roma e Vienna rimasero uccise venti persone (tra cui cinque americani); poi, nell’aprile 1986, venne fatta esplodere una bomba in una discoteca di Berlino ovest regolarmente frequentata da soldati americani. I servizi segreti americani attribuirono tutti questi attentati alla Libia: la conseguenza finale fu un attacco aereo americano, nel corso del quale fu colpita una delle residenze di Gheddafi. Per ritorsione, il terrorista palestinese Abu Nidal uccise tre cittadini americani che lavoravano presso l’università americana di Beirut. Ma Gheddafi – rimasto senza dubbio sorpreso e scosso dalla ritorsione americana – si eclissò temporaneamente come sponsor del terrorismo. Per quanto ne sappiamo, ci vollero tre anni (fino al dicembre 1988) prima che si decidesse ad organizzare una nuova operazione: l’attentato contro il volo 103 della Pan Am, caduto sopra Lockerbie, in Scozia, nel quale persero la vita 270 persone. Dei due agenti segreti libici processati, soltanto uno è stato condannato (soltanto nel 2001), mentre l’altro è stato rilasciato. Lo stesso Gheddafi non ha dovuto subire altre punizioni dai caccia americani. Nel gennaio 1989 divenne presidente George H. W. Bush, il quale, in riferimento all’attentato contro il volo 103 della Pan Am, si accontentò di seguire l’approccio al terrorismo già adottato da tutti i suoi predecessori. Durante la sua presidenza, ci sono stati parecchi attentati delle organizzazioni terroristiche islamiche contro gli americani in Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Libano. Nessuno di questi è stato sanguinoso quanto i precedenti, e nessuno ha provocato alcuna risposta militare da parte degli Stati Uniti. Nel gennaio 1993 è salito alla Casa Bianca Bill Clinton. Anche durante i suoi otto anni di presidenza, cittadini americani sono stati feriti o uccisi in Israele e in altri paesi da terroristi che non si rivolgevano direttamente contro gli Stati Uniti. Ma numerosi e spettacolari operazioni terroristiche dirette esplicitamente contro gli Stati Uniti sono avvenute sotto gli occhi di Clinton. Il prima, il 26 febbraio 1993, soltanto 38 giorni dopo il suo insediamento, è stata l’esplosione di una bomba nel garage del World Trade Center a New York. In confronto a quello che è poi avvenuto l’11 settembre 2001, questo lo si può definire un incidente minore, in cui sono rimaste uccise "soltanto" sei persone e oltre mille ferite. I sei terroristi musulmani colpevoli dell’attentato sono stati arrestati, processati e condannati con severe sentenze. Ma nel seguire l’ormai tradizionale modello di considerare simili attentati come crimini comuni, o come l’opera di gruppi canaglia che agivano in proprio, l’Amministrazione Clinton ha consapevolmente ignorato esperti esterni come Steven Emerson e persino il direttore della Cia, R. James Woolsey, il quale aveva grossi sospetti che dietro i singoli colpevoli ci fosse una rete terroristica islamica con il proprio quartier generale in Sudan. Questa rete, allora niente affatto nota al pubblico, si chiamava al Qaida, e il suo leader era un saudita che in Afghanistan aveva combattuto al nostro fianco contro i sovietici, ma che poi si era rivoltato contro di noi. Il suo nome era Osama bin Laden. L’episodio successivo si verificò non molto dopo l’attentato al World Trade Center. Nell’aprile 1993, vale a dire meno di due mesi dopo, gli agenti segreti iracheni (come i nostri investigatori hanno dimostrato) cercarono di assassinare l’ex presidente George H. W. Bush, in visita in Kuwait. L’Amministrazione Clinton impiegò altri due mesi per ottener l’approvazione dell’Onu e della "comunità internazionale" a una ritorsione contro questo proditorio assalto nei confronti degli Stati Uniti. Alla fine, un paio di missili cruise furono lanciati su Baghdad, dove caddero nel mezzo della notte senza provocare vittime su edifici vuoti. Negli anni immediatamente successivi, i terroristi islamici hanno compiuto numerosi attentati (in Turchia, Pakistan, Arabia Saudita, Libano, Yemen e Israele) non direttamente rivolti contro gli Stati Uniti ma nei quali cittadini americani sono comunque stati uccisi o rapiti. Nel marzo 1995 un camion del consolato statunitense di Karachi, in Pakistan, è rimasto intrappolato in un’imboscata nella quale sono morti due diplomatici americani e un terzo è rimasto ferito. Nel novembre dello stesso anno, sono morti cinque americani per l’esplosione di un’autobomba a Riyadh, in Arabia Saudita, nei pressi di un edificio in cui viveva un gruppo di consiglieri statunitensi. Tutto questo è stato di gran lunga sorpassato nel giugno 1996 quando un’autobomba ha fatto saltare in aria un altro edificio in cui vivevano militari americani, le Khobar Towers a Dhahran, in Arabia Saudita. Sono stati uccisi 19 nostri soldati e altri 240 americani sono rimasti feriti. Nel 1993, Clinton era stato così deciso nel considerare l’attentato al World Trade Center come un crimine comune che per un periodo relativamente lungo si rifiutò persino di incontrare il direttore della Cia da lui stesso nominato. Forse sapeva già che, sul terrorismo e sugli Stati che lo appoggiavano, Woolsey gli avrebbe detto cose che Clinton non avrebbe voluto sentire, perché non aveva alcuna intenzione di imbarcarsi in qualche azione militare che queste notizie avrebbero potuto rendere necessaria. E anche questa volta Clinton affidò l’inchiesta alla polizia; ma la persona incaricata, ossia il direttore dell’Fbi Louis Freeh (che nutriva sospetti su un legame con l’Iran) non aveva su Clinton maggiore influenza di quella che aveva avuto in precedenza Woolsey. Ci furono alcuni arresti, e tutto finì nelle corti di giustizia. Nel giugno 1998 sono state lanciate alcune granate, fortunatamente senza danni, contro l’ambasciata americana a Beirut. Poco tempo dopo, le nostre ambasciate nelle capitali del Kenia (Nairobi) e della Tanzania (Dar es-Salaam) non furono altrettanto fortunate. In un solo giorno (il 7 agosto 1998) contro queste due ambasciate vennero lanciate delle autobombe che hanno provocato oltre 200 morti, dodici dei quali americani. Entrambi gli attentati furono rivendicati da al Qaida. Con quella che, a ragione o a torto, fu ampiamente interpretata, soprattutto all’estero, come una mossa per distrarre l’attenzione dai suoi problemi legali per lo scandalo Lewinsky, Clinton fece lanciare alcuni missili cruise contro un campo d’addestramento di al Qaida in Afghanistan e contro un edificio in Sudan che ospitava una base di al Qaida. Ma bin Laden riuscì a scamparla; per di più non si riuscì ad accertare se l’edificio bombardato in Sudan fosse davvero un laboratorio per la preparazione di armi chimiche o semplicemente una fabbrica di prodotti farmaceutici. Questo fiasco (come abbiamo saputo da ex membri della sua amministrazione) tolse a Clinton ogni intenzione di intraprendere altre azioni contro bin Laden, per quanto diverse fonti abbiano rivelato che Clinton autorizzò alcune operazioni segrete di antiterrorismo e parecchie iniziative diplomatiche che hanno portato a un certo numero di arresti in paesi stranieri. Ma, a detta di Dick Morris, il consigliere politico di Clinton in quel periodo: "I settimanali incontri strategici svoltisi alla Casa Bianca per tutto il 1995 e il 1996 furono caratterizzati da un numero sempre maggiore di pressanti consigli al presidente Clinton affinché prendesse iniziative concrete per combattere il terrorismo. I sondaggi davano ragione a questi consigli. Ma Clinton continuò a esitare e rinunciò ad agire, trovando sempre un pretesto per considerare più importanti altre questioni. Dopo l’uscita di scena di Morris, molte altre cose cominciarono a fermentare dietro le quinte, ma la maggior parte continuò a restare nell’ambito delle parole o di progetti che non portavano a nulla di concreto. In netto contrasto con la lusinghiera immagine che Richard Clarke avrebbe poi dato di Clinton, Woolsey (che, dopo un breve periodo come direttore della Cia, rassegnò le proprie dimissioni in completa frustrazione) ha offerto un devastante resoconto retrospettivo dell’approccio di Clinton:"Fai qualcosa per dimostrare che non te ne infischi. Lancia un paio di missili nel deserto, fagli prendere un po’ di strizza, e arrestane qualcuno. E poi rinvia
la palla". La palla la raccolse bin Laden il 12 ottobre 2000, quando mandò una squadra di attentatori suicidi contro la USS Cole, ancorata per rifornimento in Yemen. I terroristi non riuscirono ad affondare la nave, ma la danneggiarono gravemente, uccidendo 17 marinai americani e ferendone altri 39. Clarke, e qualche altro analista dei servizi segreti, non ebbe dubbi che il colpevole fosse al Qaida. Ma né il capo della Cia né quello dell’Fbi ritennero che le prove fossero decisive. Di conseguenza gli Stati Uniti non alzarono nemmeno un dito contro bin Laden o il regime talebano in Afghanistan, dove in quel momento bin Laden si nascondeva. Quanto a Clinton, era talmente preso dal suo futile tentativo di ottenere un accordo tra gli israeliani e i palestinesi che tutto quello che riuscì a vedere in questo attacco contro una nave da guerra americana fu un tentativo "di dissuaderci dalla nostra missione per la promozione della pace e della sicurezza in medioriente". I terroristi, proclamò con enfasi, avrebbero "completamente fallito" in questo tentativo. Non sembrava avere alcuna importanza il fatto che non vi fosse la minima indicazione che bin Laden fosse interessato ai negoziati di Camp David tra israeliani e palestinesi o che la stessa questione palestinese fosse per lui più importante di altre. In ogni caso, fu Clinton a fallire e non bin Laden. I palestinesi, sotto la guida di Yasser Arafat, dopo avere gettato al vento un’offerta straordinariamente generosa fatta dal primo ministro israeliano, Ehud Barak, e entusiasticamente sottoscritta da Clinton, scatenarono una nuova ondata di terrorismo. E bin Laden avrebbe presto ottenuto un successo clamoroso nel suo progetto di colpire ancora gli Stati Uniti. La semplice audacia dell’azione compiuta da bin Laden l’11 settembre 2001 è stata senza dubbio il frutto del suo disprezzo per la potenza americana. Il nostro continuo rifiuto di usare questa potenza contro di lui e i suoi terroristi (o di usarla con efficacia tutte le volte che ci avevamo provato) rafforzò la sua convinzione che gli Stati Uniti fossero una nazione sulla via del declino, destinata ad essere sconfitta dal risorgere di quella militanza islamica che un tempo aveva conquistate convertito con la forza della propria spada una larga fetta del mondo. Secondo la visione di bin Laden, migliaia e addirittura milioni di suoi seguaci e simpatizzanti in tutto il mondo musulmano erano pronti a morire come martiri nel jihad, la guerra santa, contro il "Grande Satana", come ci aveva definiti l’ayatollah Khomeini. Inoltre, noi occidentali, soprattutto in America, avevamo talmente paura di morire che ci mancava persino la
volontà di combattere per difendere il nostro degenerato stile di vita. Bin Laden non ha mai fatto misteri di questo suo giudizio sugli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata alla Cnn nel 1997, ha dichiarato: "Il mito della superpotenza è stato distrutto, non solo nella mia mente ma anche in quella di tutti i musulmani, quando l’Unione Sovietica fu sconfitta in Afghanistan". Il fatto che i guerriglieri musulmani in Afghanistan non avrebbero quasi certamente vinto se non fossero stati riforniti di armi dagli Stati Uniti non sembra fare parte della lezione che bin Laden ha tratto dalla sconfitta dell’Urrs. Così, in un’intervista rilasciata un anno prima, aveva sminuito gli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica: "Il soldato russo è più coraggioso e tenace del soldato americano"; di conseguenza, "la nostra battaglia contro gli Stati Uniti appare più facile di quella che abbiamo dovuto combattere
in Afghanistan". Facendosi ancora più esplicito, bin Laden bollò gli americani come codardi. Reagan non se l’era forse data a gambe dal Libano dopo l’attentato conto la caserma dei marine nel 1983? E Clinton non aveva forse fatto la stessa cosa dieci anni dopo, non appena alcuni ranger americani erano rimasti uccisi in Somalia, dove erano stati mandati per partecipare ad un’operazione di "peacekeeping"? Bin Laden non si attribuì la responsabilità di questi assassinii, ma, secondo un rapporto del Dipartimento di Stato, al Qaida aveva addestrato i terroristi che avevano teso l’imboscata
agli americani (la storia di quanto avvenuto in Somalia fu raccontata dal film di Mark Bowden, "Black Hawk Down", che, a quanto si dice, divenne uno dei film preferiti di Saddam Hussein). In una terza intervista rilasciata nel 1998, bin Laden ha offerto una spiegazione riassuntiva: "Dopo avere lasciato l’Afghanistan, i combattenti musulmani si recarono in Somalia e si prepararono ad una lunga battaglia, pensando che gli americani fossero come i russi. Rimasero sorpresi dal morale basso dei soldati americani e si resero finalmente conto che il soldato americano era una tigre di carta e che dopo un paio di colpi fuggiva in ritirata".

Calcoli errati
Bin Laden non è stato il primo nemico di un regime democratico ad essere incoraggiato da simili impressioni. Negli anni trenta, Adolf Hitler fu convinto dell’incapacità degli inglesi di riarmarsi per difendersi dalla nuova minaccia, così come dalla loro politica di appeasement nei suoi confronti, che l’Inghilterra fosse sulla via del declino e non sarebbe mai scesa in guerra, nemmeno se avesse continuato ad invadere un paese dopo l’altro. Lo stesso vale per Joseph Stalin all’indomani della seconda guerra mondiale. Incoraggiato dalla rapida smobilitazione degli Stati Uniti (cosa che ai suoi occhi significava che non eravamo preparati e disposti ad opporci alle sue iniziative con la forza militare), Stalin violò la promessa che aveva fatto a Yalta quando aveva accettato di organizzare libere elezioni nei paesi dell’Europa orientale occupati dalla Russia alla fine della guerra. Al contrario, consolidò il suo dominio su questi paesi, e si rivolse minacciosamente verso la Grecia e la Turchia. Dopo la morte di Stalin, i suoi successori ripeterono lo stesso gioco tutte le volte che percepivano un indebolimento della determinazione americana. In certi casi si trattò di manovre intese a stabilire un equilibrio di potenza militare favorevole all’Urss. In altri, si trattò di utilizzare come strumento i partiti comunisti locali o altri canali. Ma grazie al declino della potenza americana dopo il ritiro dal Vietnam (un declino riflesso dal diffondersi, alla fine degli anni Settanta, di tendenze isolazioniste e pacifiste, ed espresso in termini concreti da una riduzione delle spese militari), Leonid Breznev non ebbe alcun timore nell’inviare le sue truppe in Afghanistan nel 1979. Fu lo stesso declino della potenza americana, così stranamente incarnato da Jimmy Carter, che, meno di due mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, aveva incoraggiato l’ayatollah Khomeini a prendere in ostaggio cittadini americani. Senza dubbio, molti negarono che l’audace azione di Khomeini avesse alcunché a che fare con la sua convinzione che, con Carter, gli Stati Uniti fossero diventati impotenti. Ma questa tesi non poteva essere sostenuta di fronte al contrasto tra il comportamento mantenuto dal regime khomeinista in occasione dell’attacco alla nostra ambasciata di Teheran e l’aiuto invece offerto ai sovietici quando un gruppo di manifestanti iraniani cercò di fare irruzione nell’ambasciata sovietica subito dopo l’invasione dell’Afghanistan. I fondamentalisti islamici al potere in Iran odiavano il comunismo e l’Unione Sovietica con la stessa forza con cui odiavano gli Stati Uniti, in particolare dopo l’invasione di un paese musulmano. Di conseguenza, il diverso atteggiamento mantenuto da Khomeini non può essere spiegato da fattori ideologici o politici. La spiegazione sta nella paura delle ritorsioni sovietiche; quanto agli Stati Uniti, ci si aspettava invece che, avendo perso la loro determinazione, avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di evitare l’uso della forza. Lo stesso vale per Saddam Hussein. Nel 1990, durante la presidenza di George Bush padre, Saddam Hussein invase il Kuwait in quello che fu ampiamente, e giustamente, considerato il primo passo di un piano per assumere il controllo dei pozzi petroliferi medio-orientali. Il presidente americano, incoraggiato da Margaret Thatcher, allora primo ministro dell’Inghilterra, dichiarò che l’invasione non sarebbe stata tollerata e mise insieme una coalizione che inviò una forza imponente nella regione. Già questo soltanto avrebbe potuto impaurire Saddam e convincerlo a ritirarsi dal Kuwait, se non fosse stato per l’ondata di isteria che si abbattè sugli Stati Uniti, dove si prediceva che, se fossimo entrati in guerra contro l’Iraq, sarebbero tornate in patria decine di migliaia di "sacchi neri" con i corpi dei soldati americani. Non senza ragione, Saddam concluse che, se avesse tenuto duro, gli americani avrebbero ceduto. Il fatto che Saddam avesse fatto male i suoi calcoli e che l’America fosse passata dalle minacce ai fatti non impressionò particolarmente Osama bin Laden. Dopo tutto, temendo le numerose perdite che avremmo subito se, dopo la liberazion del Kuwait, ci fossimo diretti su Baghdad, avevamo permesso a Saddam di restare al potere. Per bin Laden, questa non era altro che un’ulteriore prova della debolezza che avevamo già dimostrato con l’inefficace politica sul terrorismo seguita da una lunga serie di presidenti americani. Non stupisce che fosse convinto di poter colpirci sul nostro territorio, e scamparla. Tuttavia, proprio come Saddam aveva fatto male i suoi calcoli nel 1990 (e come avrebbe di nuovo fatto nel 2002), bin Laden non capì affatto come avrebbero reagito gli americani se fossero stati colpiti sul loro stesso territorio. Con ogni probabilità, si aspettava un crollo nella disperazione e nella demoralizzazione; invece, ciò che ha ottenuto è stato uno scoppio di rabbia e una rinascita di sentimento patriottico come gli americani più giovani li avevano visti soltanto al cinema e di cui non avevano mai avuto esperienza personale. In questo senso, bin Laden ha fatto per questo paese esattamente ciò che Khomeini aveva fatto prima di lui. Prendendo in ostaggio cittadini americani, e scampandola senza subire alcune ritorsioni Khomeini aveva inflitto una grande umiliazione agli Stati Uniti. Ma, allo stesso tempo, aveva rivelato quanto fosse stupida la visione del mondo che aveva Jimmy Carter. La stupidità non stava nel fatto che Carter si era reso conto che, perlomeno da dopo il Vietnam in poi, la potenza militare, economica, politica e morale dell’America aveva continuato a decadere. Stava invece nelle conclusione che Carter ne trasse. Anziché proporre politiche intese a fermare il declino, sostenne che la causa risiedesse nel gioco di forze storiche che non potevano in alcun modo essere né fermate né rallentate. A suo giudizio, invece di lamentarci e agitarci in un vano tentativo di riprendere il nostro posto al sole, dovevamo per prima cosa riconoscere, accettare e subire questo inesorabile sviluppo storico, e poi reagire "con misurato equilibrio". In un sol colpo, l’ayatollah Khomeini mandò all’aria l’illusoria filosofia di Carter,
facendola apparire assurda agli occhi di moltissimi americani, compresi quelli che prima l’avevano condivisa. Parallelamente, nuovo coraggio fu infuso in coloro che, rifiutando l’idea che il declino americano fosse inevitabile, avevano sostenuto che la ragione stesse nelle politiche sbagliate e che la tendenza potesse essere invertita ritornando a quelle politiche più efficaci grazie alla quali eravamo diventati una superpotenza. Tutta la vicenda divenne quindi una delle forze che spingevano una già risoluta determinazione a ricostruire la potenza americana, e il risultato finale fu l’elezione di Ronald Reagan, che aveva impostato la sua campagna elettorale proprio su questo tema. E malgrado tutti i difetti del suo modo di affrontare il terrorismo, Reagan mantenne la sua promessa e ricostruì la potenza americana. E’ stato proprio questo a determinare la vittoria in quella guerra fredda che si combatteva fin dal 1947, quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di resistere contro ogni ulteriore avanzata dell’impero sovietico. Ben pochi contemporanei di Truman si sarebbero mai sognati che questo prodotto della macchina politica di Kansas City, il quale aveva passato la sua vita occupandosi di tasse e di ferrovie, si sarebbe opposto con tale decisione e successo contro la minaccia dell’imperialismo sovietico. Nello stesso modo, cinquantaquattro anni dopo di lui, un altro politico con una reputazione piuttosto bassa e fino ad allora mai interessato alla politica estera si sarebbe trovato di fronte ad una sfida probabilmente molto più difficile di quella che dovette affrontare Truman; e anche lui ha stupito i suoi contemporanei per la determinazione con la quale ha reagito.
Il Foglio pubblica anche una breve presentazione di Podhoretz:
Norman Podhoretz è nato nel 1930 Brooklyn, in una famiglia di ebrei ashkenaziti di ceto popolare. Entra alla Columbia University e si fa presto notare per il
suo talento di critico e polemista. E’ stato per 35 anni direttore della rivista Commentary, fondata nel 1945 dall’American Jewish Committee. Le sue battaglie intellettuali ne hanno fatto un riferimento obbligato prima della sinistra newyorrchese, poi del pensiero neoconservatore americano. Ha scritto vari libri, tra cui "Making It", "Ex Friends", "The Present Danger" e il recente "The Prophets: Who they were, What they are". E’ sposato con una raffinata intellettuale neoconservatrice, Midge Decter, recente autrice di un libro sul Rumsfeld privato. Suo figlio è l’opinionista del New York Post, nonché fondatore del Weekly Standard, John Podhoretz. Elliot Abrams, altro neocon oggi al Consiglio di Sicurezza nazionale di Bush, è suo genero. Questo saggio è pubblicato sul numero di settembre di Commentary.
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