Gli atleti israeliani ad Atene, nel ricordo della strage di Monaco che verrà ricordata domani
Testata: La Repubblica Data: 19 agosto 2004 Pagina: 50 Autore: Giuseppe D'Avanzo Titolo: «Israele e il ricordo di Monaco: "In gara per i nostri martiri"»
Su La Repubblica di oggi, 19-08-04, Giuseppe D'Avanzo firma un bell'articolo sugli atleti israeliani ad Atene. E sul ricordo della strage di Monaco nel 1972. (a cura della redazione di Informazione Correta) Ecco il pezzo: ATENE - Ci sono molte "leggende" che si gonfiano tra le chiacchiere di Atene. Una "leggenda" racconta dei bunker, dei controlli elettronici, dei "cecchini" armati sui tetti e dell´apprensione che proteggono e circondano gli atleti di Israele, nel villaggio olimpico o in segretissimi luoghi. È una leggenda. Efraim Zinger, il capo delegazione, appare divertito quando lo spiega: «Ad Atene abbiamo una pressione minore che in Israele, se proprio lo si vuol sapere. Le misure di sicurezza qui sono meno asfissianti. La vita al villaggio è più leggera che a Gerusalemme». È così anche oggi quando, in fondo, ci potrebbe essere una ragione molto concreta per essere guardinghi. La ragione è questa. All´ambasciata greca di Stoccolma, nei giorni scorsi, è stata inviata una minacciosa mail in arabo: «Preparatevi, stiamo per distruggere i Giochi olimpici». Stesso testo, stessa minaccia, questa volta in lingua inglese, recapitata alla residenza diplomatica della Grecia a Tel Aviv. Naturalmente è la scelta di Tel Aviv a inquietare. I trentatrè atleti israeliani sono l´obiettivo possibile degli aggressori? La comunità dell´intelligence, come spesso accade, non afferra lo stesso bandolo. Americani e inglesi liquidano l´affare con un parola: advertising, pubblicità. Gli europei - greci, francesi, tedeschi, spagnoli - appaiono più nervosi e non vogliono gettare nel cestino la segnalazione senza pensarci meglio, senza fare qualche controllo. Comunque sia, Efraim Zinger fa spallucce. Sa dell´allarme e mette su una faccia che sembra dire: sono storie che si ripetono ogni giorno, giorno dopo giorno, non ci preoccupano mai davvero. Al bar del villaggio olimpico, Efraim sceglie l´angolo dei fumatori. Siede. Accende la sua sigaretta. L´aspira con piacere e senza senso di colpa. Dice dopo la prima, lunga boccata: «Abbiamo deciso noi di vivere qui al villaggio, abbiamo bocciato altre soluzioni di alloggio e di allenamento separate e più protette. Abbiamo voluto essere qui con e come le altre delegazioni. Siamo in una palazzina accanto alla residenza dei danesi, degli svizzeri, degli spagnoli. Ci alleniamo insieme a tutti gli altri e non abbiamo avuto alcun problema. Con nessuno». Temo che stia per aprirsi il capitolo della retorica dello "spirito olimpico" che dà respiro alla pace anche in tempo di guerra? E allora glielo chiedo: i miracoli dello spirito olimpico? Efraim è un uomo di modi spicci, la retorica non è pratica che può piacergli. «Lo spirito olimpico, per noi israeliani, può soltanto consigliarci al massimo un augurio per una pace che sappiamo essere ancora lontana». Come dargli torto? Si può pensare che esista, da qualche parte, una cosa che si chiama "spirito olimpico" se l´avversario che ti è toccato in sorte rifiuta di battersi perché non vuole stare accanto a te, non vuole toccarti nemmeno per sbaglio, anzi - dice - di non riconoscerti: peggio, pensa che tu non debba addirittura esistere? La storia è nota. Arash Miresmaeili, judoka iraniano - non un "nessuno" ma un due volte campione del mondo - ha rifiutato di combattere contro l´israeliano Ehud Vaks «per solidarietà con il popolo palestinese». Il nome di Arash Miresmaeili non appanna il buonumore di Efraim. Al contrario, lo rinvigorisce. «Mi stia a sentire. Noi sapevamo da molti giorni che Arash non avrebbe combattuto contro Ehud. Eravamo curiosi di scoprire con quale motivazione lo avrebbe fatto. Abbiamo anche scommesso tra di noi. C´è chi ha puntato sullo strappo muscolare; chi sul sovrappeso che gli avrebbe impedito di stare nei 66 chili; chi sul mal di testa; chi su una cattiva digestione. Ha vinto chi ha scommesso sul sovrappeso, come si sa. Povero Arash, era da medaglia! Chiunque che sappia di judo lo sa. Si è allenato a lungo e duramente. Arrivato ad Atene e alla resa dei conti, ha dovuto scegliere tra salire sul podio con una medaglia al collo e tornare in patria per finire male o dire addio alla medaglia e tornare in patria come un eroe, e da eroe essere ricompensato. Capisco che abbia scelto la seconda opzione. Veda, in questa storia noi israeliani non c´entriamo nulla. Diciamo che è una questione interna iraniana. È arrivata una telefonata da Teheran e il povero Arash Miresmaeili ha dovuto pagare il prezzo del conflitto tra i fondamentalisti di Khamenei e i riformisti di Khatami. La storia è così ridicola visto che stiamo parlando di judo che potremmo anche lasciar perdere. E invece noi chiediamo che il Cio ne parli e che intervenga perché non vogliamo che quel che accade oggi con l´Iran possa ripetersi con altri Paesi. Il Cio deve dire una parola chiara?». Lo sport non è il porto franco che attenua le tensioni, stempera gli odii? «Lo sport fa quel può. Ci sono ostacoli che lo sport non può superare conle sue sole forze. Si può tentare, come è naturale. Lo si fa. Ascolti. Già un anno prima delle Olimpiadi di Sidney, Juan Antonio Samaranch, che era il presidente del Cio, invitò a sedere intorno allo stesso tavolo giordani, siriani, palestinesi, egiziani, israeliani. Voleva chiederci che cosa potesse fare lo sport per accompagnare il processo di pace. Andammo tutti alla riunione. I siriani non si presentarono e la loro assenza diventò la risposta alla domanda di Samaranch. Quest´anno abbiamo provato a organizzare una Maratona per la Pace. I palestinesi non hanno voluto neanche parlarne «fino a quando - hanno detto - ci saranno territori occupati». Ci avete provato allora voi italiani con l´aiuto del Vaticano. Siamo riusciti a mettere insieme una piccola maratona da Gerusalemme a Betlemme. Sul confine la bandiera olimpica è stata data dai nostri atleti agli atleti palestinesi. Ognuno ha corso nella sua parte di territorio. Di più non siamo riusciti a fare, nonostante l´impegno del cardinale Ruini, del vice ministro Mario Pescante e del presidente Gianni Petrucci. Mi piace ricordare il loro decisivo e appassionato impegno perché soltanto con l´intervento di autorità esterne al conflitto gli israeliani e i palestinesi potranno incontrarsi». Incontrarsi e non uccidersi. Come pure è accaduto durante a Monaco, nella pagina più nera delle Olimpiadi moderne. Trentadue anni fa, 1972, il 5 settembre. Erano le 4.10 del mattino. "Settembre Nero" assalta la palazzina al numero 31 di Connollystrasse dove alloggia la squadra israeliana e uccide subito l´allenatore della lotta libera Moshe Weinberg e il sollevatore Yossef Romano. Diciotto ore dopo, saranno uccisi all´aeroporto militare di Fuerstenfeldbruck i lottatori Mark Slavin ed Eliezer Halfin, i pesisti David Berger e Zeev Friedman, gli allenatori Kehat Shorr, Andre Spitzer, Amitzur Shapiro, i due giudici Jokov Springer e Joseph Goffreund (moriranno anche cinque fedayn, un poliziotto, il pilota di un elicottero). Efraim accende un´altra sigaretta. «Ricorderemo domani (oggi, ndr) i nostri undici atleti. Lo facciamo ogni anno e, nell´anno delle Olimpiadi, non lo faremo a Tel Aviv, ma qui ad Atene. Ci saranno anche le vedove di Yossef Romano, Ilana, e di Andre Spitzel, Hanchi. L´assassinio dei nostri atleti a Monaco è diventato la pietra miliare della nostra cultura sportiva. È un capitolo della nostra storia che si insegna a scuola. Dovete sapere che ogni atleta che gareggia per i colori di Israele all´estero, prima di lasciare il Paese, va in visita a Tel Aviv al memorial che ricorda il sacrificio dei nostri atleti. È un omaggio pubblico e privatissimo che ciascuno di noi sente come un dovere non solo verso la memoria, ma anche come un impegno e una promessa per il futuro di Israele». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.