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Il Manifesto Rassegna Stampa
18.08.2004 Il terrorismo? Colpa dei neocons. La dittatura in Siria? Colpa di Israele.
viaggio nel Medio Oriente fantastico del quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 18 agosto 2004
Pagina: 3
Autore: Stefano Chiarini - Michele Giorgio
Titolo: «Analisi sul Medio Oriente»
Il Manifesto, a pagina 3, pubblica l'articolo di Stefano Chiarini "Il Vaticano si smarca" che attribuisce alla disponibilità vaticana a tentare una mediazione significati politici cui le dichiarazioni delle gerarchie non offrono riscontri (vedi "La democrazia irachena e la strategia dell'Iran", Informazione Corretta del 18-08-04).
L'articolo allinea poi un certo numero di esempi tipici del Chiarini-pensiero: i neocons e "gli islamisti ultra-radicali di Bin Laden" definiti "speculari assertori del confronto di civiltà" ( ma i neocons non hanno ucciso migliaia di musulmani l'11 settembre 2001 e non sostengono che l'islam sia una civiltà inferiore, da cancellare; pensano invece che sia compatibile con la democrazia e la libertà), Sharon "criminale di guerra", il terrorismo palestinese e iracheno "legittimo diritto alla resistenza dei popoli occupati come sono l'Iraq e la Palestina", la resa alle richieste del terrorrismo come unica efficace strategia antiterrorista o addirittura come unica via di salvezzza per i nostri soldati a Najaf.
Di seguito, il pezzo:

Dopo tredici giorni di combattimenti, morte, distruzioni e di fronte alle impensabili conseguenze che potrebbe avere la distruzione della moschea di Ali, uno dei luoghi più santi per gli sciiti, il silenzio e il disinteresse di tutto il mondo, è stato rotto in queste ore dall'ipotesi di un autorevole intervento Vaticano per facilitare il dialogo ed evitare quella catastrofe che l'amministrazione Bush sembra decisa a perseguire in Iraq. Dopo l'invasione dell'Iraq, la sanguinosa occupazione, lo scandalo delle torture di Abu Ghreib, il sostegno incondizionato al criminale di guerra Ariel Sharon, la distruzione della moschea di Ali porterebbe infatti un'ulteriore, purtroppo per molti convincente, prova di una vera e propria crociata degli Usa e dell'Occidente giudeo-cristiano contro i popoli arabi e più in generale contro l'Islam. Nei mesi che precedettero la guerra e l'invasione americana sia i neocons dell'Amministrazione Bush sia gli islamisti ultra-radicali alla Bin laden, speculari assertori dello scontro tra religioni e civiltà, erano stati clamorosamente smentiti davanti agli occhi di milioni di arabi e musulmani, dalle coraggiose prese di posizione del Papa e di un vastissimo movimento per la pace. Due voci che, sole, hanno fatto di più per fermare la violenza del terrorismo cieco alla bin Laden (altra cosa dal legittimo diritto alla resistenza dei popoli occupati come sono l'Iraq e la Palestina) di quei governi che con le loro scelte di guerra e di occupazione militare, in realtà l'hanno piuttosto alimentato.

Finita la guerra, nonostante gli orrori quotidiani dell'occupazione Usa dell'Iraq, quelle due voci, si erano sostanzialmente affievolite lasciando solo il popolo iracheno nella sua tragedia quotidiana. Ora di fronte al baratro aperto dalla strategia americana di riprendere con la forza il controllo delle città sfuggite di mano agli occupanti, tra le quali quella di Najaf, qualcosa sembra muoversi. La prontezza con la quale il Vaticano ha colto il grido di dolore che viene da Najaf segna un suo positivo ritorno sulla scena con una posizione nuovamente e in positivo divergente da quella statunitense. Infatti è vero che si tratta di «buoni uffici» dagli esiti incerti, ma in ogni caso il dialogo e la trattativa sembrano estranei - e anzi in contraddizione con - alla politica dell'amministrazione Bush decisa semplicemente, ad «eliminare» dalla scena politica, prima delle elezioni presidenziali di novembre, quei settori sunniti e sciiti che resistono all'occupazione dell'Iraq.

L'apertura agli sciiti inoltre costituisce in Iraq una importante novità dal momento che i cristiani locali non hanno mai fatto mistero di preferire un regime laico, anche se autoritario, sunnita, come quello di Saddam Hussein, rispetto al rischio della nascita di uno stato islamico a maggioranza sciita. La presa di posizione del Vaticano non solo può giocare a vantaggio dei cristiani iracheni ma anche incoraggiare in loco il lento e difficile formarsi nella stessa galassia della resistenza di un «centro» interconfessionale sunnita- sciita moderato isolando le tendenze estreme alla al Qaida. Non sorprende da questo punto di vista che il primo appello al papa sia venuto dal suo rappresentante a Nasseriya, Awas al Kafaji, all'indomani dell'intesa con le truppe italiane per una «divisione» di compiti nella città nella quale l'ordine pubblico sarebbe sempre più affidato a forze di polizia locali non ostili alle milizie di Moqtada al Sadr. Una linea vincente che purtroppo in passato, vedi la famosa battaglia del ponti, e i proclami per la difesa della ormai morente Cpa della governatrice Barbara Contini, non era stata seguita per le pressioni Usa. Da questo punto di vista le aperture del Vaticano e la confusione Vaticano-Italia potrebbero dare ai nostri soldati qualche settimana in più per fare i bagagli e andarsene. Se invece il governo di Roma continuerà a seguire il pifferaio Bush allora neppure il Vaticano potrà più salvarli.
A pagina 8 Michele Giorgio pubblica l'articolo "Per la Siria riforme a ostacoli", nel quale Bashar Assad appare come un democratico frenato, nei suoi propositi di riforma,... dalle minacce israeliane e statunitensi.
In realtà, è la Siria che sostiene Hezbollah e il terrorismo iracheno e che ospita leader di Hamas come Khaled Meshal. Israele e Stati Uniti, dal canto loro, sono da tempo disponibli a un accordo e recentemente il capo di stato maggiore israeliano ha parlato di un possibile ritiro dal Golan (offerto sia da Rabin che da Barak a Damasco e rifiutato).
A rafforzare l'improbabile tesi Giorgio pone l'intervista a Michel Kilko "Democrazia bloccata? La colpa è anche di Bush". Kilko è un "dissidente" con tesi molto vicine a quelle del governo da cui dissente.
Nel mondo arabo ci sono anche i liberali, i sostenitori del piano Bush per il "Grande Medio Oriente" o del dialogo con Israele.
Sono pochi, isolati e rischiano davvero la vita. E Il Manifesto non li intervista mai.
Di seguito, i due pezzi:

Per la Siria riforme a ostacoli

«I cittadini credono in un futuro migliore per la nostra nazione». Questo titolo apriva lo scorso 20 luglio la terza pagina del Syrian Times. L'autore dell'articolo, con ogni probabilità il direttore del giornale in lingua inglese, cercava di tracciare il percorso, molto accidentato, sul quale si era mosso il giovane presidente Bashar Assad, 35 anni, salito nel 2000 al potere in seguito alla morte del padre Hafez, uno dei leader arabi più importanti della sua generazione, conosciuto come il «Leone di Damasco». Più di un resoconto di quattro anni di possibili traguardi e risultati, l'articolo era una difesa appassionata dell'operato di un presidente che sin dal primo giorno aveva dovuto fare i conti con eventi straordinari e gravi per il Medio Oriente: la nuova Intifada palestinese, l'11 settembre, l'occupazione Usa dell'Iraq, le minacce incessanti di Washington a Damasco e il rischio di una nuova guerra. Senza dimenticare l'intransigenza del premier israeliano Ariel Sharon, deciso a non restituire il Golan alla Siria ed intenzionato ad attendere che i neocons dell'Amministrazione Bush riescano a scatenare un attacco militare anche contro Damasco. «Da quando il presidente Assad ha cominciato il suo mandato, gli eventi nella regione si sono fatti sempre più complicati e l'atmosfera generale si è avvelenata a causa delle politiche e delle azioni di Stati uniti, Israele e i loro alleati», ha messo in evidenza l'autore dell'articolo, sottolineando inoltre che «sotto la leadership del presidente, la Siria ha protetto la sua dignità».

Che la minaccia esterna e le forti pressioni Usa abbiano influito sulla politica e le scelte di Bashar Assad non vi è dubbio. Allo stesso tempo ben pochi dubbi si hanno anche sui magri risultati ottenuti sino ad oggi da un presidente che aveva annunciato riforme economiche e politiche, che affermava di voler portare il paese ad elevati livelli di sviluppo e che, più di tutto, aveva fatto capire di voler scardinare il sistema di controllo del partito Baath e dei servizi di sicurezza sulla vita del paese, in nome del rispetto dei diritti umani e dei diritti politici. «Bashar invece in questi quattro anni è stato impegnato a consolidare il suo potere minacciato dalla vecchia guardia baathista che lo considera inesperto e poco adatto a guidare il paese», afferma un noto esponente dissidente siriano che, per ragioni di sicurezza, preferisce rimanere anonimo.

Catapultato all'improvviso dalla sua attività medica a quella politica, il giovane presidente in sostanza ha dovuto abbandonare i propositi di rinnovamento che aveva in mente per respingere i siluri provenienti dai vertici del Baath e delle forze armate, ed evitare di diventare un semplice burattino nelle mani di coloro che da decenni - accanto al padre Hafez - governano la Siria. «Si è arreso subito, ha messo da parte il coraggio e ha scelto invece un atteggiamento prudente. In poche parole ha preferito il potere così come è piuttosto che riformarlo», lamenta l'anonimo dissidente sottolineando che anche nel campo dei diritti umani e della libertà individuale si sono fatti pochi passi in avanti. «Senza dubbio sono stati liberati tanti detenuti politici (all'inizio di agosto anche il comunista Imad Shiha rimasto in prigione quasi 30 anni, ndr) eppure ancora oggi è troppo facile finire in carcere solo perchè si esprimono opinioni». Lo confermerebbero le recenti ondate di arresti seguite alle manifestazioni pro-riforme della scorsa primavera (a maggio è finito in prigione Aktham Naysseh, del Comitato per i diritti umani) e alle proteste curde a Qamishli e in altre località del paese.

Una descrizione più benevola di Bashar Assad giunge invece dall'analista politico Samir Taqi, del Centro di studi strategici. «Il presidente credeva e crede ancora nelle riforme e nello sviluppo democrativo - ha detto al manifesto - ma non è riuscito a far emergere ed affermare una nuova guardia moderna, rinnovatrice, in grado di sostituirsi alla vecchia generazione (baathista e dei servizi di sicurezza)». Secondo Taqi lo scorso anno Assad ha provato invano a riformare il Baath mentre il nuovo governo rifletterebbe solo in minima parte il programma che il leader siriano continua ad avere in mente.

Il presidente contava molto anche sul ruolo che avrebbero potuto svolgere gli imprenditori siriani residenti all'estero, ai quali era stato chiesto di aiutare lo sviluppo economico del paese. La vecchia guardia sarebbe stata però in grado di affossare piani economici che puntano a scardinare l'alleanza consolidata tra potere politico ed imprenditoria. «Lo sviluppo procede lentamente nonostante qualche limitato successo recente - sostiene l'economista Nabil Sukkar - manca ancora un programa coerente che tenga conto del calo nella produzione petrolifera (70% delle entrate dello Stato, ndr) che registreremo a partire dal 2008 per l'esaurirsi progressivo delle nostre riserve di greggio».

Rimane nel frattempo marginale il ruolo di rappresentanti del campo riformista come l'ambasciatore a Washington Imad Mustafa, il capo della commissione pianificazione Abdullah Dardari, il consigliere presidenziale Nibras Fadel e del presidente della Commercial Bank of Syria (di proprietà statale) Duraid Dargham. «Questi esponenti ma anche tanti altri siriani pensano che sia possibile procedere al rinnovamento e allo sviluppo del paese mantenendo allo stesso tempo le nostre posizioni in politica estera e respingendo le minacce esterne», riferisce lo scrittore e attivista politico Akram Bunni.

È tornata a crescere l'influenza degli islamisti.I Fratelli Musulmani, sterminati a migliaia all'inizio degli anni ottanta dalla feroce repressione ordinata da Hafez Assad, sono tornati in superfice negli ultimi tempi approfittando di un clima politico più favorevole, almeno rispetto agli anni passati. Ad Aleppo soprattutto sono rifioriti gli studi coranici anche se sotto l'occhio vigile dei servizi di sicurezza. «Il regime lascia fare, sapendo che gli islamisti soprattutto quelli più moderati, desiderosi di tornare ad agire liberamente, non saranno i primi a lanciare la sfida al potere, al contrario, potrebbero diventarne i futuri garanti contro la spinta dei riformisti laici», ha commentato il dissidente anonimo.


Democrazia bloccata? La colpa è anche di Bush

Michel Kilo è un attento osservatore della realtà politica e sociale della Siria. Scrittore, attivista politico, è uno dei principali sostenitori delle riforme democratiche nel suo paese, ma anche un duro critico delle politiche di Stati uniti e Israele in Medio Oriente. Lo abbiamo incontrato a Damasco. Con Kilo abbiamo discusso della linea del presidente Assad, della situazione degli intellettuali e dei riformisti siriani, delle conseguenze delle pressioni americane per il rinnovamento democratico della Siria.

Bashar Assad il mese scorso ha celebrato il suo quarto anno di potere. In questi giorni abbiamo letto le analisi fatte da diversi osservatori, siriani e stranieri, sui risultati e fallimenti del presidente. Gli intellettuali e i riformisti siriani come hanno vissuto questa ricorrenza?

Con molti rimpianti, con la consapevolezza che tante occasioni importanti sono andate perdute e che non sarà facile recuperare il tempo perduto. Bashar Assad aveva parlato di riforme, specie in campo economico, già prima della sua nomina a presidente, generando aspettative in tutti i siriani che amano il loro paese e chiedono cambiamenti in ogni settore. Purtroppo ha scoperto ben presto che è difficile riformare un regime fortemente ideologico, in cui si confrontano dirigenti politici che sono fedeli allo Stato e altri che invece sono fedeli soltanto al potere. Ha scoperto che la forza del Baath è immensa e difficilmente sarà in grado di misurarsi con esponenti del partito che godono di grande autorità.

Bashar Assad perciò è una vittima del sistema di controllo del potere?

Solo fino ad un certo punto. Non bisogna dimenticare, ad esempio, che è il presidente ad avere il controllo dei servizi di sicurezza e pertanto potrebbe fare molto di più per mettere fine a certe pratiche che limitano gravemente la libertà personale e di pensiero dei cittadini. Dovrebbe cercare di essere più incisivo, di affrontare con determinazione coloro che nel partito e nella amministrazione pubblica si oppongono al rinnovamento. In quel caso dalla sua parte troverebbe schierati tanti siriani.

Le minacce americane alla Siria favoriscono o danneggiano i sostenitori della riforme democratiche?

Ci danneggiano in modo molto grave. Fino a quando il nostro paese rimarrà sotto la minaccia di un attacco americano o di una guerra scatenata da Israele, per noi (riformisti) non sarà possibile raggiungere i traguardi che vogliamo per il nostro paese. Il regime attuale e i servizi di sicurezza useranno sempre la questione della sicurezza nazionale per rinviare o bloccare il dibattito sulla democrazia. Allo stesso tempo anche noi siamo consapevoli dei pericoli che incombono sulla Siria e sappiamo di dover partecipare alla sua difesa. Bush, come dimostra l'occupazione dell'Iraq, non vuole certo la democrazia in Medio Oriente e le sue pressioni sono volte unicamente a far capitolare la Siria per consentire la vittoria totale di Israele.

Cosa pensa del progetto Usa per un «Grande Medio Oriente» democratico illustrato all'ultimo G8?

Gli Usa parlano di diritti umani e democrazia ma poi sono i primi a sostenere i dittatori e i regimi autoritari pronti a servire i loro interessi. L'iniziativa per il Medio Oriente annunciata da Bush è un grande inganno. Non intende promuovere la democrazia ma solo la stabilità nella regione. D'altra parte la prima versione di questo progetto parlava di cooperazione tra le società civili, la seconda invece fa riferimento alla collaborazione tra i governi. Credo inoltre che l'atteggiamento Usa sia in parte cambiato anche nei confronti della Siria. Washington ha compreso che il nostro paese può contribuire a riportare sotto controllo l'Iraq e quindi ha ammorbidito i suoi attacchi senza mettere da parte il suo abituale sostegno a Israele che pure occupa la nostra terra (Golan). Dagli Stati uniti perciò non ci aspettiamo e, soprattutto, non vogliamo nulla. Continueremo a lottare da soli per il rinnovamento del nostro paese.



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