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Il Foglio Rassegna Stampa
18.08.2004 La democrazia irachena e la strategia dell'Iran
che ora promuove la mediazione vaticana a Najaf

Testata: Il Foglio
Data: 18 agosto 2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: «C'è l'Iran all'origine dell'ipotesi di una "trattativa vaticana" - Il Parlamento di Baghdad»
Per Il Foglio di oggi, 18-08-04, è iraniana l'idea della mediazione vaticana su Najaf. A conferma che dietro Moqtada Sadr c'è il regime degli ayatollah.
In prima pagina questa analisi è sviluppata nell'articolo "C'è l'Iran all'origine dell'ipotesi di una "trattativa vaticana"".
Nel quale si dimostra anche, però, che il Vaticano non crede alle intenzioni pacifiche di Moqtada Sadr.
Ecco il pezzo:

Roma. Se fossero mancate le prove – e invece sono moltissime – della totale eterodirezione iraniana di Moqtada Sadr, sarebbe bastata la proposta di una mediazione del Vaticano tra lui e il governo di Iyyad Allawi per fugare ogni dubbio: un’idea del genere può venire soltanto agli ayatollah che accompagnarono
Ruollah Khomeini nella sua rivoluzione e che ne hanno oggi ereditato il potere a Teheran. Khomeini, infatti, era particolarmente sensibile teologicamente alla figura della Vergine Maria e aveva in grande stima Giovanni Paolo II, di cui condivideva in pieno la testimonianza pastorale contro il comunismo. Così, non appena preso il potere nel febbraio 1979, gli inviò una lunga missiva in cui ricordò come il Corano riservasse alla madre del Cristo una stima e un apprezzamento del tutto particolari. Non appena il nuovo ambasciatore della Repubblica islamica iraniana, Bagher al Salaam, fu accreditato in Italia
e in Vaticano, fu ricevuto dal pontefice che ebbe con lui una discussione tanto
franca sul terreno della politica, quanto partecipata su quello teologico. Khomeini apprezzò molto il resoconto dell’incontro che gli fece l’ambasciatore al suo ritorno; inoltre il Papa non ha avuto mai modo di esprimere preoccupazioni per il trattamento riservato ai cristiani nella Repubblica islamica. Il colpo mediatico della "trattativa vaticana" su Najaf si inserisce dunque in pieno in questo solco. Di certo all’origine non può esserci Moqtada Sadr, che non è ferrato negli studi religiosi: non ha mai frequentato infatti
università coraniche, è semmai professore di contrabbando, traffico di valuta e altro nei quartieri sciiti di Baghdad; sul pontefice, come sul Vaticano, ha sicuramente idee confuse e imprecise. Che questo sia il quadro, che la "trattativa vaticana" sia soltanto polvere negli occhi, gettata da qualche suggeritore di Teheran a media avidi di novità ferragostane, lo si comprende
peraltro molto bene se si leggono le posizioni delle gerarchie cattoliche. Sia il cardinale Angelo Sodano sia padre Ciro Benedettini, vicedirettore della sala stampa vaticana, hanno ribadito soltanto un’ovvia, quanto generica, disponibilità ad "aiutare le parti a parlarsi e a dialogare, a condizione che esista davvero la volontà di imboccare vie pacifiche per la soluzione dei conflitti". Lo stile è diplomatico ma esplicito ed evidenzia i dubbi vaticani sul fatto che Moqtada Sadr abbia veramente tale vocazione pacifica; dubbi confermati dal personaggio chiave di tale "mediazione vaticana", il nunzio apostolico a Baghdad, monsignor Fernando Filoni, che ha dichiarato ieri all’emittente televisiva araba al Arabyia: "Il punto è capire quali siano le reali intenzioni delle parti in lotta. La Santa Sede ha confermato la propria disponibilità a fare da intermediario fra le parti, niente di più. Se Moqtada dimostrerà la propria disponibilità nel trovare una soluzione pacifica al conflitto dovremo accettarla, ma è inutile fare delle ipotesi fino a che non chiarirà le sue reali intenzioni".

La concorrenza di Sciri e Dawa

Moqtada, da parte sua, non mostra evidentemente alcuna disponibilità a chiarire le sue intenzioni, che comunque non sono mai state pacifiche e che mai lo saranno: se
ne sta asserragliato in armi, con un gesto blasfemo, dentro il mausoleo di Ali, approfittando dell’immunità che il luogo sacro gli procura; manda i suoi "miliziani" a farsi sterminare dalle truppe irachene e americane nell’immenso cimitero della città, che ancora una volta ieri è stato bombardato; ovunque può ordina azioni terroristiche o agguati alle truppe della coalizione, come quelli contro i carabinieri italiani a Nassiriyah. Se mai avesse intenzioni pacifiche, Sadr non dovrebbe fare altro che accettare l’invito
– a deporre le armi, a trasformare il suo movimento in un partito politico e a partecipare alle elezioni – che la delegazione creata dall’Assemblea nazionale irachena gli ha fatto pervenire ieri a Najaf. Ma è ben difficile che il mullah filoiraniano scelga di percorrere questa strada, anche perché la via del consenso popolare gli è sbarrata dalla concorrenza del grande partito sciita Sciri(che conduce le operazioni militari in corso da giorni a Najaf contro di lui) e dal Dawa. In questi giorni, per di più, ha misurato per intero il suo isolamento all’interno della comunità sciita. Tutti i grandi ayatollah iracheni, che hanno un immenso seguito popolare, non soltanto non gli hanno mai
espresso solidarietà, ma da settimane non dicono una parola contro le truppe americane che pure continuano a sparare nel centro di Najaf, per la semplice ragione che ne sono silenti alleati.
A pagina 3 l'editoriale "Il Parlamento di Baghdad" riconosce nelle iniziative della conferenza nazionale irachena per risolvere con un negoziato la crisi provocata da Moqtada Sadr, "La prima bella notizia da mesi: gli iracheni si riuniscono e fanno politica", come recita il sottotitolo.
Ecco il pezzo:

Niente di più ambiguo e levantino è immaginabile: la conferenza nazionale
irachena di Baghdad può essere vista come un assemblaggio caotico di clan
tribali, di rappresentanti etnici e confessionali in ordine sparso, un catino ribollente pieno di loschi figuri compromessi con il tridecennale regime baathista, più qualche émigré o qualche oppositore laico del fronte interno, tutti alla disperata ricerca del miglior piazzamento possibile in una gara democratica che stenta a cominciare in un paese corroso da agguati,
bombe, ricatti, milizie, rapimenti, attività sordide di servizi segreti di mezzo
mondo, sotto la spesso incerta tutela del personale militare e civile dell’impero; eppure quei milletrecento delegati, sotto il patrocinio del nuovo presunto uomo forte della situazione, il premier Allawi, hanno trovato la forza e il collante per non disperdersi tra gli attacchi a colpi di mortaio, tra le pressioni demagogiche dei ras sciiti e sunniti armati, e hanno saputo disegnare una prima vera azione politica autoctona dopo la caduta di Saddam Hussein e la tumultuosa liberazione nel sangue del loro paese. Se il costoso, incredibile ritardo con cui le autorità di occupazione e il nuovo governo iracheno hanno affrontato la clamorosa minaccia costituita dalle rampanti milizie di Moqtada al Sadr ha alla fine consentito a un Parlamento siffatto di nominare una delegazione per la trattativa con i miliziani e la ricomprensione dei ribelli nel processo politico di ricostruzione dell’Iraq, viva il ritardo, verrebbe da dire, viva il miracolo levantino del risorgimento politico iracheno, durasse anche lo spazio di un mattino. Le incognite sono ancora molte, troppe, e alla fine è altamente probabile che questo conato di politica debba cedere alla riproposizione della questione della forza, e del suo monopolio legittimo, come premessa di ogni vera politica. Ma intanto siamo di fronte alla prova, e da
cosa nasce cosa e il tempo la governa, come si diceva nell’Italia del Cinquecento. La democrazia ha qualcosa di sporco, di rozzo, di ingannevole e di losco perfino nelle sue cattedrali occidentali, figuriamoci se sia possibile alzare il sopracciglio di fronte ai suoi tentativi nella terra islamica ad essa sconosciuta, e che non la conosce. Si comincia con il restaurare la pena di morte, poi si minaccia il massacro dalle postazioni di un grande cimitero, poi si riunisce un Parlamento non eletto che decide di trattare: sembra tutto molto strano ed equivoco, ma si fa così. Fino al fallimento successivo, e al tentativo che ne seguirà.
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