I coscritti del martirio e il nucleare "pacifico" dell'Iran
Testata: Il Manifesto Data: 12 agosto 2004 Pagina: 5 Autore: Michelangelo Cocco - Marina Forti Titolo: «Martiri per errore al checkpoint - Tehran:»
A pagina 9 del Manifesto di oggi, 12-08-04, Michelangelo Cocco firma un articolo sull'attentato al posto di Qalandia, dall'allucinante titolo "Martiri per errore al checkpoint". Sono le Brigate dei Martiri di al Aqsa ad aver definito "martiri", al pari degli attentatori suicidi, i morti palestinesi nell'attentato. Il Manifesto accetta evidentemente l'una e l'altra definizione. Secondo le ricostruzioni dell'attentato fornite dai siti dei quotidiani israeliani Maariv e Jerusalem Post agli indirizzi:
http://www.maarivintl.com/index.cfm?fuseaction=article&articleID=10641 e http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost/JPArticle/ShowFull&cid=1092193812098
gli attentatori, resisi conto dell'impossibilità di raggiungere Gerusalemme, si sono allontanati e hanno azionato l'esplosivo con un telecomando. I morti palestinesi non sono dunque il prodotto di un "errore", ma della decisione dei terroristi di sacrificarli per uccidere comunque degli isrealiani e per salvare se stessi. Tali informazioni non sono presenti nell'articolo. Ma è lo stesso leader delle Brigate Al aqsa di Jenin, come riferisce Cocco, a dichiarare: "Siamo stati costretti a far esplodere l'auto sul posto". Anche a questo il quotidiano comunista non ha nulla da obiettare. Prima di ogni altra considerazione, compresa la vita dei civili palestinesi, vengono dunque le esigenze "militari" della lotta a Israele. L'articolo, del resto, si compiace di un lessico e di un tono marziali: ricorrono espressione come: "i comandi militari dell'occupante", "gli occupanti", riferite agli israeliani, e "i combattenti" riferiti agli autori dell'attentato dell'11 luglio a una fermata dell'autobus a Tel Aviv. Viene taciuto il fatto, anch'esso riportato da Maariv e Jerusalem Post, che il posto di blocco di Qalandia era stato istituito proprio dopo la segnalazione di un possibile attentato a Gerusalemme. Riferirlo avrebbe probabilmente rovinato la descrizione accorata e indignata delle "centinaia di palestinesi costretti dall'esercito israeliano ad aspettare ore per uscire dalla città santa o farvi ritorno". L'attentato dimostra comunque, secondo Cocco, le misure di sicurezza israeliane, che in realtà hanno ridotto gli atti terroristici riusciti del 90%, non funzionano. Il ministro del lavoro palestinese "spiega" (non "dichiara", "spiega", mentre Cocco pende dalle sue labbra) che gli attentati saranno "inevitabili" (come i fulmini o i terremoti, di cui nessuno è responsabile) finchè Israele no farà ciò che ha già tentato di fare con gli accordi di Oslo, non riuscendeovi per l'assenza di interlocutori. Cocco, ovviamente, non ha critiche da fare a questa dichiarazine, che suona come una vera e propria rivendicazione del terrore, nello stile obliquo e ambiguo degli "uomini d'onore". Di seguito, il pezzo: Lo scenario, il checkpoint di Qalandia, il posto di blocco a pochi chilometri da Gerusalemme dove ogni giorno centinaia di palestinesi sono costretti dall'esercito israeliano ad aspettare ore per uscire dalla città santa o farvi ritorno. È quasi un miracolo che quando la bomba è esplosa non abbia fatto una strage tra la gente in attesa e le decine di venditori di bibite e generi alimentari che sbarcano il lunario «approfittando» delle code. Il bilancio dell'attacco di ieri pomeriggio, rivendicato dalle Brigate dei martiri di al Aqsa, è comunque pesante: due palestinesi uccisi, un bimbo in condizioni critiche e tre militari israeliani feriti in modo grave. Secondo il portavoce della polizia israeliana, Gil Kleiman, la carica esplosiva era piazzata all'interno o sotto l'automobile, ed è scoppiata quando gli agenti della polizia di frontiera - in allerta dopo un allarme attentati scattato in mattinata - si sono avvicinati per ispezionarla. Ma, ha dichiarato Kleiman, «non scartiamo ancora del tutto l'ipotesi che si sia trattato d'un attacco suicida. Solo che non abbiamo trovato il corpo che confermerebbe quest'ipotesi». Fonti mediche palestinesi hanno confermato due morti, il 56enne Salah Abu Sneinah, che era alla guida della sua auto, e Ayed Mustafa, 45 anni. Altre tre persone che si trovavano in macchina con Abu Sneinah sono rimaste ferite, tra cui il suo nipotino Mahdi, 6 anni, ricoverato in condizioni critiche. Subito dopo l'esplosione è arrivata la rivendicazione delle Brigate al Aqsa. Con una telefonata all'agenzia di stampa Associated press (Ap) il gruppo fedele ad al Fatah ha fatto sapere di essere dispiaciuto per aver colpito dei palestinesi, di considerare «martiri» i morti, e che il suo obiettivo era compiere un attacco contro israeliani a Gerusalemme. «Siamo stati costretti a far esplodere l'auto sul posto», ha detto all'Ap Zakariye Zubeydi, leader delle Brigate nella città di Jenin. L'attacco contro gli israeliani avrebbe invece voluto vendicare l'assassinio di un leader dell'organizzazione ucciso un mese fa in Cisgiordania. Jenin, da cui i comandi militari degli occupanti ritengono provenisse l'esplosivo, in serata è stata circondata dai carrarmati israeliani, mentre fonti palestinesi non escludono che l'attesa rappresaglia del governo Sharon posssa abbattersi su Ramallah, sede del quartier generale del presidente Arafat.
L'ultimo attentato palestinese risaliva all'11 luglio scorso quando i combattenti avevano fatto esplodere una bomba nei pressi di una fermata dell'autobus a Tel Aviv, uccidendo un soldato israeliano. La costruzione del muro che ruba la terra dei palestinesi, le uccisioni di leader dell'intifada, gli arresti di massa, le demolizioni di case - misure a cui l'establishment militare e politico israeliano attribuisce il merito di aver fermato l'ondata di attacchi suicidi - mostrano in occasioni come quelle di ieri tutti i loro limiti.
Come ha spiegato il ministro del lavoro palestinese, Ghassan al Khatib, questi episodi (gli attentati, ndr) resteranno «sfortunatamente inevitabili finché Israele non darà ai palestinesi il loro stato nella Cisgiordania e a Gaza, attraverso un processo negoziale». Ma il governo Sharon non parla il linguaggio della diplomazia, come dimostra il raid condotto ieri mattina dall'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza, che ha seminato il terrore tra la popolazione del misero campo profughi di Khan Yunis e ferito tredici palestinesi, tre dei quali in modo grave. L'operazione, secondo il portavoce dell'esercito, era diretta «contro le infrastrutture terroristiche». Ne hanno fatto le spese donne e bambini che si sono trovati in mezzo a un missile sparati dagli elicotteri degli occupanti. A pagina 5 Marina Forti firma l'articolo "Tehran: un crimine l'attacco a Najaf", nel quale nega, senza argomenti, oltre alle dichiarazioni del regime, ogni responsabilità dell'Iran nel determinare l'instabilità irachena. Di seguito il pezzo: L'Iran ha sperimentato ieri l'ultima versione del suo missile Shahab-3, un missile a medio raggio che può portare testate di una tonnellata e colpire obiettivi a 1.300 chilometri di distanza - ad esempio in Israele, non mancano di far notare tutte le agenzie occidentali. Il test missilistico iraniano non è inaspettato: sabato il ministro della difesa Ali Shamkhani aveva annunciato l'intenzione di «verificare sul campo» le ultime modifiche fatte al Shahab-3. E' una risposta all'ultimo test fatto da Israele, che la settimana scorsa ha sperimentato negli Stati uniti il suo sistema di difesa anti-missile Arrow-II. Il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra è stato anche recentemente dichiarato dalla massima autorità della Repubblica Islamica, l'ayatollah Khamenei. Le agenzie occidentale non mancano dunque di far notare un fatto della massima rilevanza. In questo non vi nè ingiustificato allarmismo nè parzialità a favore di Israele, come la sottolineatura della Forti vorrebbe suggerire. I missili Arrow hanno una funzione difensiva, l'intercettazine di missili lanciati contro il territorio israeliano. Sono essi dunque la risposta ai programmi missilistici offensivi dei nemici di Israele. Per quanto annunciato, il test iraniano contribuisce a rialzare la tensione tra Tehran e gli Stati uniti. Da un lato, l'Iran è accusato più o meno apertamente di voler destabilizzare l'Iraq; dall'altro Washington accusa Tehran di avere un programma segreto per costruire la bomba atomica - giorni fa la consigliera per la sicurezza nazionale americana Condoleeza Rice ha riparlato di possibile «azione unilaterale» se la comunità internazionale non sarà capace di fermare l'Iran.
Il leader supremo della rivoluzione islamica iraniana, ayatollah Ali Khamenei, ieri ha denunciato l'azione militare Usa a Najaf come «uno dei crimini più oscuri dell'umanità». Gli Usa «stanno massacrando gli abitanti di una delle più sante città islamiche: il mondo islamico e l'Iran non staranno a guardare», ha detto.
Intanto però il ministro degli esteri iraniano Kamal Kharrazi ha cercato di riportare alla civiltà le relazioni con il governo provvisorio iracheno: ieri ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo iracheno Hoshyar Zebari, e questi - ha riferito poi Kharrazi - gli ha assicurato che le dichiarazioni del ministro della difesa Hazim al-Shalaan «non corrispondono alla posizione ufficiale del suo governo». In un'intervista alla tv Al Arabiya, Shalaan aveva accusato l'Iran di armare la milizia di Moqtada al Sadr, e aggiunto che «l'Iran è il nemico numero uno». Affermazioni simili, ha osservato Kharrazi, «sono fatte per creare animosità tra l'Iraq e la nazione iraniana... il governo iracheno dovrebbe fermarle». Così sembra pensare anche il vicepresidente iracheno Ibrahim Jaafari: in un'intervista rilasciata ieri a Londra ha preso le distanze dal ministro della difesa, e ha detto che Baghdad vuole migliorare le relazioni con i vicini, sulla base «dei mutui interessi e del rispetto della sovranità».
Il sospetto reciproco tra Iran e Iraq è storico, ma Tehran ha mantenuto un profilo amichevole finora sia con il «consiglio governativo» iracheno formato dall'autorità d'occupazione americana in Iraq (aveva anche spinto le forze sciite irachene più vicine a Tehran a farne parte), sia con l'attuale governo provvisorio. Giorni fa i due governi hanno stretto alcuni accordi commerciali, ieri il ministro degli esteri Kharrazi ha ufficialmente invitato il premier iracheno ad interim Iyad Allawi a visitare Tehran.
Certo, non è ancora risolto il caso del console iraniano rapito la settimana scorsa sulla strada tra Baghdad e Kerbala. Proprio ieri poi si è avuta notizia dell'arresto di tre reporter dell'agenzia stampa iraniana (per «spionaggio»). Poi c'è la faccenda Ahmad Chalabi, l'ex protegé del Pentagono poi accusato di aver passato a Tehran informazioni dei servizi americani e ora colpito da ordine di arresto (mentre si trovava in Iran).
Non aiuterà a dissipare i sospetti la recente conferenza della «organizzazione mondiale islamica per gli shahid», o martiri, convocata a Tehran con il propagandato scopo di arruolare volontari alle «operazioni di martirio»: potevano scegliere tra «uccidere Salman Rushdie, operazioni suicide contro gli americani nei luoghi santi sciiti in Iraq o attaccare le forze israeliane in Palestina», riferiva il quotidiano Sharq («Oriente», riformista) - che commentava in modo molto critico la conferenza. L'arruolamento di «volontari martiri» suona un'operazione di propaganda, ma non è per questo meno allarmante. Rientra in un nuovo clima politico in Iran, dove in maggio si è insediato un parlamento dominato dalle forze islamiche più conservatrici. Altro segnale sono le mozioni per non ratificare il protocollo aggiuntivo al Trattato di non proliferazione nucleare, quello firmato nel dicembre scorso dall'Iran con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.
Il dossier nucleare si scalderà da qui a metà settembre, quando l'Aiea terrà un consiglio direttivo per discutere tra l'altro se l'Iran abbia o meno violato i suoi impegni. Martedì è circolata la notizia che gli ispettori nucleari hanno rintracciato in Pakistan la fonte dell'uranio arricchito trovate in Iran l'inverno scorso: Tehran, che nega di aver cominciato ad arricchire uranio, sostiene che le tracce trovate dagli ispettori erano arrivate con i macchinari comprati sul «mercato nero». Il ritrovamento degli ispettori per il momento dà ragione all'Iran, anche se non chiude la questione.
Anche perchè Teheran si è ufficialmente procurata la tecnologia necessaria ad arricchire l'uranio. Chissà a quale scopo... Di fronte alle minacce di sanzioni, o peggio di «azioni unilaterali», a Tehran prendono spazio le posizioni più dure - nelle settimane scorse i conservatori hanno accusato il governo riformista di aver fatto troppe concessioni, firmando il protocollo aggiuntivo. Proprio ieri 238 deputati iraniani (su 290) hanno approvato una mozione che chiede al governo di continuare a perseguire tecnologia nucleare a fini pacifici. Ma su un punto gli iraniani sono unanimi, conservatori o riformisti, ed è il diritto dell'Iran a possedere tecnologia nucleare. Lo ha ribadito ieri il presidente Mohammad Khatami: «Speriamo di risolvere la questione attraverso le spiegazioni e il dialogo. Ma se qualcuno vuole privarci del diritto a una tecnologia nucleare pacifica, non ci staremo». Il nucleare è un diritto dei popoli, quando si tratta di Iran. Una tecnologia costosa, dannosa, pericolosa e necessariamente connessa a interessi militari in qualsiasi altro contesto. Peccato però che del popolo iraniano non facciano parte solo "consevatori" e "riformisti", ma anche i dissidenti, estranei al regime. I primi a mettere in guardia la comunità internazionale dal programma nucleare dei "pacifici" ayatollah. Sarà forse perchè ne conoscono meglio di tutti la spiccata propensione al dialogo e alla tolleranza?
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