Corruzione e violenza a fondamento del potere di Arafat la crisi ne rivela il vero volto
Testata: Corriere della Sera Magazine Data: 05 agosto 2004 Pagina: 12 Autore: Guido Olimpio Titolo: «Traballa il potere del rais»
Dal Corriere della Sera magazine datato 05-08-04 riprendiamo l'articolo di Guido Olimpio sulla crisi del potere di Arafat: "Traballa il potere del rais". Anche se il linguaggio di Olimpio non convince (Hamas è un gruppo "radicale" e non terrorista, i Comitati popolari sono anch'essi qualificati soltanto come "tra i più coraggiosi nell'afrontare i soldati israeliani"), il pezzo si segnala per la precisione con cui descrive il sistema di potere di Arafat, oggi in crisi, fondato sulla corruzione e la violenza. Pochi giorni fa a Ramallah, uffici dell'Autorità palestinese. Un gruppo di deputati discute di un episodio misterioso e preoccupante. Nabil Amr, un ex ministro diventato famoso per la posizione fortemente critica nei confronti di Yasser Arafat, è stata gambizzato. Un cecchino lo ha sorpreso davanti all'ingresso della sua abitazione. Tutti pensano che l'esecutore possa essere un membro delle milizie, ma pochi osano sbilanciarsi sul mandante. Azimi Shaibi è un po' più coraggioso degli altri parlamentari e dice: «Penso che il responsabile non sia un singolo individuo, piuttosto un personaggio importante e potente all'interno del Fatah». Gli altri capiscono, ma preferiscono non aggiungere altro. Nominare il «personaggio» può diventare pericoloso. Perché altri non è che Yasser Arafat. Il presidente dell'Autorità, il rais, la bandiera vivente di una causa, l'icona della rivoluzione, «la soluzione e la fonte di tutti i problemi», come ha sottolineato un commentatore. E in effetti tutto passa attraverso il leader. Da oltre due anni confinato in 400 metri quadrati all'interno della Mukata. Un fortino inglese, diventato poi una prigione, quindi residenza del presidente palestinese e infine di nuovo prigione. Perché Arafat non può uscire da quelle mura segnate dai colpi dei bulldozer e dei cannoni israeliani. Se mette un piede fuori rischia di essere arrestato, espulso, forse eliminato. Ma nonostante sia agli arresti domiciliari è nel pieno delle sue funzioni. È lui a decidere quale delegazione va all'estera, è lui a nominare capi e capetti, è lui a firmare con la mano tremante gli assegni, è lui a gestire la cassa segreta. È con questi soldi che riesce a manovrare le fazioni, armare gli uomini, creare i dissidi e soprattutto mantenere il potere. Per alcuni osservatori un potere sempre più ridotto, contestato dalla base e dai quadri intermedi. Per altri invece si tratta di un potere che attraversa una delle ricorrenti crisi. Questa volta forse è più grave. Sia perché Abu Ammar, come lo chiamano i palestinesi, ha difficoltà obiettive nel controllare la piazza, sia perché non è l'unico attore a interpretare il dramma. A scatenare la contestazione il possibile ritiro israeliano dalla striscia di Gaza, un ripiegamento previsto per il prossimo anno ma che ha acceso interessi e lotte intestine. È così esplosa quella che la gente di Gaza definisce la «guerra delle tre F». La prima è fawda, che vuol dire l'anarchia dei gruppi armati. La seconda è fasad, che sta per la corruzione del potere. La terza è fadiha, la vergogna per quello che accade. Un tridente di accuse da scagliare contro Arafat. In particolare quello della corruzione, tema che fa sempre presa tra la popolazione costretta a sopravvivere e che non viola i tabù della «lotta all'occupazione». A soffiare sul fuoco Mohammed Dahlan, una volta responsabile della sicurezza e oggi aspirante alla poltrona di «signore» di Gaza, con il beneplacito di Israele, Usa, Egitto, Giordania. Quando Arafat ha nominato il parente Moussa Arafat quale responsabile dei vari apparati di intelligence, Dahlan ha scatenato i militanti delle Brigate Al Aqsa (braccio armato del Fatah) e le Brigate Abu Rish. «No al corrotto» è stato lo slogan accompagnato da sequestri lampo e assalti alle caserme della polizia. E così la corruzione è diventata la leva con la quale scardinare il sistema di potere. «Il problema non è Moussa, ma Yasser», dicono i contestatori. «È scontro tra due scuole di pensiero. Da una parte dieci anni di errori della gestione Arafat, dall'altra i tre anni con la pressione israeliana e l'intifada». Adottando il pacchetto di riforme invocato dai donatori e dalla diplomazia, gli avversari del leader chiedono: poteri veri al premier palestinese, unificazione dei 14 servizi di sicurezza, trasparenza nei canti. Ed è dove iniziano i problemi. Arafat può cedere sulle sedie dei ministri - tanto l'ultima parola è sua - però non può fare sconti sui soldi. Lo ha già dimostrato nel corso del 2003 quando gli viene imposta la nomina di un vero ministro delle Finanze, il tecnico Salim Fayad, con alle spalle anni di esperienza al Fondo monetario. Il ministro scopre un buco clamoroso nel budget. Soldi stornati da uomini di fiducia di Arafat e inviati all'estero. Un tesoro di guerra al quale il rais attinge per condizionare la scena politica. Anche i donatori - a cominciare dall'Unione europea che di fatto garantisce gli stipendi dell'Autorità - vogliono vederci chiaro. Indagano, chiedono sistemi chiari come l'uso degli assegni e non il ricorso al contante nel pagamento dei salari. Ma c'è sola questo. Tutti a Gaza come in Cisgiordania si arrangiano. Prebende e tangenti su ogni transazione. Sul premier uscente Abu Ala c'è l'ombra dello scandalo del cemento: gli israeliani costruirebbero il famoso Muro usando il materiale venduto da una sua impresa. Altri fanno i soldi con la benzina. Il «pulito» Dahlan si arricchisce con i «dazi» imposti alle merci che transitano attraverso il punto di frontiera di Karni, tra Israele e Gaza. Con il ricavato paga i «suoi» poliziotti. E scendendo verso il basso c'è il contrabbando nella zona di Rafah, al confine con l'Egitto. Qui è il regno delle Brigate Abu Rish e dei Comitati popolari. Composte da un paio di clan, queste milizie sono coinvolte nella gestione dei tunnel clandestini, scavati sotto la frontiera. Lunghe gallerie dove passa di tutto: fucili, droga, sigarette, prodotti elettronici. Un mitra Kalashnikov trasferito dentro Gaza attraverso una galleria costa circa mille euro (in Giordania lo vendono a 60). La tassa di trasporto di un'arma parte da 250 euro (tariffa base), poi distribuiti tra costruttori del tunnel e gestori. Scavare una galleria può costare tra 8-10 mila euro, a seconda se permette il passaggio di uomini o solo di cose. Dahlan, ovviamente, non si è sognato di toccare questo business anche se è consapevole che è la base di potere dei Comitati, tra i più coraggiosi nell'affrontare i soldati israeliani. Più distaccati, dai traffici e dalla lotta per il potere, i puri di Hamas. Intanto perché non ne hanno bisogno. Per quanto i finanziamenti dal Golfo Persico sì siano rìdottì, il movimento islamico dispone di buone risorse (circa 70 i di dollari), reinvestíte oculatamente nel sociale (asili, ambulatori, scuole). Questa permette ad Hamas dì crìticare i «corrottì» ma di non dipendere da altri. In questa fase il gruppo radicale appare conteso. Arafat ha cercato di attirare Hamas dalla sua parte per usarlo contro Dahlan, protagonista a metà degli anni '90 di una feroce repressione contro gli islamici. E lo stesso «sceriffo» di Gaza ha trasmesso al movimento integralista segnali di non belligeranza. Hamas prefirisce aspettare. Convinta di avere le caratteristiche, necessarie per attirare la popolazione di Gaza. non ruba, ha un percorso politico chiaro, non coltiva le ambizioni personali dei capi. L'esatto contrario dal «corrotto» Arafat e del «moralizzatore» Dahlan. Quest'ultimo spera di essere incoronato re di Gaza. Il primo vuole restare rais fino alla morte e probabilmente anche oltre. Per disinnescare la crisi con il premier Abu Ala ha accettato di affidare il controllo di alcuni servizi di sicurezza all'esecutivo. Lo aveva gìà promesso un anno fa, poi si era rimangiato tutto. In ogni caso può fare concessioni formali, conservando il potere reale. Arafat non cederà mai interamente le sue prerogative - ha scrìtto un commentatore israeliano - perché per lui il potere è l'esistenza stessa. Non avendo mai avuto una vita privata, passare le redini a un altro vorrebbe dire una fine politica e fisica. Un epilogo che prova ad allontanare nel tempo, anche se il buio del suo crepuscolo si sta avvicinando. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla direzione del Corriere della Sera. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.