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La Stampa Rassegna Stampa
02.07.2004 Era meglio prima ?
ritratto nostalgico di un dittatore

Testata: La Stampa
Data: 02 luglio 2004
Pagina: 3
Autore: Igor Man
Titolo: «Saddam, il vecchio leone non si arrende»
All'indomani dell'inzio del processo che lo vede imputato, un ritratto dell'ex despota iracheno cui fanno da cornice nostalgia e ammirazione: un raiss in gabbia che incute timore in chi lo accusa.


Un giornalista televisivo americano, anche bravo, ha deriso Saddam Hussein, comparso ieri per la prima (formale) volta in giudizio, perché alle sue «generalità» scandite frettolosamente in tribunale ha aggiunto, con fiero accento: «... al-Majid (presidente) della Repubblica d’Iraq». Questa orgogliosa puntualizzazione, Saddam la fece anche il giorno della famosa sceneggiata-del-buco quando, barbuto e piuttosto trasandato, un clochard, venne estratto dal sottosuolo del suo improbabile rifugio dagli uomini della Delta Force. «Sono il Presidente dell’Iraq», disse. Solo che quel giorno - lo abbiamo visto tutti in tv - il raiss era giù di corda, umilmente cooperativo nell’indicare a chi lo visitava il molare destro che gli dava fastidio. Ieri, invece vestito con un gessato grigio fresco di stiro, senza cravatta, la barba leggermente sforbiciata, il Tiranno è apparso molto somigliante a se stesso. Vale a dire: altero, ironico, sinanco sprezzante.
Ecco finalmente il Saddam che noi tutti conoscevamo, si compiace Igor Man, il quale era forse rimasto deluso da come il tiranno si era comportato al momento della cattura.
Nell’intento di umiliarlo, i suoi giudici lo han voluto alla sbarra nel palazzo Kitsch dell’Orologio, una sorta di museo dedicato al Dittatore: dall’infanzia all’altroieri. Ma lui, Saddam, non ha fatto una piega, ancorché prima di sedersi su di uno scranno incrostolato d’oro fasullo (in attesa della corte), lo avrebbero sentito lamentarsi della polvere che inzeppava l’ambiente.
Dicevo dell’ironia facile del (bravo) reporter americano: a me sembra normale, giusta la logica di Saddam, ch’egli proclami d’essere il presidente dell’Iraq. Sarebbe grottesco se dicesse di se stesso «il già prima d’ora presidente
Il presidente "democraticamente" eletto dal 100% dei suoi elettori, come prima della guerra spiegava ai microfoni del TG1 una giornalista poi datasi alla politica.

Intimamente lui «è» il Presidente, non fosse altro perché nessuno ha fin qui osato dirgli in faccia che non lo è più. Ieri era l’occasione propizia; il signor Salem Chalabi (parente del discusso Chalabi ex presidente in pectore del «nuovo Iraq» secondo i disegni, ahimé fallaci, dei proconsoli americani), giustappunto il signor Chalabi, magistrato e artefice capo del tribunale speciale che dovrà giudicar Saddam, lui regista del prossimo (?) dibattimento, avrebbe potuto, se non dovuto, richiamare all’ordine il Tiranno «spiegandogli» ch’egli è ormai, semplicemente e puramente un cittadino «come gli altri» per di più accusato di reati spaventosi quali il genocidio.
"avrebbe potuto, se non dovuto" non dare peso a dichiarazioni il cui unico scopo è quello di seminar zizzania, Saddam può affermare di essere il presidente degli Stati Uniti, ma di fatto è un ex dittatore alla sbarra così come lo furono Ceausescu e Milosevic.
Chalabi, questo onnipotente giudice, se ne è guardato bene. Perché Saddam, disarcionato quanto volete, tappato in una cella speciale allestita nella guesthouse dell’aeroporto di Baghdad vigilato senza tregua da americani e neopoliziotti iracheni, i polsi stretti da speciali manette made in Usa ogniqualvolta debba spostarsi (dalla cella all’infermeria, poniamo), questo prigioniero davvero speciale, a ben guardare un relitto di se medesimo, lui, Saddam Hussein fa paura. Meglio: continua a far paura. Quella che incute Saddam è paura fisica bell’e buona. Perché il supremo giudice Salem Chalabi (si veda l’intervista al nostro puntuale Zaccaria a pagina 11 della Stampa di giovedì) impone che lo fotografino soltanto di spalle, che non lo riprendano mai in tv a viso aperto? (E con lui tutti i componenti del collegio giudicante). Semplice: quei galantuomini temono per la loro vita: non tutti gli iracheni sono da classificarsi alla stregua di «nostalgici» ma il Tiranno magari non sarà amato (sempreché lo sia mai stato) tuttavia gode di quel rispetto per noi anomalo ma effettivo che viene ad esempio tributato al mammasantissima della Mafia.
La costruzione di quest'ultimo capoverso appare assai laboriosa. I giudici della corte temono per la propria vita dal momento che molti iracheni temono il deposto dittatore o altri ancora rimangono suoi fedelissimi? Cosa vuol dire Man(zella)? Non è forse che alcuni iracheni potrebbero avere ancora paura di quel mostro che li ha oppressi per vent'anni e quindi essere influenzati dalle sue dichiarazioni?
Un rispetto sui generis, fatto di timore ammirato. Lo stesso timore ammirato che vien fuori dai sondaggi che vedono paurosamente in calo l’azione generosa delle forze alleate (ma spesso, ahimè, pasticciona) e in preoccupante risalita il vecchio regime spietato. «E’ un leone in mezzo alle gazzelle», dicevano di lui i cortigiani. Ma Saddam è stato un leone anche fra i lupi: prima di diventare il raiss senza stati d’animo, drogato dall’autostima, ha dovuto percorrere un lungo cammino impervio.
Così leone fra i lupi che, al momento della cattura, ha deposto le armi senza sparare nemmeno un colpo.
Dopo questo elogio molto fuori luogo, Man(zella) prosegue scrivendo la biografia celebrativa del tiranno.

Quando Saddam nasce, a Tikrit, borgo contadino a 200 km da Baghdad, il 3 di aprile del 1937, l’Iraq è indipendente (e crucciato) da soli cinque anni. Sicché Saddam Al-Tikriti (soltanto più tardi diventerà Hussein) succhia latte e nazionalismo. Cresce male, senza padre. A 8 anni non sa né leggere né scrivere, ma sa usare la pistola, comanda un gruppo di teppistelli. A 20 anni fugge di casa. Lo accoglie, a Baghdad, uno zio antimonarchico. Sarà lui, toccato dall’intelligenza del ragazzo, a convincerlo ad iscriversi al liceo Al-Kharkh di Baghdad, fucina di attivisti antinglesi. Nel 1955 la svolta: si iscrive al Baas, il partito della rinascita araba. Il 14 luglio del 1958, il colonnello Kassem, un gay triste, con un golpe da manuale massacra la famiglia reale hascemita, proclama la repubblica al suono della Marsigliese mentre il popolino smembra i cadaveri della leadership monarchica. Ma Kassem scontenta presto il Baas che decide di eliminarlo. Nel gruppo di fuoco incaricato d’uccidere il colonnello troviamo il giovine Saddam. L’attacco fallisce, Saddam rimane ferito a un piede. Rifugiatosi nella casa d’un compagno, mangiato dalla febbre, chiede un coltello e una candela. Disinfetta la lama alla stearica ed estrae la pallottola.
Vestito da beduino fugge, guadagnando Il Cairo. Tornato a Baghdad finisce in galera; condannato a morte, riesce ad evadere dopo aver strozzato il secondino al quale, raccontano, caverà un occhio «pour souvenir». Allorché ebbi in sorte d’incontrarlo, a Baghdad, nel 1974, era il numero 2 del regime, in verità l’uomo forte. La sua voce villosa recitò le rituali cortesie tipiche d’un incontro non pianificato ed io gli chiesi subito se credesse ancora nel socialismo di Nasser. «Il socialismo arabo è il Baas, opera di Michel Aflak», rispose con garbata irritazione. «Il socialismo di Nasser è segnato dalla contraddizione fra il principio della partecipazione popolare e il principio della "guida cosciente". Per Aflak, al contrario, il popolo è tutto: soggetto e oggetto politico, idea e prassi».
Dopo la rivoluzione a mani nude di Khomeini, un elementare machiavellismo, insieme con la voglia di far buoni affari, spinse l’Occidente ad armare il Nuovo Saladino («Meglio lui che Khomeini»). Giorno dopo giorno Saddam accumula debiti spremendo le petrolmonarchie ma accumula altresì armi. Durante otto anni di guerra avrà spento nel sangue almeno tre golpe e liquidato un numero non quantificabile di oppositori veri e presunti, amici e parenti anche. L’invasione del Kuwait, ch’egli rivendica come «terza provincia irachena», segna la sua decadenza; le sanzioni occidentali, il controllo dell’Onu lo costringono al piccolo sabotaggio politico, alle dichiarazioni bombastiche. Sino all’ultimo non ha creduto (per presunzione, o per rischio mal calcolato) a un intervento americano. La guerra ambiguamente persa lo ha segato ma, paradossalmente, gli errori americani rischiano di riabilitarlo presso la sua gente cui aveva dato un buon «welfare state» e un ottimo sistema scolastico.
Gli iracheni così poco inclini alla democrazia preferirebbero una buona assistenza sociale e un "ottimo sistema scolastico", che li aiuta a non pensare e ad essere assuefatti a ciò che il partito Baas gli ordina, piuttosto che il fragile, ma libero, equilibrio di questi giorni.

Saddam ha commesso delitti orrendi, ha gasato i curdi (cinquemila soltanto in Halabjia) e perseguitato gli sciiti e tuttavia c’è, oggi, chi lo rimpiange. Certo egli ha impiccato «comunisti ed ebrei», lasciando che i loro cadaveri oscillassero per giorni, «affinché le scolaresche vedano ed apprendano». Pur terrorizzando un popolo serio, faticatore, Saddam è riuscito a creare quel che lui stesso definì «un vincolo di sangue» coi suoi disgraziati compatrioti. Ed è questo «vincolo» che sconvolge i sondaggi, che esalta gli irregolari che ieri erano contro di lui e oggi sono contro quelli che han preso il tiranno, umiliandolo. Senza, purtroppo, che il popolo iracheno ne traesse giovamento. Comincia una nuova stagione, in Iraq: così dicono e sperano i nostri alleati. Non vorremmo che si fosse solo all’imbocco d’un tunnel del quale non si intravede l’uscita. Aspettiamo il processo per capire un po’ di più. Ma sarà possibile? Forse fra cinque o dieci anni. Chissà.
Da buon analista politico Man(zella) sembra preferire la pax saddamitica, piuttosto che un futuro incerto e pieno di insidie. E dire che per molti gli americani di Bush sono conservatori...
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