Se l'ecumenismo è un occasione per attaccare Israele il quotidiano della Margherita si dimostra subito interessato
Testata: Europa Data: 30 giugno 2004 Pagina: 4 Autore: Aldo Maria Valli Titolo: «Il dialogo ecumenico per vincere l'odio»
Su Europa di oggi a pagina 4 troviamo una cronaca dell'incontro ecumenico con i cardinali Martini e Tettamanzi svoltosi in questi giorni a Gerusalemme. I temi principali dell'incontro sono stati la situazione dei cristiani in Terra Santa e, in generale, del conflitto tra israeliani e palestinesi. Dall'articolo di Valli, che riporta le dichiarazioni del cardinal Martini, traspare l'idea che le uniche vittime del conflitto siano i palestinesi i quali "soffrono molto a causa dell'occupazione dei territori e della loro legittima aspirazione alla libertà e all'indipendenza". Quell'indipendenza che avrebbero potuto ottenere svariate volte nella storia del conflitto, ma che hanno rifiutato mai riconoscendo a Israele il diritto di esistere. Successivamente, per bocca del cardinal Tettamanzi, viene spiegato che, situazioni come quella del campo profughi di Deheishe, non possono far altro che generare violenza; tutto questo senza ricordare che i campi profughi vengono mantenuti in quelle condizioni da Arafat & co, con la benedizione dell'ONU, per essere usati come arma politica contro Israele. Come al solito il quotidiano della Margherita si dimostra fazioso, facendo leva su dichiarazioni di autorità politiche o religiose. Ecco il pezzo. L’incontro avviene in una sede piuttosto anonima e in una cornice non certo adeguata: un seminterrato del Novotel di Gerusalemme, davanti a un ascensore. Ma per la Chiesa ambrosiana, e non solo, è un momento importante ed emblematico: il cardinale Carlo Maria Martini, che nella città santa ha deciso di vivere, abbraccia il suo successore sulla cattedra di sant’Ambrogio, il cardinale Dionigi Tettamanzi, in mezzo a una piccola folla di pellegrini arrivati da Milano. Fisicamente le differenze fra i due non potrebbero essere più marcate: alto e ieratico Martini, tutt’altro che prestante Tettamanzi. Diversi sono anche nel carattere e nel modo di proporsi (il piemontese Martini, la cui timidezza può essere scambiata per distacco, è sempre un po’ in imbarazzo quando si tratta di manifestare i propri sentimenti; il brianzolo Tettamanzi, spontaneo come un buon parroco, si lascia avvicinare da tutti), ma in questo caso differenze così marcate non fanno che sottolineare l’eccezionalità dell’avvenimento: due epoche della diocesi più grande del mondo si incontrano nella terra di Gesù e da qui lanciano insieme un richiamo al dovere della pace nel segno del dialogo ecumenico. L’iniziativa, inedita, consiste in un cammino di pace e di solidarietà, nei confronti di tutti i popoli della Terra Santa, che vede impegnate undici diverse confessioni cristiane (dai cattolici agli ortodossi, dagli evangelici ai copti) sotto la guida del consiglio delle Chiese cristiane della metropoli lombarda, organismo da tempo attivo sul delicato fronte dell’ecumenismo. L’agenda è ricca di incontri e di testimonianze, otto giorni improntati soprattutto all’ascolto reciproco, con frequenti incursioni nella realtà sociale e politica di questa terra martoriata (come la visita alla Knesset, con esponenti del governo e del parlamento israeliano, e quelle al campo profughi palestinese di Deheishe a Betlemme, o al villaggio della pace Nevè Shalom – Wahat as Salam). Un modo concreto per sottolineare l’importanza della fede religiosa nel costruire rapporti di convivenza pacifica, non di odio. Il cardinale Martini, che dopo più di vent’anni a Milano ha scelto di vivere qui a Gerusalemme per dedicarsi alla preghiera e agli amati studi biblici, spiega così il suo atteggiamento mentale e il suo stato d’animo: «Il mio incontro con Israele è caratterizzato dall’assenza di giudizi e dal primato dell’intercessione. Negli ultimi decenni la situazione di Israele nel quadro dei paesi arabi e soprattutto in relazione ai palestinesi si è fatta così complessa, dolorosa e intricata che anche per un competente sarebbe quasi impossibile dare giudizi spassionati e oggettivi. Io vi rinuncio per principio, perché voglio vivere la mia presenza in Israele soprattutto come intercessione, nel senso etimologico della parola: intercedere, cioè camminare in mezzo, non inclinando né da una parte né dall’altra, pregando ugualmente per tutti, per ottenere grazie di pace e di riconciliazione». Pochi giudizi, molto ascolto. Una filosofia che, tuttavia, non impedisce all’ex arcivescovo di Milano di usare parole taglienti a proposito della realtà palestinese: «L’amore per Israele apre gli occhi anche all’amore per tutte le situazioni presenti qui a Gerusalemme e in questa terra. Anzitutto per le situazioni del popolo palestinese, che soffre molto a causa dell’occupazione dei territori e della sua legittima aspirazione alla libertà e all’indipendenza. È importante pregare perché ottenga tutto ciò senza violenza alcuna. Non possiamo approvare nessuna violenza, di nessuna matrice e di nessun tipo, ma dobbiamo auspicare e sperare perché siano rimosse le cause della violenza». Una denuncia condivisa dal cardinale Tettamanzi, che subito dopo la visita al campo profughi di Deheishe (undicimila abitanti, la maggior parte bambini, costretti in mezzo chilometro quadrato, in condizioni di vita degradanti, una "fabbrica di odio" che ha già prodotto quattro kamikaze) dice senza mezzi termini: «Questo campo profughi è una testimonianza di come può essere violentemente umiliata la dignità delle persone, eppure qui ho incontrato persone fiere della propria dignità umana. Mi tormenta una domanda: è un luogo vivibile questo? È possibile vivere qui da uomini? È un terreno sul quale si può seminare qualche germe di speranza oppure gli unici semi che qui possono cadere sono quelli della disperazione? Sono domande drammatiche perché la disperazione può essere il terreno di coltura della violenza». Incominciato significativamente con la visita allo Yad Vashem, il memoriale della shoah, dove il cardinale Dionigi Tettamanzi si è raccolto in preghiera e ha deposto fiori davanti alla fiamma che arde a ricordo dei milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio, il cammino ecumenico ha dedicato attenzione anche alla difficile situazione dei cristiani di Terra Santa, minoranza sempre più ridotta di numero (nella sola Betlemme negli ultimi tre anni, con la seconda intifada, c’è stato un calo verticale, 2-3 mila cristiani in meno su 120 mila abitanti, secondo le stime dei frati della basilica della Natività) e sempre più esposta alle conseguenze di una crisi economica e occupazionale che sta strangolando molte famiglie. Il parroco della Natività, padre Amjad Sabbara, ha lo sguardo sereno dell’uomo di fede, ma le sue parole non possono nascondere lo sconforto: «Il papa ha detto che la Terra Santa ha bisogno di ponti, non di muri, ma vediamo purtroppo che le risposte prevalenti, di fronte alle difficoltà e ai pericoli, sono dettate dalla paura. Il muro in costruzione anche qui, non lontano da noi, è una risposta di paura, e come tale è destinata a provocare altro odio, altro risentimento. Dobbiamo cambiare questa logica, invertirla, e in questo i cristiani possono avere un ruolo importante». Purché siano messi nelle condizioni di restare. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Europa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.