Tel Aviv patrimonio dell'umanità per le sue architetture moderne
Testata: Il Foglio Data: 25 giugno 2004 Pagina: 7 Autore: Manuel Orazi Titolo: «Il patrimonio di Tel Aviv, covo di gesso disperato»
L'Unesco ha dichiarato la città di Tel Aviv patrimonio dell'umanità, fatto insolito per una città con meno di cento anni di storia alle sue spalle. Ci spiega perchè Manuel Orazi dal Foglio di oggi. Tel Aviv. Un po’ a sorpresa l’Unesco lo scorso anno aveva indicato in Israele un quarto sito considerato patrimonio dell’umanità: dopo le mura di Gerusalemme, la città romana di Masada e il porto di Akko, arrivata la volta di Tel Aviv. La sorpresa sta nel fatto che mai un simile riconoscimento è stato assegnato a una città con meno di un secolo alle spalle, in ragione dell’alta concentrazione di architettura moderna, a torto etichettata come architettura Bauhaus. La mostra curata da Nitza Szmuk che è allo Helena Rubinstein Pavillion for Contemporary Art fino al 7 agosto, spiega l’eccezionalità della vicenda urbana e antropologica della "White City" di Tel Aviv, prima città interamente ebraica della storia: fondata a nord di Jaffa nel 1909, "sulle dune" come recita il titolo del catalogo, Tel Aviv ha conosciuto un’espansione ininterrotta fino alla seconda guerra mondiale che va di pari passo con la crescita della popolazione dello Yishuv, la comunità ebraica in Palestina. Dal 1933 ha inizio la quinta alyyah – salita in Eretz Israel – ondata migratoria degli ebrei dell’Europa centrale: minoranza attiva, colta, dinamica e agiata, "i tedeschi" portano con sé capitali importanti subito investiti nell’industria e nel commercio: va da sé che questo inedito tipo di immigrati, spina dorsale della futura alta borghesia, preferirà risiedere nei grandi centri urbani, soprattutto a Tel Aviv, piuttosto che abbracciare la via sionista per eccellenza del kibbutz. Fra loro c’è anche un gran numero di architetti formatisi nelle principali scuole o negli studi dei grandi nomi dell’avanguardia europea: Ariel Sharon e Munio Gitai- Weinraub (padre del regista Amos) al Bauhaus, Ze’ev Rechter allo studio di Le Corbusier, Joseph Neufeld da Erich Mendelsohn, altri in Belgio, a Parigi, a San Pietroburgo e qualcuno perfino in Italia. Una sala della mostra ricostruisce per la prima volta le biografie degli architetti attivi fra gli anni 30 e 50. Per loro fin dall’inizio la situazione è ideale: volontà politica, afflusso di capitali, incremento demografico, un nuovo piano regolatore dell’urbanista Patrick Geddes appena approvato dal mandato inglese. In pochi anni si costruisce una grande città in maniera piuttosto coerente e razionale nonostante le grandi diversità sociali e la montante conflittualità con il mondo arabo circostante, non ancora palestinese. Candidi volumi di cemento di tre-quattro piani, in blocchi aperti verso ovest e allineati verso nord lungo boulevard fittamente alberati. L’adozione dei criteri dell’architettura del Movimento Moderno apparentemente sembra essere naturale per una nazione che nasce dall’impulso di un movimento internazionalista, il sionismo, e che desidera costruire la propria identità distinguendosi sia dall’architettura araba sia dallo stile coloniale inglese.L’immagine di Tel Aviv si qualifica da allora come città bianca, "covo di gesso disperato" secondo il poeta Meir Wieseltier. Una simile concentrazione di architettura moderna non ha eguali al mondo – il Dipartimento di conservazione del comune diretto fino al 2003 dalla Szmuk ha vincolato ben 1679 edifici –, a testimonianza di circostanze uniche per quegli anni. Fino al Dopoguerra maestri riconosciuti del Movimento Moderno quali Le Corbusier, Mies van der Rohe, Aalto e Terragni poterono costruire solo ai margini delle città d’Europa. Del resto il paradigma dell’architettura moderna, il Weissenhof di Stoccarda del 1927, è appunto un quartiere periferico e "weiss" in tedesco significa "bianco". Paradossalmente, mentre a Tel Aviv "bianco" diveniva sinonimo di europeo se non di tedesco, in un opuscolo nazista il Weissenhof veniva presentato in un fotomontaggio con dei cammelli e deriso come "Araberhof", case per beduini – ironia vuole che siano molte le foto coeve in mostra che vedono la giovane Tel Aviv attraversata da lunghe file di cammelli. Nonostante tutto, la presa di coscienza della cittadinanza e della stampa israeliana sulla città bianca giunge solo ora dopo molti anni di abbandono e incuria. Quando ormai il colore predominante è il grigio e la condizione urbana di Tel Aviv, divenuta metropoli, è radicalmente mutata. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.