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La Stampa Rassegna Stampa
19.06.2004 Arafat al gioco delle tre carte
ma non ci casca più nessuno

Testata: La Stampa
Data: 19 giugno 2004
Pagina: 8
Autore: Landau-Eldar
Titolo: «Arafat:Israele ha il diritto di essere uno stato ebraico»
Alla Stampa sanno benissimo che Ha'aretz appena può lanciare bordate contro il governo Sharon non ci pensa due volte. Arafat, in questo caso, è una carta sempre buona da giocare. Sfiduciato ormai anche nel mondo arabo il rais è fuori da qualunque prospettiva futura. Ma alla Stampa, cone con Ha'aretz condivide l'ossessione Sharon, pubblica l'intervista come se fosse una cosa seria. Il tono ci ricorda Gianni Minà quando intervistava Castro.
Da notare il titolo, nel quale il vecchio volpone accarezza i toni positivi. Peccato che tutti ormai conoscano la sua doppiezza e non ci cvaschi più nessuno.
L'alticolo viene ripreso da altri quotidiani italiani, che arrivano addirittura a parlare di "piccola svolta", dimenticando completamente i giri di valzer del rais sull'argomento.
Riportiamo l'intervista originale di Ha'aretz dal quotidiano torinese per dovere di cronaca.

IL presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Yasser Arafat, ha ricevuto tra le macerie della Muqata, il suo quartier generale a Ramallah, due inviati del quotidiano di Tel Aviv «Haaretz».
Presidente Arafat, come sta?
«Non male».
Ma ha certamente conosciuto giorni migliori. Sono giorni difficili, questi?
«Senza ombra di dubbio».
Nel dibattito attualmente in corso per un assetto definitivo della regione qualcuno dice che lei potrebbe fare un accordo recependo la dichiarazione di Algeri del 1988, che prevedeva i confini del 1967 con Gerusalemme Est, una soluzione al problema dei profughi palestinesi e....
«...e non dimentichi che avevamo detto sì a uno scambio... di territori, purché analoghi "per qualità e quantità"».
Il che ammonta al cento per cento dei territori...
«Sì, ma non dimentichi che questa era la piattaforma della Conferenza di Madrid del 1991».
Se il suo amico, il suo partner nelle trattative di pace, il coraggioso premier Rabin oggi tornasse in vita e le dicesse: amico mio, ti offro quanto previsto dall’Iniziativa di Ginevra, il che significa: cento per cento dei territori, più la soluzione del problema dei profughi, più Gerusalemme, più la Spianata delle Moschee, potremmo dire «mabruk», «congratulazioni»?
«Non dimentichi che a gennaio, alla cerimonia per la firma dell’Iniziativa di Ginevra, ho mandato il mio inviato speciale Manuel Hassassian».
Certo, ma solo per tenere un discorso... Ora gli israeliani vorrebbero sapere se il presidente Arafat è disposto a trovare un accordo sulla base dell’Iniziativa di Ginevra.
«Non c’è dubbio che abbiamo molto apprezzato l’Iniziativa, ma non era un accordo ufficiale».
Torniamo al problema principale, il diritto al ritorno: lei è disposto ad accettare la proposta della Lega Araba, cioè una soluzione giusta e condivisa basata sulla Risoluzione Onu 194?
«I palestinesi, come altri Stati arabi, l’hanno accettata. Come avevano accettato anche le varie iniziative americane, il rapporto Tenet, la missione Zinni, il piano Mitchell...».
Per gli israeliani il problema più spinoso è il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. In Israele la gente teme un afflusso enorme di ex rifugiati. Noi, intendo dire «Haaretz», abbiamo sempre appoggiato il processo di pace. Ma quando a Camp David, o a Taba, l’accordo si ruppe sulla questione profughi...
«No, non è proprio andata così. Lei dovrebbe ricordare che dopo Camp David abbiamo avuto l’accordo di Sharm el Sheikh, dove c’erano Clinton, del presidente egiziano Mubarak, del re giordano Abdullah, il rappresentante Ue Solana e il segretario Onu Annan, oltre alle due delegazioni palestinese e israeliana. Più tardi, prima degli incontri di Taba, siamo andati anche a Parigi, dove c’era Madeleine Albright, allora segretario di Stato americano, Kofi Annan e Javier Solana. Cominciammo le discussioni all’ambasciata americana e le concludemmo nell’ufficio del presidente Chirac».
Ma chi decise di bloccare i colloqui di Taba?
«Gli israeliani. E in ogni caso, non i colloqui ma l’accordo».
Lei non ha in mente una soluzione che tranquillizzi gli israeliani sulla paventata inondazione di profughi?
«Guardi che io questa questione l’ho discussa in lungo e in largo a Camp David con il presidente Clinton e l’allora premier israeliano Barak. Ma ho qui un ritaglio proprio del suo giornale che mostra come il 62 per cento degli immigrati in Israele dall’Unione Sovietica non sono ebree: il 90 per cento è cristiano, il 10 musulmano. Io allora dissi a Clinton: se gli israeliani accettano quel 62 per cento - che adesso è già diventato 70 per cento - perché non possono dare un’opportunità al mio popolo? Soprattutto ai palestinesi che vivono in Libano, in condizioni veramente penose?».
A tutti quanti?
«Non a tutti, solo a chi vive ancora nei campi profughi».
Si dice che lei è disposto a firmare un accordo che le dia tutta la Cisgiordania e il 97 per cento della Striscia di Gaza, con uno scambio di terre per il restante 3 per cento.
«Tra il 97 e il 98 per cento».
Con Gerusalemme Est come capitale e la Spianata delle Moschee sotto la sovranità palestinese... Si dice che lei voglia anche - e soprattutto - un qualche riconoscimento di responsabilità per i profughi del ‘48. Israele è disposta ad ammetterne 20-30 mila. A quanto si dice, lei un accordo del genere lo firmerebbe.
«L’accordo di Oslo stabilisce che i profughi del 1967, se lo desiderano, possono tornare in Palestina».
D’accordo, ma nel nuovo Stato di Palestina.
«Sì, e un comitato formato da Egitto, Giordania, Israele e Palestina controllerà il loro ritorno».
Ma quello sarà il vostro Paese.
«Lei sa che, nonostante quell’accordo, non tutti i profughi sono tornati? Continuano a vivere dov’erano, in Egitto, nel Nord Europa, in Germania. Non torneranno».
Lei sta dicendo che, come non tutti i profughi del ‘67 stanno tornando, così neppure tutti quelli del ‘48 che vivono in Libano vorranno tornare?
«Il presidente Clinton mi chiese quanti sono. Quand’ero in Libano, erano circa 480 mila. Ora saranno meno di 200 mila».
Lei può dire agli israeliani che la sua strategia, il suo obiettivo, non è quello di cambiare gli equilibri demografici e l’essenza israeliana di Stato ebraico? Lei può garantire agli israeliani che non pensa di usare i rifugiati per cambiare l’equilibrio e il carattere dello Stato?
«Io non parlo dei profughi in generale. Io parlo dei profughi in Libano, perché vivono in condizioni spaventose. Senza il nostro aiuto non riuscirebbero a campare».
Perché allora non dice che quei 200 mila palestinesi in Libano sono invitati a ritornare nello Stato di Palestina, in Cisgiordania o a Gaza, e solo un piccolo numero nello Stato ebraico di Israele?
«Noi non stiamo rifiutando a nessun profugo palestinese il ritorno nei territori palestinesi. Ma Clinton e Barak si dissero d’accordo con me che per i rifugiati in Libano occorreva trovare una soluzione».
La soluzione deve però trovare d’accordo Israele.... E lei accetterebbe di dire che questo rientro non cambierà il carattere ebraico di Israele?
«Lo dicemmo già ad Algeri nel 1988 nel Consiglio Nazionale Palestinese, è ovvio e chiaro. Siamo stati d’accordo anche con la Risoluzione Onu 242 e 338. Ma perché i musulmani di Russia hanno diritto a ritornare e i musulmani di Palestina no? Perché i cristiani di Russia possono tornare e i cristiani palestinesi no?».
Ma lei capisce che Israele deve rimanere uno Stato ebraico, vero?
«Certamente. Ho detto agli israeliani che noi l’abbiamo già accettato ufficialmente nel 1988, nel nostro Consiglio Nazionale Palestinese».
Quando si trattò di discutere di Gerusalemme e della Spianata delle Moschee, che sta sopra il nostro Muro del Pianto, il nostro premier Rabin vi promise la sovranità sul vostro luogo santo. E voi che cosa dite agli ebrei che vogliono poter accedere per le loro preghiere al Muro del Pianto?
«Quello che ho accettato a Camp David: Israele manterrà la sovranità sul Muro del Pianto e sul quartiere ebraico, con un passaggio ai luoghi santi sotto il vostro controllo».
Lei è soddisfatto del piano di ritiro da Gaza del premier Sharon? Riuscirà a dimostrare agli israeliani di essere in grado di controllare la Striscia?
«In passato l’abbiamo fatto, e molte bene. Pensi a tutti gli scontri che abbiamo avuto con Hamas e gli altri».
Lei non esiterà, se Israele si ritira, a rischiare l’unità del suo campo, cioè a combattere Hamas?
«Anche Fatah, se viola la legge. Non potrei tacere. Rispetto la mia parola e il mio ruolo».
Allora perché, dopo lo scoppio di questa seconda Intifada, non ha dato ai suoi l’ordine di fermarsi?
«L’ho dato, l’ho dato».
Perché il premier Arafat è convinto dell’impossibilità di trattare con lei?
«Non capisco. Di fatto, abbiamo trattato molte volte insieme, nonostante la retorica dell’impossibilità. Sono stato io a firmare gli accordi di Oslo e ad aver negoziato a Camp David. Finché vivrò, sarò l’unico con cui trattare».

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