Informazioni e analisi su Medio Oriente, Onu, Emergency e Philip Roth sul quotidiano di Giuliano Ferrara
Testata: Il Foglio Data: 18 giugno 2004 Pagina: 1 Autore: la redazione-Christian Rocca Titolo: «Cinque articoli dal Foglio»
Il Foglio conferma di essere una miniera di informazioni e analisi interessanti; nell'edizione di oggi infatti troviamo 5 articoli, apparentemente slegati tra di loro, le cui conclusioni vanno però nalla stessa direzione. Il primo che pubblichiamo è quello che riguarda più direttamente Israele ,in quanto si tratta di una cronaca delle ragioni del mancato incontro tra Mubarak e Abu Ala, i quali dovevano discutere del futuro di Gaza. Il Cairo. Ci sono "ragioni ignote" dietro al mancato incontro, ieri al Cairo, tra Abu Ala e Hosni Mubarak. Il premier palestinese era già in Egitto quando il summit saltato, così si è accontentato di incontrare il consigliere presidenziale, Osama el Baz, il capo dell’intelligence, Omar Suleiman, il segretario della Lega araba, Amr Moussa. Si è creato un giallo mediatico sulle ragioni che hanno impedito al presidente egiziano di partecipare alle discussioni con il premier palestinese, che avrebbero dovuto focalizzarsi sul ruolo dell’Egitto nel piano di ritiro unilaterale d’Israele dalla striscia di Gaza. Nei giorni scorsi le voci sulla salute del raìs egiziano non erano positive. Ma il mistero riguarda anche la propagazione di questi rumors: un’agenzia di stampa occidentale avrebbe ricevuto un fax dal Centro di studi storici al Maqrizi di Londra, diretto da Hani al Sebai, un egiziano con tendenze islamiste, con la notizia delle gravissime condizioni di salute del presidente, che sarebbe stato ricoverato in ospedale (il sito Debka è ancora più pessimista). Molti siti arabi e israeliani riportano comunque l’ipotesi dei problemi di salute del raìs alla base del mancato summit con Abu Ala. Il Jerusalem Post invece scrive che Mubarak non avrebbe voluto incontrare di proposito il premier dell’Anp perché i palestinesi non avrebbero accettato di avviare le riforme richieste dall’Egitto. Abu Ala avrebbe però dichiarato ai reporter della Reuters che nessun incontro con il rais egiziano era previsto per ieri, ma bensì per oggi. La televisione cariota ha mandato invece in onda, per smentire le voci, l’incontro di Mubarak con il ministro della Difesa egiziano Mohammed Hussein Tantawi. La questione della successione si fa comunque più pressante per l’Egitto. L’ultima volta che il presidente era sentito male, in diretta tv, il traffico del Cairo era andato in tilt, le auto si erano fermate e gli autisti erano scesi in mezzo alla strada per raggiungere i caffè dove le televisioni erano in attesa di notizie sulle condizioni del raìs. Mubarak non ha mai nominato un vice dal giorno in cui prese il potere, nel 1981, succedendo ad Anwar el Sadat in qualità di suo numero due; in molti pensano che non l’abbia fatto per lasciare l’incarico libero per il figlio minore, Gamal, che da uomo d’affari si è recentemente esposto in politica, nel partito paterno, e che si è presentato come il simbolo di una "riforma giovane" del sistema politico. Ma la famiglia smentisce. Si cerca un possibile successore più nell’ombra, dove agiscono di solito i numeri due, spesso sconosciuti ma potenti. Il consigliere presidenziale Osama el Baz, che per anni si è occupato del dossier palestinese, è in lista, ma il vero indiziato è il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman. I problemi in Egitto (e nell’area) li risolve lui, e non è cosa da poco. Ha portato Mubarak in Sudan dopo 14 anni d’assenza, è lui che negozia con israeliani e palestinesi e c’è il suo lavoro dietro al ruolo che l’Egitto avrà nel piano di disimpegno israeliano. Nei mesi passati, Suleiman è apparso sempre più frequentemente accanto al presidente in incontri ufficiali. Il capo delle Forze armate, Magdi Hatata, è un altro dei leader in ascesa, un uomo dell’esercito, come tutti i presidenti egiziani finora. Hatata ha ottimi contatti a livello internazionale, è infatti stato a capo di numerose delegazioni ufficiali. Ma il più popolare fra i "candidati" è il segretario della Lega araba, Amr Moussa, che piace ai connazionali, ma non troppo ad altri. Voci circolate all’Onu raccontano che l’Arabia Saudita e altri paesi arabi avrebbero recentemente cercato di provocare le dimissioni di Moussa, intenzione non portata a termine proprio a causa delle condizioni di salute del raìs egiziano. Pungente ma rivelatore è l'articolo dal titolo "Se questa è un'Onu" dove in poche righe si sottolineano l'inefficacia e l'irresponsbilità della politica di Annan, fondata sul rifiuto dell'assunzione di qualsiasi rischio e sulla pratica sistematica dell'omissione di soccorso.
Kofi Annan ha proclamato la totale impotenza, l’inutilità e anche la pavidità dell’Onu. Dopo gli ultimi attentati di Baghdad ha infatti dichiarato: "L’Iraq è un paese troppo pericoloso perché le Nazioni Unite possano aprirvi una rappresentanza". Sintesi efficace di una concezione del ruolo delle Nazioni Unite racchiusa nel nuovo motto: l’Onu non va là dove i suoi dirigenti rischiano la pelle. Parole irresponsabili, pronunciate per di più da chi siede sulla poltrona che fu di Dag Hammarskjold, ucciso durante la guerra civile in Congo negli anni Sessanta; da chi – per sua ammissione nulla fece per evitare il genocidio in Ruanda; dal corresponsabile del disastro della missione in Somalia; da chi affidò la vita di Sergio Viera de Mello, suo rappresentante in Iraq, a un apparato di sicurezza interno all’Onu che un’inchiesta ha definito "scandaloso". L’Onu versione Annan servesoltanto come studio notarile per mediare protocolli diplomatici. Quanto agli iracheni, che hanno un bisogno drammatico quanto evidente della presenza fisica, della bandiera, della sede dell’Onu, quale simbolo della legalità internazionale contro il terrorismo… che si arrangino. Che se ne prenda atto e si scelga tra l’unilateralismo di George W. Bush e quello di Kofi Annan, l’ignavo. A pagina tre troviamo un'articolo che smentisce l'opinione diffusa da giornali e TV secondo cui non c'era alcun legame tra Saddam e Al Qaida. La commissione d'inchiesta sull'11 settembre ha infatti stabilito che Saddam non partecipò direttamente alla strage delle Torri Gemelle, tuttavia, come è ben spiegato nell'articolo, tra Saddam e Bin Laden c'era sia unità di intenti che collaborazione effettiva. Milano. La guerra in Iraq è una tappa della campagna antiterroristica elaborata da George W. Bush per rispondere alla guerra dichiarata da Osama bin Laden con la fatwa del 1998 e con gli attacchi dell’11 settembre. Saddam era il dittatore che violava da dodici anni sedici risoluzioni dell’Onu sulle armi di distruzione di massa, che finanziava i kamikaze palestinesi, che ospitava terroristi internazionali come Abu Nidal e Abu Abbas, che minacciava i vicini, che nel 1993 a Kuwait City aveva organizzato un attentato contro Bush senior, che ogni tre giorni battagliava nei cieli iracheni con l’aviazione anglo-americana, che condivideva il medesimo progetto politico di Osama, cioè conquistare il mondo arabo, colpire gli americani, distruggere Israele. La destituzione di Saddam aveva l’obiettivo di ridisegnare il medio oriente e fare dell’Iraq un modello di convivenza civile e di governo rappresentativo diverso rispetto a quello delle dittature corrotte e inefficienti della regione. Serviva anche per dare un segnale ai regimi ambigui verso il terrorismo. Bush e Blair non hanno mai mancato di spiegare tutto ciò, anche se hanno scelto di dare più peso mediatico alle altre due giustificazioni, cioè al pericolo delle armi di sterminio e alla possibilità che queste potessero essere cedute ai terroristi. Blair ha aggiunto anche il "moral case", la ragione morale dell’intervento contro il regime genocida del suo stesso popolo. Salvo nebulose segnalazioni di un incontro a Praga, mai provato, tra Mohammed Atta e i servizi iracheni, nessuno ha mai sostenuto che si faceva la guerra in Iraq perché Saddam era implicato nell’attacco alle Torri gemelle. Lo ha confermato ieri George Bush. Lo ha confermato ieri il governo inglese. Eppure ieri i titoli dei giornali lasciavano invece intendere il contrario. Lasciavano intendere, soprattutto, che il Congresso americano avesse istituito una commissione per trovare la prova, la smoking gun, dei rapporti tra l’Iraq e al Qaida e che avesse concluso definitivamente e inconfutabilmente che no, non ci sono mai stati rapporti tra Saddam e Osama né ci potevano essere visto che l’uno era laico e l’altro religioso. Non è così. La commissione indagava sugli attacchi terroristici del 2001 e sul fallimento dell’intelligence americana. Ha ricostruito la genesi di al Qaida, rintracciato le fonti di finanziamento, svelato quale fosse il piano originale, valutato la risposta e l’impreparazione dei servizi di difesa. I tre rapporti della commissione, che peraltro non sono definitivi, dedicano soltanto 12 righe alla connessione tra Saddam e bin Laden, solo 12 righe proprio perché non erano l’obiettivo dell’inchiesta. La commissione non ha negato i rapporti tra Saddam e al Qaida, li ha confermati. Le 12 righe cominciano così: "Bin Laden ha anche sondato la possibilità di una cooperazione con l’Iraq quando risiedeva in Sudan". Continua la relazione: "Per proteggere i propri legami con l’Iraq, i sudanesi (…) organizzarono contatti tra Iraq e al Qaida. Un alto ufficiale dei servizi iracheni è andato tre volte in Sudan, e ha incontrato Osama nel 1994. Bin Laden ha chiesto spazi per campi di addestramento e assistenza per la fornitura di armi, ma apparentemente l’Iraq non ha mai risposto". Ancora: "I contatti tra al Qaida e Iraq proseguirono anche quando bin Laden tornò in Afghanistan, ma non sembra che abbiano portato a una relazione collaborativa". La Commissione, dunque, come Bush, "non ha prove credibili che l’Iraq e al Qaida abbiano cooperato negli attacchi contro l’America". Ha le prove, invece, che incontri e rapporti e scambi di intelligence ci siano stati. Ci sarebbero mille altri indizi, inchieste dei grandi giornali liberal, compreso il New Yorker, per esempio sul ruolo di Zarqawi, fino alla connessione suggerita da un fresco libro di Stephen Hayes. Ma il documento ufficiale più probante resta quello che nel 1998 scrisse il dipartimento della Giustizia di Bill Clinton per mettere sotto inchiesta Osama: "Al Qaida ha raggiunto un accordo con l’Iraq per non operare contro quel governo, mentre su progetti particolari, che specificatamente includono lo sviluppo di armi, al Qaida lavorerà in modo cooperativo con il governo dell’Iraq". Sempre a pagina tre troviamo un editoriale dal titolo "Prove perse per Strada" dove vengono messi in luce gli intenti politico-propagandistici del pacifismo ostentato di Gino Strada.
Gino Strada, dopo aver affermato e poi fatto smentire dalla sua stessa organizzazione di disporre delle prove del "riscatto" pagato per la liberazione degli ostaggi italiani, ora fa la vittima. Il responsabile della Croce Rossa Maurizio Scelli, dice, ci ha diffamati. Ma sugli ostaggi sa solo che non meglio identificati "informatori iracheni" hanno parlato della "possibilità" di un riscatto. Aver sentito dire di un’ipotesi non sembra proprio una prova, anzi neppure un indizio. Ricorda la deposizione di un giornalista di grido al processo a Giulio Andreotti, che, alla domanda su che prove avesse del coinvolgimento dell’uomo politico nella mafia, rispose che lo sapevano anche i sassi", ricevendo dal giudice la gelida risposta che "i sassi non testimoniano in processo". Di prove del pagamento, dunque, non ce n’è. Viene da domandarsi, allora, quale sia la ragione che ha indotto Gino Strada ad avanzarne così clamorosamente il sospetto (ammantato da certezza). L’intento propagandistico, lo stesso che lo aveva portato ad aggirarsi senza risultati per Baghdad, è evidente, ma non spiega tutto. L’idea di accreditare un’immagine "umanitaria" dei sequestratori, di cui Strada sembra dimenticare che hanno assassinato sangue freddo un ostaggio disarmato, va al di là dell’ossessione propagandistica. E’ la conseguenza di una scelta campo – i terroristi iracheni sono le vittime, le forze della coalizione sono carnefici, anche quando liberano ostaggi civili – che rasenta il fanatismo. In questa visione allucinata, il vero crimine vergognoso sarebbe il pagamento di un riscatto (che peraltro risulta solo ai suoi "informatori"), non il sequestro e l’assassinio di civili. Diffamare una posizione del genere è impossibile, perché è inutile, si diffama da sé. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con le opinioni ultrapacifiste, con la contrarietà alla politica americana, ovviamente discutibili ma che hanno legittimità in un confronto democratico. Confina più o meno consapevolmente con l’apologia del terrore, che non è certo "umanitario". A pagina due dell'inserto Christian Rocca anticipa i contenuti del nuovo romanzo di Philip Roth dove l'autore immagina che Lindbergh, il famoso aviatore candidatosi presidente, nonchè bieco antisemita, diventi presidente degli Stati Uniti e, alleatosi con Hitler, collabori alla soluzione finale. L'idea antisemita di Lindbergh poggiava sulla tesi che la guerra alla Germania nazista fosse dettata dalle esigenze della "potente lobby ebraica"; a tutt'oggi l'idea che la guerra in Iraq sia stata fatta per gli interessi dei neocon ebrei trova ampio consenso. Un libro (uscirà in autunno negli USA) che possiamo definire attuale. Philip Roth ha scritto un nuovo libro. Uscirà negli Stati Uniti il 6 ottobre col titolo "The Plot against America", la congiura contro l’America. E’ un romanzo che racconta personaggi reali e un intreccio di fatti inventati, veri e verosimili ambientati negli anni Quaranta, sul modello di uno dei suoi capolavori, "Operazione Shylock", il libro con cui Roth ha affrontato con fiction mista a realtà la questione israelo-palestinese. "The Plot against America" è un libro che spiega anche l’oggi, le campagne antisemite odierne e una certa tendenza occidentale di accusare sempre gli ebrei per mali del mondo. E’ la storia di Charles Lindbergh, il famoso aviatore che guidò il gruppo parafascista e antisemita America First, il cui obiettivo era quello di non far entrare gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, la guerra per gli ebrei. Fin qui è tutto vero. Roth però immagina che Lindbergh si sia candidato alle elezioni presidenziali americane e che le abbia vinte battendo Franklin Delano Roosevelt. Poco dopo l’insediamento alla Casa Bianca, il presidente Lindbergh firma un patto di non belligeranza con Adolf Hitler, consentendo al Reich di conquistare l’Europa col consenso implicito del gigante americano. Sul fronte interno il presidente Lindbergh avvia una campagna di rieducazione degli ebrei americani che si concretizza con la deportazione dalle città alle campagne fino a una soluzione finale american way. Roth ambienta su questo sfondo di storia fatta con il se l’epopea della sua famiglia, i Roth di Newark, raccontata attraverso gli occhi del piccolo Philip di anni nove. Il libro è stato annunciato dalla casa editrice Houghton Mifflin e da una breve segnalazione sull’inserto "Arte" del New York Times che però ha provocato una puntigliosa lettera di rettifica dello stesso Roth. Il Foglio non ha letto il libro ma da questo botta e risposta tra il New York Times e Roth si può cogliere l’essenza e l’attualità del romanzo. Il New York Times aveva scritto che il Lindbergh romanzato da Roth, nel corso di un discorso radiofonico, accusa gli ebrei di voler spingere l’America verso una guerra senza senso, se non quello del mero interesse ebraico, contro la Germania nazista. Roth ha preso carta e penna e il 5 marzo ha scritto una letterina al New York Times: "In realtà il vero Charles Lindbergh ha esattamente detto questo". Roth ha riportato un brano di un famoso comizio di Lindbergh a Des Moines nel quale diceva che "nessuna persona onesta può guardare alle politiche pro guerra degli ebrei senza vedere i pericoli insiti in questa politica sia per loro sia per noi". Lindbergh sosteneva che gli ebrei americani si battevano per i loro interessi, che questi erano opposti a quelli dell’America: "Non possiamo permettere che le passioni naturali e i pregiudizi di altri popoli conducano il nostro paese alla distruzione". Allora come oggi si tratta della stessa tesi di un paese minacciato dall’influente lobby ebraica, dalla cabala neocon che avrebbe dirottato la politica estera americana per servire interessi sionisti. A raccontare tutto ciò, mercoledì sul New York Observer, è stato Ron Rosenbaum, raffinato scrittore, critico letterario autore di una splendida inchiesta, "Il mistero Hitler". Rosenbaum è uno dei pochi ad aver letto il libro di Roth e, pur non rivelando quasi nulla, sostiene che il romanzo riaprirà un salutare dibattito storico sulle reali colpe di Lindbergh e sul ruolo che il suo antisemitismo ha giocato nella volontà di diventare il tirapiedi di Hitler. Per Rosenbaum "The Plot against America" è un monito sulla reale pericolosità dell’antisemitismo, come quello che viene fuori dal personaggio di "Operazione Shylock" che si batte per convincere gli ebrei a lasciare Israele per evitare un Secondo Olocausto in medio oriente.
11 settembre 1941
I riferimenti alla situazione che viviamo oggi sono evidenti. C’è sempre qualcuno, scrive Rosenbaum, che mette in guardia su "una sinistra cabala di ebrei americani". Lindbergh per esempio diceva che " gruppi ebraici di questo paese, invece che agitarsi per la guerra, dovrebbero opporvisi in ogni modo possibile, viceversa sarebbero i primi a pagarne le conseguenze. Secondo Rosenbaum, la lezione di Lindbergh è questa: "Piuttosto che protestare, agli ebrei conviene stare zitti di fronte ad altri ebrei massacrati perché, se protestano, saranno massacrati anche loro". La colpa è sempre di una qualche lobby ebraica, ci si convince che basta metterla tacere e il mondo non avrebbe più riflessi guerrafondai. Diceva Lindbergh: "Il pericolo più grande per questo paese sta nell’ampio potere e nell’influenza degli ebrei nel nostro cinema, nella nostra stampa, nella nostra radio, nel nostro governo". Oggi si dice che se non ci fossero stati gli ideologhi ebrei neocon, Bush non avrebbe liberato l’Iraq. Il libro di Roth, come già Pastorale Americana" e "Ho sposato un comunista", aiuta a riflettere. Allora l’America riuscì a non sposarsi con quel fascista di Lindbergh. Poteva capitare, però. Per evitarlo in futuro, Roth pubblica in appendice il discorso di Lindbergh a Des Moines. La data non è una qualunque. L’anno è il 1941. Il mese è settembre. Il giorno è l’undici. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.