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La Stampa Rassegna Stampa
14.06.2004 L'opinione di A.B.Yehoshua sul ritiro dai territori
un'analisi profonda e accurata

Testata: La Stampa
Data: 14 giugno 2004
Pagina: 11
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Il ritiro non è cedimento, la nazione ne uscirà rafforzata»
Su La Stampa del 13-6-04 viene pubblicato un intervento di Abraham B. Yehoshua sulle conseguenze per Israele del ritiro da Gaza dal punto di vista dell'identità nazionale. Un'analisi chiara ed accurata che mette in luce numerosi aspetti.Un articolo importante per la posizione che esprime. Da leggere.


Ultimamente abbiamo assistito in Israele ad un paio d'eventi all'apparenza contrastanti ma che ad un esame più attento risultano chiaramente derivanti dalla stessa radice.
Nel giorno dedicato alla memoria dei caduti, durante il minuto di silenzio osservato dai passanti al suono della sirena, sono apparsi sugli schermi televisivi alcuni ebrei ultraortodossi che, anziché fermarsi in raccoglimento, hanno continuato a camminare in modo ostentato.
Il loro rifiuto di mostrare rispetto per chi ha sacrificato la vita per la patria non deriva da un disprezzo nei confronti di quei morti o da un disconoscimento del loro coraggio, ma dal desiderio di esprimere simbolicamente la seguente posizione di fondo: non sarà lo stato a dettarci riti e codici di comportamento ma solo la Torà di Israele. E poiché il minuto di silenzio in ricordo dei caduti non è prescritto da alcun codice o rito religioso, noi non lo rispetteremo. Piangeremo i morti secondo le nostre usanze e i nostri costumi e continueremo a camminare, perché l'unica legge che accettiamo è quella della Torà.
Alcuni giorni dopo questo episodio una folla di coloni religiosi ha tentato di impedire all'esercito di distruggere un edificio disabitato eretto su una collina isolata della Samaria. Con grande determinazione i dimostranti hanno alzato la bandiera nazionale e rifiutato di muoversi, esprimendo così la loro profonda identificazione con ciò che essi ritengono il simbolo fondamentale della nazione: il territorio.
Due episodi all'apparenza contrastanti: da un lato il rifiuto di prendere parte ad un rito collettivo nazionale in ricordo dei caduti, dall'altro l'espressione di un nazionalismo bruciante, imperniato su un tema classico - la sacralità del territorio come valore supremo.
E noi rimaniamo perplessi: entrambi quei gruppi sono composti da persone religiose, osservanti. Entrambi credono negli stessi principi religiosi. Com'è possibile che dalla stessa Bibbia, dagli stessi scritti talmudici e della Mishnà, dalle medesime preghiere e dalle medesime regole possano derivare posizioni così antitetiche, così contrapposte, non riguardo a diatribe politiche ma a temi fondamentali, importanti e cardinali per la nazione.
Poi, riflettendo meglio, scopriamo che esiste un chiaro legame tra la posizione antinazionalista degli ultraortodossi e quella ultranazionalista dei religiosi più moderati, che pure si configura come massima espressione di pathos nazionalista. Entrambe sono fondate sullo stesso principio: Israele esiste solo nella Torà, ovvero nel suo credo. Di fatto, però, ciascuno dei due gruppi interpreta quel credo a modo proprio, secondo le proprie aspirazioni. In altre parole: il sentimento nazionalista non ha alcun valore né significato se non è letto in chiave religiosa, interpretato secondo le leggi della Torà. Ma chi stabilisce cosa è importante e cosa è secondario nelle leggi della Torà? Noi e i nostri rabbini. E se la Samaria, la Giudea e la striscia di Gaza vengono da noi investite di un'aura di sacralità religiosa ecco che il tradimento nei confronti di quei territori non sarà di ordine politico ma religioso, un vero e proprio peccato, come per un ultraortodosso osservare un minuto di silenzio in onore dei caduti.
Contrapposizioni e scontri tra codici nazionali e religiosi sono sempre esistiti nel corso della storia umana ma altri popoli non hanno mai sostenuto che si fosse francesi, inglesi, turchi o giapponesi solo in virtù dell'essere cattolici, protestanti, musulmani e buddhisti. E questo per il semplice motivo che francesi, inglesi, turchi e giapponesi sanno che vi sono cattolici, protestanti, musulmani e buddhisti che non appartengono alla loro nazionalità ma ad altre. La religione quindi, per quanto a loro cara e importante, non può definire la loro nazionalità e i doveri che essa comporta.
Tuttavia, poiché la religione ebraica si applica solo al popolo ebreo e s'identifica completamente con esso, ecco che l'affermazione «Israele esiste solo nella Torà», diviene per un uomo di fede un principio d'azione secondo il quale la religione ha la precedenza assoluta su ogni schema nazionale che possa contraddirla.
Non esiste però un'unica chiave d'interpretazione della Bibbia così come non vi è un'unica autorità concordata (analoga alla figura del Papa) che stabilisca dogmi accettati da tutti. Ognuno può leggere i testi sacri in base alla propria concezione del mondo e ai propri interessi politici, economici e ideologici. Non possiamo pertanto meravigliarci di essere condannati a vivere un costante e aspro conflitto tra religione e nazionalità, con un'intensità irreperibile presso altri popoli.
Alla vigilia della distruzione del secondo Tempio il rabbino Yochanan Ben Zakkay fuggì da una Gerusalemme sconvolta da lotte fratricide tra integralisti religiosi che fantasticavano di un piano messianico per sconfiggere la potenza di Roma e nazionalisti sadducei che volevano evitare la ribellione. Nella città di Yavneh egli pose le basi per una «dottrina della diaspora», ovvero la creazione di un meccanismo spirituale che avrebbe permesso agli ebrei di mantenere la propria identità ovunque essi si trovassero grazie ad un «tempio itinerante» che permetteva loro di sfuggire ad una realtà ebraica minata da quel conflitto. Purtroppo questo «espediente di sopravvivenza» fu anche fonte di tragedia, e da Yavneh e i suoi saggi si giunse all'inferno della Shoà.
Da qui il nostro proclama: mai più. La Gerusalemme nazionale deve trionfare su quella religiosa in tutte le sue sfumature e interpretazioni. Quando vedo un ebreo ultraortodosso camminare davanti alle telecamere mentre nell'aria risuona la sirena in ricordo dei caduti e persone affrante sono ferme in silenzioso raccoglimento, capisco quanto è profonda e radicata nel suo cuore la «Torà d'Israele». Costui, pur di rimanere fedele alla propria interpretazione della Torà, è pronto ad esporsi all'odio e al disprezzo di chi lo osserva e a profanare brutalmente un solenne rito nazionale.
Quando vedo centinaia di coloni, uomini e donne di fede, aggrapparsi alle pietre di una collina sperduta per evitare che un unico edificio disabitato venga abbattuto, capisco che l'impulso ad un simile comportamento non è razionale o nazionalista ma eminentemente religioso. E poiché sulla questione dell'evacuazione degli insediamenti quei seguaci della «Torà d'Israele» non ingaggeranno una lotta solo in difesa di un principio e di un precetto ma anche delle proprie case, dei propri interessi economici e politici e di una loro ampia visione storico-filosofica, essi si attiveranno con tutto l'impeto della loro fede giacché «Israele esiste solo nella Torà».
Molti popoli hanno vissuto violenti conflitti interni da cui è scaturita e si è rinsaldata la loro identità. Lo scontro che ci attende non sarà tra il piano di disimpegno di Sharon e il sogno di un'Israele comprendente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza; non riguarderà l'interrogativo se il terrorismo verrà vinto proseguendo e intensificando l'occupazione dei territori o, al contrario, con un ritiro. Il vero scontro sarà tra nazionalità e religione e riguarderà la totale e assoluta supremazia della prima sulla seconda.
Israele esiste solo in quanto nazione e la linea d'azione dello stato ebraico verrà decisa unicamente dalla maggioranza dei suoi cittadini.
Quindi, anziché fuggire a Londra, Parigi, New York o Los Angeles nascosti in una bara come Yochanan Ben Zakkay e cercare laggiù una Yavneh spirituale mediante l'assimilazione e una probabile riduzione numerica, faremmo bene a rimanere in una Gerusalemme ebraica e nazionale a combattere con forza e determinazione contro chi rifiuta di accettare le decisioni della maggioranza.
Sono pronto a credere con tutto il cuore che nessuno dei coloni alzerà mai una mano contro un soldato israeliano, così come sostengono i loro leader.
Non sono però sicuro che nel momento in cui verrà dato l'ordine di evacuare gli insediamenti questi ultimi avranno il pieno controllo della situazione. Quanto più la maggioranza dei cittadini temerà quelle frange ribelli tanto più lo scontro sarà duro e complesso. Di conseguenza, affinché l'evacuazione non avvenga in modo traumatico - sia per chi dovrà eseguirla che per chi verrà evacuato - ci dovremo mostrare decisi e sicuri, come se ci approntassimo a un urgente intervento chirurgico. E oltre a pagare un giusto indennizzo agli evacuati e a mostrare comprensione per il loro dolore, sarà necessario chiamare a raccolta, come in caso di guerra, tutte le forze nazionali.
Con il presente processo di disimpegno Israele non mira soltanto ad una possibile calma e ad una coesistenza pacifica con i suoi vicini ma anche ad un consolidamento della propria sovranità nazionale.

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