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Il Foglio Rassegna Stampa
09.06.2004 Reagan: sconfisse l'impero del male
con gli stati canaglia si può rifare

Testata: Il Foglio
Data: 09 giugno 2004
Pagina: 3
Autore: Dinesh D’Souza
Titolo: «La rivoluzione russa (come Reagan vinse la Guerra fredda)»
Questo articolo di Dinesh D’Souza è apparso nel 1997 su National Review ed è un adattamento del libro "Ronald Reagan: how an ordinary man became an extraordinary leader".

Dieci anni fa Ronald Reagan, di fronte alla Porta di Brandeburgo, disse: "Segretario generale Gorbaciov, se davvero volete la pace, la prosperità per l’Unione Sovietica e l’Europa orientale, e la liberalizzazione, venite davanti a questa porta. Aprite questa porta, signor Gorbaciov! Buttate giù questo muro!". Non molto tempo dopo, il muro crollò a pezzi e uno dei più
formidabili imperi della storia collassò così rapidamente che, per dirlo con le parole di Vaclav Havel, "non ci fu nemmeno il tempo per stupirsi". Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, l’esperimento politico e sociale più
ambizioso dell’età moderna si concluse in un fallimento, e terminò il supremo dramma politico del XX secolo: il conflitto tra il libero occidente e l’est totalitario. Quello che risulterà probabilmente il più importante evento storico dei nostri tempi è già avvenuto.
Considerando tutto questo, viene naturale domandarsi che cosa abbia provocato
la distruzione del comunismo sovietico. Eppure, stranamente, è un argomento che nessuno sembra disposto a discutere. Questa riluttanza è particolarmente forte tra gli intellettuali. Pensiamo soltanto a cosa accadde il 4 giugno 1990, quando Mikhail Gorbaciov parlò davanti agli studenti e ai professori della Stanford University. La Guerra fredda era finita, disse, e il pubblico applaudì con grande senso di sollievo.
Poi Gorbaciov aggiunse: "E non mettiamoci a discutere su chi l’abbia vinta". A questo punto il pubblico si alzò in piedi. Partì un applauso scrosciante.
Era comprensibile che Gorbaciov volesse evitare questo argomento. Ma per quale
motivo anche gli evidenti vincitori della Guerra fredda erano altrettanto refrattari a celebrare la loro vittoria o ad analizzare come era stata ottenuta? Forse la ragione è semplicemente questa: sull’Unione Sovietica,
praticamente tutti si sbagliavano. Le colombe e i sostenitori dell’appeasement
non avevano capito assolutamente nulla. Per esempio, nel 1983, quando Reagan definì l’Unione Sovietica un "impero del male", Anthony Lewis, giornalista del
New York Times, era così indignato che setacciò tutto il suo repertorio lessicale in cerca dell’aggettivo più appropriato: "semplicistico", "settario", "pericoloso", "oltraggioso".
Alla fine scelse "primitivo: la sola parola adatta". Alla metà degli anni Ottanta, Strobe Talbott, allora giornalista del Time e successivamente funzionario del Dipartimento di Stato nell’Amministrazione Clinton, scrisse: "Reagan conta sulla supremazia tecnologica ed economica americana per vincere", quando invece "l’Unione Sovietica aveva imparato a convivere con una crisi permanente ed istituzionalizzata". La storica Barbara Tuchman sostenne che invece di impiegare una politica di scontro, l’occidente doveva ingraziarsi l’Unione Sovietica usando la "tattica del tacchino ripieno: vale a dire, fornirle tutto il grano e i beni di consumo di cui ha bisogno". Se Reagan avesse seguito questo consiglio nel 1982, oggi l’Impero Sovietico sarebbe
probabilmente ancora vivo. I falchi e gli anticomunisti comprendevano molto meglio la natura del totalitarismo, e comprendevano la necessità di una politica di riarmo come deterrente all’aggressione sovietica. Ma credevano anche
che il comunismo sovietico fosse un avversario permanente e praticamente indistruttibile.
Questo lugubre pessimismo di sapore spengleriano risuona nelle famose parole pronunciate nel 1948 da Whittaker Chambers di fronte al comitato per le attività
antiamericane quando disse che, abbandonando il comunismo, "stava lasciando
lo schieramento vincente per passare in quello dei perdenti". I falchi non avevano neppure capito quali passi fossero necessari per determinare il definitivo smantellamento dell’impero sovietico. Durante gli anni del suo secondo mandato, quando Reagan appoggiò gli sforzi riformistici di Gorbaciov e sottoscrisse accordi per la riduzione degli armamenti, molti conservatori denunciarono il suo apparente cambio di rotta. "Ignorante e patetico": con queste parole Charles Krauthammer definì il comportamento di Reagan. William F. Buckley Jr. raccomandò a Reagan di riconsiderare il suo giudizio sul regime di Gorbaciov: "Salutarlo come se non fosse più l’impero del male è la stessa cosa che cambiare la nostra opinione su Adolf Hitler". George Will si lamentò che Reagan avesse "accelerato il disarmo morale dell’occidente elevando i pii desideri al rango di una filosofia politica". A nessuno piace che le proprie conoscenze siano messe in discussione, ma le colombe proprio non riescono ad ammettere che erano loro a sbagliarsi e che Reagan aveva ragione. Di conseguenza questo gruppo negli ultimi anni ha fatto grossi sforzi per riscrivere la storia. Non c’è nessun mistero sulla caduta dell’Unione Sovietica, dicono i revisionisti: soffriva di cronici problemi
economici ed è collassata sotto il proprio peso. "Il sistema sovietico si è sciolto e sfaldato per le sue stesse carenze e difetti strutturali", scrive Strobe Talbott, "e non per qualcosa fatto dal mondo esterno". Secondo Talbott, "la minaccia sovietica non è quella che sembrava una volta. Anzi, il punto vero è che non è mai stata una minaccia. Le colombe, nel grande dibattito
degli ultimi quarant’anni, hanno avuto sempre ragione". Nel frattempo, la "estrema militarizzazione" voluta da Reagan e dai duri del Pentagono, insiste George Kennan, "ha rafforzato le stesse posizioni anche nell’Unione
Sovietica". Lungi dall’avere accelerato la fine della Guerra fredda, la politica
di Reagan potrebbe averne addirittura ritardato la conclusione. Si tratta di un’analisi che colpisce, se non altro per la sua audacia. L’Unione Sovietica effettivamente aveva gravissimi problemi economici. Ma perché questi problemi avrebbero dovuto necessariamente causare la fine del regime politico? Storicamente è una cosa consueta che le nazioni attraversino periodi di recessione economica, ma le carestie o l’arretratezza tecnologica non sono mai state cause sufficienti per determinare il crollo di un grande impero. L’impero romano sopravvisse alla corrosione interna per secoli, prima di essere distrutto dall’invasione delle orde barbariche. L’impero ottomano continuò a vivere come "il malato d’Europa" per generazioni, e cadde definitivamente soltanto con la catastrofica sconfitta subita nella Prima guerra mondiale.
Neppure l’argomento economico è in grado di spiegare perché l’impero sovietico
sia crollato o perché il crollo sia avvenuto in quel preciso momento. I revisionisti dicono: è accaduto, e quindi era inevitabile. Ma se il collasso dell’Unione Sovietica era così certo, perché i revisionisti non sono stati capaci di prevederlo, e anzi proclamavano, per citare un articolo pubblicato da
Anthony Lewis nel 1983, che il regime sovietico "non era destinato a scomparire"? E’ altrettanto difficile sostenere che Gorbaciov sia stato il vero architetto del crollo dell’Unione Sovietica. Gorbaciov è stato senza dubbio un riformatore e un leader di tipo completamente nuovo per l’Urss. Ma non aveva nessuna intenzione di condurre il partito, e tutto il regime, dentro al precipizio. Perciò, quando avvenne il crollo, il più stupito fu proprio lui. Non si aspettava minimamente di essere escluso dal potere, e ancora oggi è assolutamente indignato dal fatto di avere ottenuto soltanto l’uno per cento dei voti nelle elezioni del 1996. L’uomo che aveva capito tutto fin dall’inizio era, a prima vista, un improbabile statista. Quando divenne il leader del mondo libero, non aveva nessuna esperienza in politica estera. Alcuni pensarono che fosse un pericoloso guerrafondaio; altri lo consideravano una brava persona, ma un po’ pasticcione. Ciononostante, questo insignificante fantoccio californiano dimostrò di avere una comprensione del comunismo altrettanto profonda di quella di Alexander Solzhenitsyn. Per affrontare l’Unione Sovietica, questo dilettante elaborò una strategia complessa e articolata che quasi nessuno dei suoi collaboratori approvava o addirittura capiva fino in fondo. Attraverso una combinazione di immaginazione, tenacia, pazienza e capacità di improvvisazione, Reagan creò ciò che Henry Kissinger definisce "il più stupefacente successo diplomatico della nostra epoca". O, come ha detto Margaret Thatcher, "Ronald Reagan vinse la Guerra fredda senza sparare un solo colpo". Reagan aveva una visione del comunismo sovietico molto più scettica di quella delle colombe e dei falchi. Nel 1981, in un discorso pronunciato alla University of Notre Dame,
disse. "L’occidente non si limiterà a contenere il comunismo, ma lo trascenderà.
Se ne sbarazzerà come un capitolo bizzarro nella storia dell’uomo, prima ancora che ne siano scritte le ultime pagine". L’anno dopo, parlando di fronte al parlamento inglese, Reagan affermò che se l’alleanza occidentale fosse rimasta forte avrebbe avviato "un marcia verso la libertà e la democrazia che avrebbe lasciato il marxismo-leninismo nelle ceneri della storia". Queste profetiche dichiarazioni (allora bollate come vana retorica) sollevano una questione ben precisa: come faceva Reagan a sapere che il comunismo sovietico era sull’orlo
del precipizio quando le menti più fini del tempo non avevano la benché minima
idea di cosa potesse accadere? Per rispondere a questa domanda, la cosa migliore
è cominciare con le stesse battute di Reagan. Nel corso della sua vita, Reagan aveva collezionato un grande numero di storielle e barzellette che lui riferiva al popolo russo. In una c’è un uomo anziano che entra in
un negozio di Mosca e chiede un chilo di carne, mezzo chilo di burro e due etti e mezzo di caffe. "Li abbiamo esauriti", risponde il commesso del negozio, e l’uomo se ne va. Un’altra persona, che aveva assistito alla scena, dice al commesso: "Quel vecchio deve essere pazzo"; "Sì", risponde il commesso,
"ma che memoria!". In un’altra c’è un russo che entra in una concessionaria di automobili per comprare una macchina. Gli
viene detto che deve pagare subito, ma che ci vorranno dieci anni prima di potere ritirare l’auto. Dopo avere compilato tutti i moduli e espletato tutte le formalità necessarie, e avere pagato la macchina, il funzionario addetto gli dice: "Torni fra dieci anni per ritirarla". Lui allora chiede: "Mattina o
pomeriggio?"; "Ma è fra dieci anni, che importanza ha?", risponde il funzionario. "La mattina aspetto l’idraulico".
Reagan poteva andare avanti così per ore e ore. Quello che colpisce, tuttavia, è
che le battute di Reagan non si riferivano alla malvagità del comunismo ma alla sua incompetenza. Reagan era d’accordo con i falchi sul fatto che l’esperimento sovietico per la creazione di un "uomo nuovo" fosse immorale. Allo stesso tempo, era convinto che fosse anche sostanzialmente una stupidaggine. Reagan non aveva bisogno di un dottorato in economia per riconoscere che qualsiasi economia basata su pianificatori centralizzati che decidono quanto devono
produrre le fabbriche, quanto deve consumare il popolo e come devono essere assegnate le ricompense sociali è destinata ad un rovinoso fallimento. Per Reagan l’Unione Sovietica era un "orso malato"; e la domanda era non se fosse crollato, ma quando. Tuttavia, se l’Unione Sovietica aveva una economia traballante, possedeva però un potente apparato militare. Nessuno dubitava che i missili sovietici, se lanciati contro obiettivi americani, avrebbero causato spaventose distruzioni. Ma Reagan sapeva anche che l’Impero del male stava spendendo almeno il 20 per cento del suo pil per la difesa. Così Reagan elaborò l’idea che l’occidente poteva usare le proprie superiori
risorse economiche di una libera società per costringere Mosca a fare spese
eccessive nella corsa agli armamenti, provocando così pressioni insostenibili sul regime sovietico. Reagan formulò la sua teoria dell’"orso malato" già nel maggio 1982, in un discorso pronunciato all’Eureka College, nel quale disse: "L’impero sovietico sta vacillando perché il rigido controllo centralizzato ha distrutto gli stimoli per l’innovazione, l’efficienza
e l’ambizione individuale. Nonostante i suoi problemi sociali ed economici,
la dittatura sovietica ha costruito il più grande esercito del mondo. Lo ha fatto infischiandosene dei bisogni umani del suo popolo; e alla fine questa scelta scardinerà le fondamenta del sistema sovietico".
Gli orsi malati, comunque, possono essere molto pericolosi perché tendono ad attaccare. Per di più, visto che in realtà stiamo parlando di uomini e non di animali, c’è anche la questione dell’orgoglio, i leader di un impero internamente debole non accettano passivamente l’erosione del loro potere.
Normalmente si rivolgono alla prima fonte del loro potere: le forze militari. Reagan era convinto che la politica dell’appeasement avrebbe soltanto aumentato l’appetito dell’orso, spingendolo a nuove aggressioni. Così era d’accordo con la strategia anticomunista, secondo la quale bisognava affrontare con decisione i sovietici. Ma aveva molta più fiducia di quanta ne avevano i falchi nella capacità degli americani di affrontare la sfida. "Dobbiamo renderci conto",
disse nel suo primo discorso di insediamento, "che nessuna arma in qualsiasi
arsenale del pianeta ha la stessa forza della volontà e del coraggio morale degli uomini e delle donne di un paese libero". Il carattere più rivoluzionario del pensiero di Reagan era che non accettava l’assioma dell’immutabilità sovietica. In un momento in cui nessun altro era in grado di farlo, Reagan osò immaginare un mondo in cui il regime comunista dell’Unione Sovietica non esisteva più. Ma una cosa era immaginarsi questa condizione felice, un’altra realizzarla. Quando Reagan salì alla Casa Bianca, l’orso sovietico era ancora arrogante e infuriato. Tra il 1974 e il 1980 era riuscito, con l’invasione
diretta o la vittoria dei suoi fantocci, a incorporare dieci paesi nell’orbita comunista: Vietnam del Sud, Cambogia, Laos, Yemen del Sud, Angola, Etiopia, Mozambico, Grenada, Nicaragua e Afghanistan. Per di più, aveva costruito il più formidabile arsenale nucleare del mondo, con migliaia di missili a testata multipla puntati contro gli Stati Uniti. Nell’ambito delle forze convenzionali, il Patto di Varsavia aveva una schiacciante superiorità sulla Nato. Infine,
Mosca aveva recentemente dispiegato una nuova generazione di missili a media-gittata, i giganteschi SS-20, puntati sulle città europee. Reagan non reagì semplicemente a questi eventi allarmanti, ma elaborò un’articolata strategia di controffensiva. Avviò un progetto di riarmo per 1500 miliardi di dollari, con lo scopo di attirare i sovietici in una corsa agli armamenti dalla quale era sua convinzione che i russi non sarebbero potuti uscire vincitori. Era anche deciso a convincere l’alleanza occidentale ad accettare la dislocazione di 108 missili Pershing- 2 e 464 missili Cruise per controbilanciare gli SS-20. Allo stesso tempo, non rinunciò ai negoziati per la riduzione degli
armamenti. Anzi, propose per la prima volta che le due superpotenze dovessero ridurre drasticamente i loro arsenali nucleari. Se i sovietici avessero ritirato i loro SS-20, disse, gli Stati Uniti non avrebbero fatto piazzare i Pershing e i Cruise. Questa fu definita la "opzione zero". C’era poi la cosiddetta "dottrina Reagan", che prevedeva un sostegno militare e materiale
per i movimenti indigeni che combattevano per rovesciare le tirannie filosovietiche. L’Amministrazione appoggiò la guerriglia in Afghanistan, Cambogia, Angola e Nicaragua. Inoltre, collaborò con il Vaticano e con la sezione internazionale del sindacato americano per sostenere il sindacato polacco Solidarnosc, nonostante la spietata repressione del regime del generale Jaruzelski. Nel 1983, le truppe statunitensi invasero e liberarono Grenada, cacciando il governo marxista e organizzando libere elezioni. Infine, nel marzo 1983, Reagan annunciò la "Iniziativa di Difesa Strategica", un nuovo programma di ricerca e costruzione di difese missilistiche che, per dirlo con le parole dello stesso Reagan, prometteva di "rendere obsolete le armi nucleari". La strategia di controffensiva di Reagan fu continuamente denunciata dalle colombe, che sfruttavano il timore dell’opinione pubblica, cioè la paura che il riarmo voluto da Reagan stesse portando il mondo sull’orlo
della guerra atomica. L’opzione zero fu bollata da Strobe Talbott come "del tutto irrealistica". Con l’eccezione dell’appoggio per i mujahedin afghani, ogni sforzo per aiutare i ribelli anticomunisti fu ostacolato dalle colombe del Congresso e dei media. L’iniziativa di Difesa Strategica fu definita dal
New York Times come "una trasposizione della fantasia nella politica".
L’Unione Sovietica si mostrò altrettanto ostile nei confronti della controffensiva di Reagan, ma comprese molto meglio delle colombe americane i suoi veri obiettivi. Il giornale Izvestiya protestò: "Gli americani ci vogliono costringere a una corsa agli armamenti ancora più dispendiosa e disastrosa". Il segretario generale Yuri Andropov asserì che il programma difensivo di Reagan era "un tentativo di disarmare l’Unione Sovietica". L’esperto diplomatico Andrey
Gromyko disse che "dietro a tutte queste bugie sta il chiaro calcolo che l’Urss
esaurirà le proprie risorse materiali e sarà perciò costretta ad arrendersi".
Queste dichiarazioni sono importanti perché definiscono il contesto in cui è avvenuta l’ascesa al potere di Gorbaciov all’inizio del 1985. Gorbaciov era
effettivamente un nuovo tipo di leader sovietico, ma ben pochi si sono chiesti perché venne eletto dalla vecchia guardia. La ragione principale è che il Politburo aveva compreso che le vecchie strategie erano fallite. Reagan, in altre parole, sembra avere avuto il merito di provocare un crollo di nervi
che ha spinto Mosca a cercare un nuovo approccio. La nomina di Gorbaciov non serviva soltanto per trovare un nuovo modo di risolvere i problemi economici del paese ma anche per affrontare i rovesci subiti dall’Urss all’estero. Proprio per questo Ilya Zaslavsky, membro del congresso sovietico del popolo, ha detto che il vero creatore della perestroika e della glasnost non è stato Gorbaciov ma Reagan. Gorbaciov suscitò straordinari entusiasmi nella sinistra e nei media dell’occidente. Mary McGrory, del Washington Post, era convinta
che "avesse in tasca le istruzioni per l’uso per salvare il pianeta". Gail Sheehy era abbagliata dalla sua "luminosa presenza". Nel 1990 la rivista Time lo proclamò "uomo del decennio" e lo paragonò a Franklin Roosevelt. Esattamente come Roosevelt aveva trasformato il capitalismo per salvarlo, così Gorbaciov aveva reinventato il socialismo per farlo sopravvivere. La ragione di questo imbarazzante infatuazione è che Gorbaciov era proprio il tipo di leader che gli intellettuali occidentali ammirano di più: un riformatore dall’alto che si presentava come un progressista; un tecnocrate che pronunciava discorsi di tre
ore per descrivere i risultati della pianificazione agricola. Soprattutto, il nuovo leader sovietico stava cercando di realizzare la grande speranza dell’intellighenzia occidentale: il comunismo con un volto umano! Un socialismo che funziona! Tuttavia, come scoprì lo stesso Gorbaciov, e come tutti noi oggi sappiamo, non era una speranza realizzabile. I difetti che Gorbaciov cercava di sradicare dal sistema si rivelarono caratteristiche integranti del sistema stesso. Se Reagan era il Grande Comunicatore, Gorbaciov si è infine dimostrato,
come ha detto Zbigniew Brzezinski, il Grande Fraintenditore. Gorbaciov non va paragonato a Roosevelt ma a Jimmy Carter. I duri del Cremlino che lo misero in guardia sul fatto che le sue riforme avrebbero causato il crollo dell’intero sistema avevano ragione. Anzi, anche i falchi occidentali hanno avuto il loro trionfo: il comunismo era in effetti immutabile e irreversibile, nel senso che il sistema poteva essere riformato soltanto con la sua distruzione. Gorbaciov, al pari di Jimmy Carter, aveva una qualità positiva: era una persona onesta e di mentalità aperta. E’ stato il primo leader sovietico proveniente dalla generazione post-staliniana, il primo ad ammettere apertamente che le promesse di Lenin non erano state realizzate. Reagan, come Margaret Thatcher, capì subito
che Gorbaciov era un uomo diverso dagli altri leader sovietici. Furono piccoli dettagli a farglielo capire. Scoprì che Gorbaciov aveva una grande curiosità per l’occidente e un particolare interesse per tutto ciò che lui gli raccontava su Hollywood. Anche Gorbaciov aveva senso dell’umorismo e sapeva ridere di se stesso. Per di più, era turbato dalla definizione di "impero del male" data
precedentemente da Reagan. Per Reagan era significativo che l’idea di comandare un impero del male turbasse Gorbaciov. Inoltre, Reagan rimase colpito dal fatto che Gorbaciov faceva regolarmente riferimento a Dio e a Gesù Cristo nelle sue dichiarazioni pubbliche e nelle interviste. Quando gli veniva chiesto se le sue riforme avessero buone probabilità di riuscire, Gorbaciov rispondeva: "Solo Gesù Cristo può rispondere a questa domanda". Queste parole potevano essere
considerate un semplice artificio retorico, ma per Reagan non era così. Quando nel 1985, a Ginevra, si sedettero al tavolo delle trattative, tuttavia, Reagan si accorse che Gorbaciov era un interlocutore deciso e risoluto, e usò un tono che può essere definito di "rude cordialità". Mentre i comunicati del Dipartimento di Stato dichiaravano le preoccupazioni americane per l’influenza
"destabilizzante" dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, Reagan affrontò di petto Gorbaciov: "Quello che state facendo in Afghanistan è bruciare villaggi e uccidere bambini", disse. "E’ un genocidio, Mike, e sei tu che hai il dovere di fermarlo". A questo punto, riferisce Kenneth Adelman, un
collaboratore di Reagan presente all’incontro, Gorbaciov lo fissò con un’espressione attonita: Adelman capì che nessuno aveva mai parlato in questi termini al leader sovietico. Reagan minacciò addirittura Gorbaciov: "Non permetteremo che voi mantieniate una superiorità militare su di noi", disse.
"Possiano accordarci sulla riduzione degli armamenti, oppure possiamo continuare la corsa agli armamenti, che, sono convinto, sapete benissimo di non poter vincere". L’attenzione prestata da Gorbaciov alle osservazioni di Reagan divenne evidente nell’ottobre 1986 al summit di Reikyavik. Gorbaciov stupì l’establishment occidentale accettando l’opzione zero di Reagan e approvando
altre colombe avevano bollato come del tutto irrealistiche.
Tuttavia Gorbaciov pose una condizione: gli Stati Uniti dovevano accettare di non procedere alla dislocazione di missili difensivi.
Ma Reagan rifiutò. La stampa si scagliò immediatamente all’attacco. Ecco il titolo principale del Washington Post: "Il summit Reagan-Gorbaciov fallisce incagliandosi sullo scoglio dell’Iniziativa di Difesa Strategica". "Affondato dalle Guerre Stellari", recitava la copertina del Time. Per Reagan, comunque,
l’Iniziativa di Difesa Strategica era molto più che un gettone di contrattazione; era una questione morale. In una dichiarazione televisiva da Reikyavik il presidente disse: "Non era affatto possibile che io dicessi
ai cittadini americani che il governo non intende proteggerli dal rischio di distruzione atomica". I sondaggi dimostrarono che la maggior parte degli americani era con lui. Reikyavik, afferma Margaret Thatcher, fu il punto di svolta nella Guerra fredda. Finalmente Gorbaciov si era reso conto di avere
una scelta: continuare una corsa agli armamenti senza possibilità di vittoria che avrebbe distrutto l’economia sovietica, oppure rinunciare alla lotta per la supremazia globale, stabilire pacifiche relazioni con l’occidente e lavorare per rendere l’economia russa prospera quanto le economie occidentali. Dopo Reikyavik, Gorbaciov si decise per la seconda strada. Nel dicembre 1987 rinunciò alla sua richiesta "non negoziabile" di un abbandono del progetto difensivo americano e si recò in visita a Washington per firmare il trattato sulle armi nucleari a media gittata. Per la prima volta nella storia le due superpotenze furono d’accordo sull’eliminazione di un’intera classe di armi atomiche. Mosca accettò persino una verifica sul territorio, cosa che in passato
aveva sempre rifiutato. I falchi, tuttavia, erano sospettosi fin dall’inizio.
Secondo loro Gorbaciov era un maestro del gioco degli scacchi: sapeva sacrificare una pedina, ma soltanto per ottenere un vantaggio generale. "Reagan sta finendo in una trappola", ammonì Tom Bethell sull’American Spectator all’inizio del 1985. "Il solo modo in cui può avere successo nei negoziati è facendo ciò che vogliono i sovietici". Senatori repubblicani come Steven
Symms e Jesse Helms progettarono "emendamenti killer" per far naufragare l’Iniziativa di difesa strategica. Eppure, come ora ammettono anche alcuni
falchi, queste critiche non coglievano nel segno, Gorbaciov non stava semplicemente sacrificando una pedina, ma stava perdendo gli alfieri e la regina. Il trattato firmato a Washington fu in effetti la prima tappa per la resa di Gorbaciov. Reagan capì che la Guerra fredda era terminata nel momento stesso in cui Gorbaciov giunse a Washington. Negli Stati Uniti Gorbaciov era diventato una celebrità, e c’era una grande folla ad applaudirlo quando scese
dalla limousine per stringere le mani alla gente per strada. Fuori dai riflettori, Reagan ebbe una cena con un gruppo di amici conservatori, tra cui Ben Wattenberg, Georgie Ane Geyer e R. Emmett Tyrrell Jr. Come mi ha raccontato lo stesso Wattenberg, tutti si lamentarono del fatto che Gorbaciov stesse ricevendo dai media tutto il merito per un accordo raggiunto sostanzialmente secondo i termini decisi da Reagan. Reagan sorrise. Wattenberg allora chiese: "Abbiamo vinto la Guerra fredda?". Reagan nicchiò. Wattenberg insistette: "Ebbene, l’abbiamo vinta, sì o no?". Finalmente Reagan rispose di sì. In quel momento tutti compresero: Reagan voleva che Gorbaciov avesse il suo
giorno di gloria. Quando la stampa gli domandò se si sentisse messo in ombra da Gorbaciov, Reagan replicò: "Buon Dio, una volta volta sono stato protagonista insieme a Errol Flynn". Per apprezzare fino in fondo la sua astuzia e intelligenza diplomatica è necessario tenere presente che Reagan stava seguendo
la propria linea politica, rifiutando i consigli sia dei falchi che delle colombe. Reagan sapeva che il movimento riformista era debole, e che i duri del Cremlino non aspettavano altro che delle iniziative americane per neutralizzare l’azione di Gorbaciov. Reagan capì l’importanza di concedere a Gorbaciov uno spazio d’azione per poter proseguire il suo programma di riforme. Allo stesso tempo, quando le colombe del Dipartimento di Stato chiesero a Reagan di "ricompensare" Gorbaciov con concessioni economiche e vantaggi commerciali per il suo annuncio del ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, Reagan comprese che in questo modo si correva il rischio di guarire
completamente l’orso malato. L’obiettivo di Reagan era, come ha detto una volta lo stesso Gorbaciov, quello di portare l’Unione Sovietica sull’orlo dell’abisso e poi convincerla a fare "un passo avanti". Così Reagan appoggiò gli sforzi riformistici di Gorbaciov e allo stesso tempo continuò ad esercitare una costante pressione per spingerlo ad agire ancora più rapidamente
ed in profondità. Fu proprio questo il significato della visita di Reagan alla Porta di Brandeburgo il 12 giugno 1987, nel corso della quale richiese che Gorbaciov dimostrasse la serietà delle sue intenzioni abbattendo il muro di Berlino. E nel maggio del 1988 pronunciò davanti alla statua di Lenin nella Università di Mosca la più vibrante difesa della libera società mai rivolta al popolo sovietico. Durante quel viaggio visitò l’antico monastero di Danilov e esaltò il valore della libertà religiosa. All’ambasciata americana,
garantì a un gruppo di dissidenti che il giorno della libertà era vicino. Tutte queste iniziative avevano lo scopo di forzare la mano a Gorbaciov.
Per prima cosa Gorbaciov acconsentì a una profonda riduzione unilaterale delle
forze sovietiche in Europa. A cominciare dal maggio 1988, le truppe sovietiche si ritirarono dall’Afghanistan. Poco tempo dopo, i soldati sovietici iniziarono a ritirarsi anche dall’Angola, dalla Cambogia e dall’Etiopia. In Europa orientale partì la corsa verso la libertà e il Muro di Berlino venne abbattuto.
In tutto quel periodo, il grande risultato di Gorbaciov, per il quale sarà ricordato dalla storia, è stato quello di non ricorrere all’uso della forza, come invece avevano fatto i suoi predecessori di fronte alle rivolte popolari
in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Ora Gorbaciov e il suo governo non soltanto permettevano la dissoluzione dell’impero, ma cominciavano a parlare proprio come lo stesso Reagan. Nell’ottobre 1989 il portavoce del ministro degli Esteri sovietico Gennadi Gerasimov annunciò che l’Unione Sovietica non avrebbe interferito con la politica interna delle nazioni del
blocco orientale. "La dottrina Breznev è morta", dichiarò Gerasimov. Ai giornalisti che gli chiedevano con che cosa sarebbe stata sostituita, Gerasimov rispose: "Conoscete la canzone di Frank Sinatra My Way? Ecco, l’Ungheria e la Polonia stanno procedendo proprio in questo modo. Abbiamo la dottrina
Sinatra". Lo stesso Reagan non avrebbe potuto usare parole migliori. Infine, la rivoluzione si diffuse nella stessa Unione Sovietica.
Gorbaciov, che aveva perso completamente il controllo degli eventi, si ritrovò
escluso dal potere. L’Unione Sovietica votò a favore dell’abolizione di se stessa. Sarebbero rimasti problemi di adattamento alle nuove condizioni, ma il popolo liberato sapeva che questi problemi sono nettamente preferibili alla vita in schiavitù. Persino alcuni di coloro che erano stati critici nei confronti di Reagan furono costretti ad ammettere che le sue politiche avevano avuto ragione. Henry Kissinger ha detto che, sebbene sia stato Bush ad assistere alla definitiva disintegrazione dell’impero sovietico, "è stata
la presidenza di Ronald Reagan a segnare il momento di svolta". Il cardinale Carasoli, segretario di Stato del Vaticano, ha dichiarato che il riarmo deciso da Reagan, al quale lui stesso si era opposto, aveva determinato il collasso del comunismo. Queste conclusioni sono ampiamente condivise nell’ex Unione Sovietica e nell’Europa orientale. Quando il presidente ceco Vaclav Havel si è recato in visita a Washington nel maggio 1997, gli ho domandato se la strategia
difensiva e la diplomazia di Reagan fossero stati elementi decisivi per la fine della Guerra fredda. Havel ha risposto affermativamente, aggiungendo che "sia a Reagan che a Gorbaciov va attribuito il merito", perché il comunismo sovietico, per quanto destinato prima o poi a crollare, "senza di loro ci avrebbe impiegato molto più tempo". Le parole di Havel sono incontestabili. Però Reagan ha vinto e Gorbaciov ha perso. Se Gorbaciov è stato il grilletto, Reagan è stato colui che lo ha premuto. Per la terza volta nel XX secolo, gli Stati Uniti hanno combattuto e vinto in una guerra mondiale. Nella Guerra fredda, Reagan è stato il nostro Churchill: è stata la sua visione e la sua leadership a
condurci alla vittoria.

copyright The National Review
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