Benvenuto Mr. President lo diciamo anche noi insieme a Enzo Bettiza
Testata: La Stampa Data: 03 giugno 2004 Pagina: 1 Autore: Enzo Bettiza Titolo: «La svolta americana»
Benvenuto Mr. President. Lo diciamo noi assieme a Enzo Bettiza. Fra gli editoriali di oggi sull'arrivo del presidente americano a Roma, si distingue per equilibrio e accuratezza quello di Enzo Bettiza sulla Stampa di oggi.
Quale America il presidente George W. Bush rappresenterà domani a Roma al fianco di Ciampi e subito dopo in Normandia al fianco di Chirac? La domanda è tutt'altro che retorica. Più che mai essa serpeggia come uno spartiacque a zigzag attraverso l'Europa allargata, confina la Spagna a un ruolo di cedevole retroguardia nella lotta al terrorismo, lacera i laburisti al governo in Inghilterra. Semina, infine, disagio, ambiguità, toccate e fughe all'interno dello stesso centrosinistra italiano, diviso tra i riformisti amletici e i fondamentalisti dell'antiamericanismo cronico senza se e senza ma. C'è chi, al di là della figura vivente e fallibile di Bush, vedrà nel quarantatreesimo Presidente degli Stati Uniti il legittimo erede e rappresentante dell'America di Wilson e di Roosevelt: quella che già nel 1918 contribuì alla sconfitta degli Imperi Centrali e che 26 anni dopo inferse il secondo colpo di grazia alle forze tedesche che occupavano l'Italia e la Francia. Ma c'è chi invece vorrà vedere in Bush, considerandolo un grassatore della Casa Bianca, soltanto l'alfiere indegno e bugiardo della guerra in Iraq. Qui, per restare in Italia, mi riferisco soprattutto alle sinistre estreme e piazzaiole da Rifondazione ai Verdi. Esse, ricattando socialriformisti titubanti come Fassino o Rutelli, strizzando l'occhio a cattoriformisti ondivaghi come Prodi, isolando liberalriformisti pensanti come Amato, cercano da qualche tempo di mettere in atto un'operazione semplificatrice rozzamente manichea: s'industriano cioè a contrapporre una loro America immaginaria, da Premio Oscar, a quella perfida e nazistoide dei Bush e dei Rumsfeld. Sul piatto magro ma buono della bilancia mettono l'«ultima guerra giusta» degli Stati Uniti, quella della liberazione di Roma e dello sbarco in Normandia, illegittimamente commemorata e anzi sfregiata dall'usurpatore Bush. Ma l'altro piatto stracolmo e cattivo delle «guerre ingiuste», Iraq, Kosovo, Vietnam, Corea, magari con un'aggiunta di Dresda e di Hiroshima, non sanno loro stessi a quale Presidente accollarlo. Roosevelt? Truman? Kennedy? Johnson? Clinton? Come si vede, la spartizione schematica e ideologizzata tra interventi militari «giusti» e «ingiusti» rischia di scaricare nello stesso girone dei violenti il pessimo repubblicano Bush come l'ottimo democratico Kennedy. Se la spartizione, tra un'America buona e una cattiva, non regge è perché si basa su una finzione. Dirò meglio: sul tentativo di cancellare dalla memoria collettiva la lunga e assai più uniforme storia dell'antiamericanismo tradizionale. Bush non è che uno dei tanti presidenti americani vituperati, specialmente in Italia e in Francia, dalle piazze di sinistra e di destra. Ricordate il «boia Nixon», con la «x» uncinata, colpevole di aver chiuso la fallimentare guerra delle amministrazioni democratiche in Vietnam? Lo stesso Adriano Sofri, al quale ai bei tempi non spiaceva manifestare, ha rievocato le manifestazioni romane per una visita di Johnson, con un giovane avvolto in una bandiera americana che esibiva un cartello: «Mi faccio schifo». Nel retaggio del pacifismo unilateralista di matrice staliniana c'è sempre lo «schifo» per i missili atlantici e mai per quelli sovietici; sempre lo sdegno per gli interventi occidentali in Bosnia e in Kosovo e mai per le guerre genocide dei serbi; sempre l'orrore per le violenze angloamericane in Iraq e mai una parola, una minima dimostrazione, una piccola piazza in subbuglio per i massacri russi in Cecenia. Chissà perché antagonisti e disobbedienti antagonizzano da decenni sempre lo stesso nemico e disobbediscono puntualmente ad un solo e medesimo padrone. Dispiace notare, nell'imminente viluppo delle celebrazioni e contestazioni romane, l'imbarazzo con cui i riformisti, a cominciare dal vertice diessino, si preparano a far fronte alla piazza che li incalza da un lato e agli eventi che dall'altro volgono per il meglio in Iraq. Non solo l'amministrazione americana ha processato e condannato nel giro di due settimane i principali responsabili delle torture di Baghdad. Non solo il comandante delle truppe d'occupazione, Ricardo Sanchez, è stato costretto a dimettersi, mentre l'infame carcere da cui sono stati rilasciati i prigionieri verrà distrutto. Ma quello che politicamente conta di più è l'investitura del nuovo governo iracheno, benedetto dall'Onu, lodato da Schroeder, non confutato da Chirac, che il 30 giugno metterà fine al regime del proconsolato militare. Il presidente Bush, che porta con sé il ricordo di una nobile guerra liberatrice, non arriva comunque con belle parole e mani vuote in un Paese europeo che ha già dato un tributo di sangue e di assistenza generosa alla drammatica ricostruzione irachena. Arriva con un piano di svolta e di pacificazione, già in atto, al quale l'Italia, coi suoi 3000 soldati sul posto, potrà e dovrà responsabilmente cooperare.
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