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La Stampa Rassegna Stampa
02.06.2004 Una buona lettura per Barbara Spinelli
e per tutti quelli che per professione attaccano Bush e Blair

Testata: La Stampa
Data: 02 giugno 2004
Pagina: 25
Autore: John Keegan
Titolo: «La guerra continua sui media»
John Keegan scrive su La Stampa che: "I commentatori che si credono strateghi dovrebbero smettere di indulgere alle loro emozioni e fare un po' di raffronti storici".
Lo riportiamo dedicandolo a Barbara Spinelli, a Sergio Romano e a tutti coloro che per professione attacano Bush e Blair.

La Storia è utile. La Storia può permetterti di entrare in una buona università. La Storia ti può procurare un buon lavoro. La Storia può permetterti di svelare i segreti della vita.
Ma è proprio così? Io mi sono dedicato alla Storia per 50 anni ma negli ultimi mesi ho cominciato a domandarmi se sia davvero utile. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si trovano in una situazione difficile in Iraq e l’intero sistema occidentale dei mass media reagisce come se un disastro di proporzioni inaudite incombesse sulle forze armate e sui governi dei due paesi.
Stando ai media, un presidente americano dapprima assai popolare rischia ora una sconfitta alle urne. Un primo ministro britannico di straordinario successo è diventato un fattore di debolezza per il suo partito. L’esercito americano è dipinto non solo come responsabile di crimini di guerra ma anche come incapace di condurre una modesta azione militare contro una piccola città irachena. I mass media britannici e statunitensi evidenziano con soddisfazione ogni minimo accenno di notizia secondo cui le forze armate dei due paesi danno cattiva prova di sé e sollevano dubbi sulla loro efficienza operativa e disilludono i lettori e i telespettatori da ogni speranza di successo nell’operazione irachena.
Il messaggio dei media è chiaro: l’Iraq è un caos, qualcosa che non avremmo mai dovuto permettere che accadesse. Eppure chi lavora nei media dovrebbe essere il tipo di persona consapevole fin dall’inizio che le guerre, non di rado, finiscono in un caos. Molti di loro hanno una formazione storica e hanno appreso come e perché certe guerre finiscono con un risultato chiaro e altre no.
La seconda guerra mondiale, che ha fornito il modello occidentale di guerra dall’esito chiaro, è finita così per varie ragioni. I tedeschi e i giapponesi erano completamente ko. Le loro città erano state bruciate o rase al suolo, milioni di loro giovani erano morti in battaglia e centinaia di migliaia di donne e di bambini avevano subìto la stessa sorte per i bombardamenti. I giapponesi stavano morendo di fame mentre i tedeschi erano così malconci che gli occupanti occidentali dovettero tanto provvedere a nutrirli quanto a salvarli dalla dominazione sovietica. Due popoli disciplinati si adeguarono alla sconfitta.
Dato che noi atlantici ricordiamo il 1945 come l’anno della vittoria sui nostri nemici, dimentichiamo facilmente che la seconda guerra mondiale non finì in modo così netto in altre parti del mondo. In Grecia, la guerriglia contro i tedeschi si protrasse in una guerra civile che durò fino al 1949 facendo altri 150 mila morti. La pace non si estese all’Asia occupata dai giapponesi. In Cina, Vietnam, Indonesia e Birmania la seconda guerra mondiale proseguì in una serie di guerre nazionali di liberazione, che durarono anni e uccisero centinaia di migliaia di persone; in Birmania non è finita nemmeno oggi.
La fine della prima guerra mondiale era stata anche peggiore. La notte dell’armistizio il premier britannico Lloyd George, lasciando la Camera dei Comuni in compagnia di Churchill, disse: «La guerra dei giganti è finita. Adesso comincia la guerra dei pigmei». I pigmei, nelle guerre civili di Germania, Ungheria, Polonia, Repubbliche baltiche, Finlandia e soprattutto Russia, continuarono a combattere per anni e morirono a milioni, in combattimento o di fame. Una guerra in piena regola scoppiò fra la Grecia e la Turchia e uccise 300 mila persone.
E ci fu anche una guerra in Iraq. La provocò il tentativo britannico di rendere effettivo il mandato della Società delle Nazioni a governare quel paese. I britannici alla fine vinsero, ma al prezzo di 6 mila morti iracheni e 500 fra i soldati dell’Union Jack (dei quali, però, solo un centinaio erano di piena nazionalità britannica). Allora, più o meno come adesso, gli occupanti affermarono esagerando che «ogni iracheno ha in mano un fucile».
Gli storici possono spiegare facilmente e persuasivamente come mai certe guerre, come quella contro la Germania nel 1945, finiscono in modo netto e altre no, come quelle in Iraq nel 1920 e nel 2004. Nel primo caso, la nazione sconfitta si era già esaurita nello sforzo della lotta e dipendeva dal vincitore sia per le necessità immediate di sussistenza sia per la protezione da futuri disastri, che fossero la rivoluzione sociale o l’aggressione da parte di altri nemici. Nel caso iracheno, la guerra non ha fatto grandissimi danni ma ha distrutto il potere dello Stato sconfitto e ha incoraggiato gli elementi irresponsabili ad arraffare quel che possono prima della restaurazione di un solido potere statale.
Al momento, quel che monopolizza i titoli dei giornali e l’attenzione delle tv in prima serata sono le notizie dall’Iraq che riguardano l’attività di minuscoli e ben localizzati gruppi armati, in lotta per trincerarsi prima che venga imposta una pace completa e sia restaurata una effettiva struttura statale. Sono notizie assai ripetitive: i disordini a Najaf e a Falluja e i comportamenti devianti in un carcere da parte di una manciata di riservisti americani (non di professionisti regolarmente addestrati). Non si sente nulla dagli altri 8 mila villaggi e cittadine dell’Iraq, nulla dal Kurdistan, dove prevale la pace, ben poco da Bassora, dove le truppe britanniche hanno rapporti corretti con la popolazione civile.
Nelle scorse settimane ho dovuto riprendermi da una seria operazione chirurgica così mi sono fatto una overdose di programmi televisivi, per la maggior parte da dimenticare senza rimpianti. Ma ho provato una specie di fascino perverso nel guardare il telegiornalista Jon Snow di «Channel 4 News» elettrizzarsi nella sua quotidiana denuncia delle attività angloamericane in Iraq. Alle 17,30 compare e comincia a risvegliare il suo senso di indignazione. Verso le 19 sfiora l’apoplessia e l’isteria - urla, ha la faccia accesa, trema in maniera incontrollabile.
Non so se Jon Snow decida di sopprimere deliberatamente quel che sa a beneficio del suo impegno scenico. Quel che so è che lui e la schiera dei commentatori autonominatisi strateghi, che predominano nella copertura delle notizie e valutazioni dall’Iraq sui media scritti e televisivi, dovrebbero smettere di indulgere alle loro emozioni e cominciare a fare un po’ di raffronti storici. L’Iraq del 2004 non è la Grecia del 1945, né l’Indocina del 1946-54, né l’Algeria del 1953-62. Tantomeno è un «Vietnam». Si tratta solo dello spiacevole ma non inatteso risultato di una campagna per spodestare un pericoloso dittatore del Terzo mondo. Se coloro che si mostrano così ansiosi di denunciare il presidente americano e il primo ministro britannico sono tanto sicuri del fatto loro, ci spieghino se e per quali motivi preferirebbero vedere Saddam Hussein ancora al potere a Baghdad.
© The Daily Telegraph
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