Perchè Vargas Llosa non si butta in politica? Ci ha già provato, gli è andata male. Strano, di retorica e mala fede ne ha tanta
Testata: La Stampa Data: 31 maggio 2004 Pagina: 27 Autore: Mario Vargas Llosa Titolo: «Bush e Sharon: il fine distrutto dai mezzi»
Nella pagina di cultura de La Stampa di oggi viene pubblicato un intervento di Mario Vargas Llosa dal titolo "Bush e Sharon, il fine distrutto dai mezzi" dove l'autore polemizza aspramente, molte volte superando il limite della correttezza nell'esposizione dei fatti, contro l'operato dei due premier. Vargas Llosa, partendo dagli episodi di Abu Graib e di Rafah, fa di tutta l'erba un fascio per dimostrare come il fine, peraltro nobile, di Stati Uniti e Israele sia stato sconfessato dai fatti. Albert Camus lo ha spiegato come meglio non si potrebbe: non sono i fini a giustificare i mezzi, ma i mezzi a giustificare i fini. Abbattere una tirannia sanguinaria come quella di Saddam Hussein e aiutare l’Iraq a diventare una moderna democrazia è un nobile obiettivo; ma se, per ottenerlo, le forze militari degli Stati Uniti violano i diritti umani e si lasciano andare, nelle carceri della vecchia satrapia, a torture crudeli e abiette simili a quelle praticate dalla Mukhabarat o dalla polizia politica dell’antico regime, quell’obiettivo si snatura e si trasforma in un mero pretesto. La difesa della popolazione israeliana contro le organizzazioni terroristiche palestinesi che compiono attentati ciechi nei confronti della società civile è un fine perfettamente legittimo, ma quando un governo, come quello di Ariel Sharon, si crede autorizzato a realizzare quest’impegno attaccando con missili antiaerei popolazioni inermi, assassinando bambini, donne e anziani, organizzando omicidi preventivi e facendo saltare con la dinamite le case di conoscenti, familiari o vicini di veri o presunti terroristi, questo governo diventa esso stesso terrorista e perde ogni diritto di rivendicare una superiorità morale sui fanatici decisi ad abbattere, con il sangue e con il fuoco, lo Stato d’Israele. Israele = stato terrorista: questa equazione non è nuova e fa parte dei tanti slogan che contraddistinguono la propaganda arafattiana e quella no global; da uno scrittore affermato come Vargas Llosa sinceramente ci saremmo aspettati di meglio. Llosa parla per sentito dire, Israele non ha mai lanciato missili antiaerei contro la popolazione inerme, il triste episodio di Rafah cui Llosa si riferisce, è dovuto in gran parte al fatto che i terroristi palestinesi si nascondono tra la popolazione civile incitandola a prendere parte ai combattimenti e utilizzandola come scudo. Quei colpi andati fuori bersaglio, sono stati un grave errore, tuttavia non possono essere usati come pretesto per condannare in toto la strategia di Israele contro il terrorismo palestinese, che, guardando le statistiche, al momento risulta efficace. Gli omicidi mirati, nell'ottica della guerra al terrorismo, neutralizzano i generali nemici, dal momento che essi non affrontano il proprio avversario a viso aperto. Al momento non esiste strumento più efficacie per fermare chi è disposto a uccidere se stesso per uccidere altre persone. Gli orrori che il mondo ha visto in queste ultime settimane in tv o sui giornali, con le immagini che arrivavano dalle prigioni di Abu Ghraib - il carcere alla periferia di Baghdad che Saddam Hussein ha trasformato nel simbolo dell’ignominia per le torture inflitte proprio qui alle sue vittime - e quelle delle strade e dei rifugiati nel campo di Rafah, a Gaza, assaliti dalle truppe israeliane, hanno provocato la reazione indignata dell’opinione pubblica internazionale. Non è esagerato affermare che hanno fatto più danni agli Stati Uniti e a Israele di tutte le bombe e gli attentati suicidi degli estremisti islamici in questi ultimi mesi. Quando le immagini vengono strumentalizzate a fini politici, è molto facile che raggiungano il proprio scopo. Quasi nessuno ha mostrato le immagini della decapitazione dell'ebreo americano Nicholas Berg e altrettanto pochi si sono soffermati sullo scempio fatto sui cadaveri dei soldati israeliani a Gaza. Perchè uguale indignazione non si è levata contro questi terribili atti? In base a che cosa condannare un episodio e tacere su altri? Che credibilità possono avere, raffrontate con le foto di questi prigionieri denudati, obbligati a masturbarsi e a sodomizzarsi, sottoposti a scariche elettriche o ai denti di cani feroci per la gioiosa imbecillità dei loro guardiani, le affermazioni del presidente Bush o del segretario alla Difesa Rumsfeld secondo cui gli Usa sono in Iraq per portare la libertà e la legalità al popolo iracheno? E chi potrebbe credere seriamente, davanti ai cadaveri dei bambini palestinesi annientati dalle mitragliatrici nelle strade piene di fame e di miseria di Gaza, alle assicurazioni di Sharon per il quale la sua politica ha come unico fine la difesa di Israele? I torturatori di Abu Ghraib e i commandos sterminatori di Sharon sguinzagliati a Gaza hanno offerto un incommensurabile appoggio a quanti sostengono da tempo che non esistono differenze tra Bush e Saddam Hussein e tra Ariel Sharon e i dirigenti di Hamas e della jihad islamica. Definire commandos sterminatori di Sharon, unità scelte di soldati che rischiano e perdono la propria vita nell'inferno della battaglia urbana di Gaza, per la scelta militare e politica di non bombardare le case rifugio di terroristi e armi, è un'offesa verso chi si adopera al massimo affinché si preservi la vita dei civili palestinesi.
Nonostante tutto, malgrado il giustificato disprezzo al quale possono spingerci le torture di Abu Ghraib e i crimini israeliani contro la popolazione civile di Rafah, occorre fare uno sforzo, evitare pericolose equazioni e cogliere le differenze con un minimo di razionalità. Una società democratica può avere al governo un mediocre senza attenuanti come Bush o un macellaio come Sharon, ma possiede meccanismi di controllo, revisione e rettifica degli errori che giustificano la speranza: vale a dire, la possibilità d’un radicale cambiamento di politica. Negli Stati Uniti e in Israele tali meccanismi esistono e, in questi giorni degli scandali, li abbiamo visti entrare in azione. Il pregiudizio contro Bush e Sharon rimane, Vargas Llosa oscilla tra considerazioni sensate condite da affermazioni di pura e semplice propaganda.
Nessuno, fino a ora, credo, ha avuto occasione di osservare la faccia del giovane soldato Joseph Darby che, il 13 gennaio, con un atto di grande coraggio e di dirittura morale, ha spontaneamente denunciato alla Divisione Investigativa Criminale quanto accadeva a Abu Ghraib allegando un cd colmo di fotografie, parte delle quali sono arrivate alla tv e ai giornali degli Usa. Il Pentagono e lo stesso Rumsfeld non hanno potuto far passare sotto silenzio questa denuncia, causa prima della tempesta che ha scosso dalle radici l’amministrazione Bush. Benché sinora siano stati incriminati solo sette soldati e agenti di polizia - ridicoli capri espiatori di quelli che, con tutta evidenza, erano sistemi generalizzati di estorsione e di «ammorbidimento» dei prigionieri per strappar loro informazioni - già sono rotolate molte teste di generali, compresa quella dello stesso generale Sanchez, capo delle forze della coalizione in Iraq. Ed è assai probabile, anzi quasi certo, che le torture di Abu Ghraib significhino per Bush la sconfitta alle elezioni di novembre. Alcune centinaia di prigionieri ingiustamente incarcerati in Iraq sono stati liberati e la funesta prigione di Abu Ghraib sarà presto demolita. Ciò può non essere sufficiente per riparare il danno, ma nulla di tutto questo sarebbe potuto accadere nel regime di Saddam Hussein o sotto qualsiasi altra dittatura. La critica più feroce alle atrocità sui civili palestinesi a Gaza non è uscita dalla bocca o dalla penna degli avversari di Israele, ma da Tomy Lapid, leader del partito laico israeliano di ispirazione centrista e ministro della Giustizia dello stesso governo Sharon. Bisogna complimentarsi per il coraggio e la rettitudine morale di questo israeliano, degni d’ammirazione come come quelli del soldato Joseph Darby, anche se gli integralisti e i fanatici dei rispettivi paesi accusano entrambi d’essere traditori della patria. In realtà nessuno incarna meglio di loro quanto ci può essere di pulito e di degno in quella pericolosa parola - rifugio di canaglie, come ha ricordato Samuel Johnson - che è «patriottismo». Il ministro Lapid, nipote d’una donna assassinata dai nazisti ad Auschwitz, non ha avuto difficoltà a dire, dal suo seggio nel Parlamento israeliano, che le immagini delle donne palestinesi intente a frugare tra le macerie delle loro case abbattute dai carri armati di Israele «gli ricordavano la nonna». E ha chiesto che si mettesse fine alle demolizioni nel campo dei rifugiati di Gaza perché queste rappresaglie «non erano umane, non erano ebree». Anche se gli sono piovuti addosso insulti e polemiche, Tomy Lapid sta ancora in Parlamento, al governo e tra le fila del suo partito. Non è il solo, in Israele, a rappresentare l’alternativa sensata e decente alla politica demenziale di Sharon. Commentare degli episodi ex post come ha fatto Lapid è senza dubbio più facile che prendere decisioni politiche senza aver la certezza degli esiti. Sharon ha ritenuto le operazioni di Gaza politicamente sensate e utili nella lotta a Hamas e ha dato luce verde. Da primo ministro ha dovuto prendere una decisione non facile, i fatti diranno se avrà ragione o meno.
Appena qualche settimana fa una folla gigantesca di 100-150 mila persone ha manifestato nel centro di Tel Aviv reclamando l’abbandono di Gaza da parte di Israele e chiedendo al governo d’instaurare negoziati con l’Autorità Palestinese.
Una proposta, quella del ritiro da Gaza, partorita da Sharon stesso, ma questo Vargas Llosa si dimentica di dirlo.
E sono frequenti, sui giornali e nelle tv del paese, le critiche agli eccessi e agli abusi di Sharon. Così come è cospicuo il numero di ufficiali e soldati dell’esercito israeliano che si sono rifiutati, pubblicamente, di partecipare ad azioni di repressione o di sterminio della popolazione civile. Sfortunatamente non esistono esempi analoghi da parte palestinese. Tra quanto accaduto ad Abu Ghraib e quanto accaduto a Gaza le coincidenze non sono soltanto d’ordine morale. La verità è che la crisi irachena e il problema israelo-palestinese sono visceralmente intrecciati. L’appoggio acritico e totale che il presidente Bush ha dato al piano di Sharon durante l’ultima visita di questo a Washington, non ha contribuito in alcun modo a facilitare una soluzione negoziata del problema nevralgico del Medio Oriente e ha soltanto reso più difficile e lontana la fine delle ostilità in Iraq. Che la questione palestinese sia effettivamente centrale per la vita della popolazione dell'intero Medio Oriente, è tutto da dimostrare. Di una cosa però possiamo essere certi: l'odio per Israele ha fatto da collante tra i paesi arabi ed ha permesso ai loro despoti di distrarre la popolazione dalle malefatte che questi ultimi compivano, e compiono,ai loro danni.
In questo e in tutti i paesi arabi esistono immensi settori della società ansiosi d’uscire dall’oscurantismo dispotico in cui ancora vivono. Ma, finché gli Stati Uniti saranno visti - e nessuno ha fatto più di Bush perché ciò si verifichi - come un alleato e un complice sistematico della politica del governo di Ariel Sharon nell’imporre al popolo palestinese una pace che sembra quella dei cimiteri attraverso repressioni selvagge, appropriazioni di territori, omicidi preventivi, persecuzione militare e asfissia economica, qualsiasi azione o iniziativa che arrivi da Washington - compresa quella, assai positiva, d’abbattere un tiranno che era un assassino patologico o di dare impulso alla democratizzazione - appare sospetta ed è accolta con sfiducia e ostilità. Ciò ha trasformato quella che sembrava una passeggiata trionfale delle forze della coalizione in Iraq nella trappola mortale da cui, ora, non sanno come uscire. Sharon è stato l'unico che dopo tre anni di Intifada ha proposto un piano credibile per ridurre il più possibile il conflitto con i palestinesi. Appoggiare un'iniziativa del genere era l'unica cosa sensata da fare, dal momento che il piano aveva persino trovato il consenso dell'Onu tramite Kofi Annan. Mi piacerebbe molto che venisse proiettato in Israele - e non è escluso che ciò avvenga visto che, nonostante la politica di Sharon, questo paese è ancora una democrazia - il documentario Death in Gaza trasmesso la sera del 27 maggio alla tv britannica.
A noi piacerebbe invece che venissero proiettati i video del Palestinian Media Watch sull'indottrinamento alla Jihad dei bambini palestinesi fatto da Arafat e la sua cricca.
È realizzato dal cameraman James Millar, morto il mese scorso sotto il fuoco dell’esercito israeliano mentre stava filmando. Descrive con algida obiettività la vita dei bambini e delle bambine nel campo per rifugiati di Rafah, tra i rifiuti, il sudiciume, la paura, le incursioni dei carri armati e dei soldati d’Israele che lasciano sempre dietro sé una scia di sangue e di morte. Il divertimento di questi piccoli consiste nel tirare pietre contro i nemici e, per il resto del tempo, nel dimenticarsi la fame facendo sogni d’odio, di vendetta, di martirio, o attendendo una morte simile a quella che ha stroncato la vita dei loro fratelli, dei loro padri, dei loro amici. Tra le testimonianze c’è quella d’una adolescente che ha perduto otto membri della sua famiglia e che guarda l’obiettivo con occhi profondamente disgustati e vuoti, come se fosse morta. Mentre la vedevo ho sentito, all’improvviso, la mia faccia bagnarsi di lacrime. Nessun documentario invece sulla vita degli israeliani, sulle loro paure, sulle loro speranze, nessuna lacrima per Tali Hatuel e le sue quattro bambine uccise a sangue freddo con un colpo alla nuca da terroristi palestinesi.
Sembra impossibile che le belle gesta dei sionisti i quali, dopo aver tanto sofferto in Europa, arrivarono in Palestina per trasformare il deserto in un giardino e costruire una società libera e generosa basata sulla fratellanza, siano sprofondate in questa vergogna.
Allo stesso modo sembra impossibile che quei sionisti che volevano creare una società libera e generosa basata sulla fratellanza, non abbiano ancora avuto un minuto di pace dai loro vicini arabi e neppure un gesto di riconoscimento delle loro legittime ispirazioni.
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