A che punto è l'Iraq ? l'analisi di Christian Rocca ce lo spiega
Testata: Il Foglio Data: 27 maggio 2004 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca Titolo: «Delusione neocon»
Christian Rocca fa il punto della situazione irachena, ovvero come su un giornale di poche pagine si possa essere informati in modo completo e accurato. L’idea iniziale di George Bush per rispondere all’attacco dell’11 settembre era liberare l’Iraq, contagiare con il seme democratico l’intero medio oriente, quindi pacificare l’eterno conflitto israelo-palestinese. Era la strategia, ambiziosa e rischiosa, elaborata dai neoconservatori, fatta propria da Richard Cheney e Donald Rumsfeld, da un nucleo autorevole di opinionisti liberal e di sinistra e abbracciata da Bush. Una guerra di liberazione veloce, senza coinvolgimenti diretti nella sovranità irachena, una campagna che servisse a installare un governo prima rappresentativo e poi democratico e che fosse la seconda tappa, dopo l’Afghanistan, di un più ampio progetto, non solo militare, riguardante l’intero medio oriente. A questa visione si è subito contrapposta l’ala più realista dell’Amministrazione, quella che tradizionalmente fa capo al Dipartimento di Stato, refrattaria di per sé alla politica del cambio di regime. I diplomatici, i funzionari di governo e l’establishment liberal del paese credevano che per ottenere un Iraq stabile fosse necessaria una fase, sia pure temporanea, di occupazione del paese. Jay Garner era l’uomo che serviva alla prima ipotesi, Paul Bremer è stato il mediatore tra le due visioni dell’Amministrazione nella fase successiva, non rigettando la prima né applicando interamente la seconda. La Casa Bianca, con l’avvicinarsi della data delle elezioni, ha riposto nel cassetto i grandi progetti e provato a mettere le toppe in Iraq, ma non è andata come previsto. Richard Perle, uno dei teorici dell’intervento in Medio Oriente, lunedì sera, alla Bbc, ha sintetizzato così: "E’ stato un errore trasformare una liberazione, in un’occupazione". Idea replicata sul Washington Post di ieri da un vecchio sostenitore del cambio di regime in Iraq, Jim Hoagland: "Aver concentrato il potere nelle mani dell’Autorità di Bremer, piuttosto che far nascere un governo iracheno provvisorio già un anno fa, ha avuto risultati disastrosi". Il Foglio ieri ha posto il problema della "ritirata strategica di Bush" che, di fatto, "ridimensiona per ora il progetto democratico". Tesi condivisa, punto per punto, dal professore di studi mediorientali, Fouad Ajami, sul New York Times di ieri. Il succo dell’articolo era questo: "L’Iraq potrebbe farcela, ma il sogno è morto… L’Iraq non diventerà la vetrina dell’America nel mondo arabo musulmano". L’analisi di Fouad Ajami è simile a quella di Perle e Hoagland: "Abbiamo occupato i palazzi e le prigioni dei precedenti governanti. Ovviamente lo abbiamo fatto per una questione logistica e di necessità, ma questo tipo di cambiamento ha assolto gli iracheni dal peso della loro storia, li abbiamo messi da parte mentre soldati, tecnici, sondaggisti e militanti della ‘società civile’ hanno preso il controllo del loro paese". Gary Schmitt, direttore del Project for a New American Century, la centrale del pensiero neocon, ha detto al Foglio che Bush non ha smesso i panni del rivoluzionario, "basta leggere bene che cosa ha detto all’inizio e alla fine del suo discorso di lunedì sera per esserne certi. Il problema è che le scelte quotidiane della sua Amministrazione sono più simili a quelle che avrebbe fatto John Kerry piuttosto che a quelle di Bush. Il percorso verso la democrazia in Iraq, specie nell’area della sicurezza, sembra essere frutto del compromesso con gli insorti e con i ribelli che ogni giorno sfidano la strategia di un Iraq democratico e costituzionale". Conferma lo storico Victor Davis Hanson: "Purtroppo i successi strategici possono nascere solo dalle vittorie sul campo". Secondo Michael Ledeen, dell’American Enterprise, sono le elezioni americane ad aver fatto cambiare passo a Bush. "Oggi non siamo in grado di prevedere che cosa succederà dopo – ha detto al Foglio – bisognerà vedere se ci saranno cambiamenti nell’Amministrazione. Credo che Bush sbagli a pensare principalmente al voto del 2 novembre, ma certo io non ho mai vinto un’elezione". Paul Berman, saggista anti Bush ma favorevole all’idea di democratizzare il medio oriente, crede che in un eventuale secondo mandato "ci sarebbero più conservatori tradizionali, perché i neocon avrebbero difficoltà a superare l’esame del Congresso". Al Foglio Berman ha detto che "l’unica speranza è un segretario di Stato come Richard Holbrooke oppure qualcun altro che promuova un idealismo di sinistra, invece che repubblicano. La speranza è Kerry, ma in realtà non è una grande speranza". Secondo Andrew Sullivan, infatti, Bush ha ancora il miglior piano in circolazione, Kerry infatti non sa che cosa dire. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.