Lega araba: indecisi a tutto salvo che a conservare il proprio potere e a condannare Israele
Testata: Il Foglio Data: 25 maggio 2004 Pagina: 4 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Solita Lega araba»
Si è concluso, come al solito con un niente di fatto, il vertice della Lega Araba a Tunisi. Ci spiega perchè Emanuele Ottolenghi sul Foglio di oggi. Il summit della Lega araba ha ancora una volta mostrato come i regimi mediorientali siano sulla difensiva: quanto li unisce è ben poco, oltre all’odio per Israele, all’ostilità nei confronti degli Stati Uniti e alla resistenza al cambiamento. Il vertice doveva aver luogo a marzo ed era fallito per l’incapacità dei regimi di raggiungere un accordo sulle riforme. Due mesi dopo, il solo vero successo del vertice sta nell’aver avuto luogo. Il prezzo per la partecipazione siriana è stata la dura condanna delle sanzioni americane. Gheddafi se n’è andato dopo mezz’ora. Sette capi di Stato non sono nemmeno venuti. Sulle riforme, il messaggio dice tutto in astratto, nulla in concreto. Sta qui il vero problema. Nonostante le oggettive difficoltà americane in Iraq, la regione è in tumulto, e a Baghdad si gioca la partita di questa generazione. Se gli americani hanno successo e avviano un processo di transizione alla democrazia che dia potere alle minoranze etniche e religiose, trasparenza governativa, ridistribuzione delle risorse, diritti fondamentali e rappresentatività, i regimi arabi hanno da perderci, perché il successo in Iraq significherebbe che tocca a loro adattarsi, cambiare o divenire l’oggetto dell’idealismo radicale americano che ha motivato e giustificato l’intervento a Baghdad. Da qui la resistenza all’America, specie dai paesi limitrofi come Siria e Arabia Saudita e il rifiuto d’inviare truppe. Veder l’America prenderle significa allontanare ogni prospettiva d’interferenza in tema di riforme a casa propria. Ma se l’America perde, hanno da perderci pure i regimi della regione: il caos che seguirebbe un ritiro americano – causa la debolezza strategica e la perdita di deterrenza che l’America proietterebbe nell’area – darebbe spazio a coloro che sono più attivi nella lotta contro la presenza americana, le forze estremiste che mirano a cacciare l’America per spodestare poi i regimi arabi. Insomma, i raìs riuniti a Tunisi non sanno cosa sia peggio, che l’America vinca o perda. Nel dubbio scommettono sia sul rosso sia sul nero.
La perfetta sintesi di Abdullah di Giordania L’ambiguità di questa posizione spiega i messaggi contradditori che emergono. Il presidente egiziano Hosni Mubarak dice che la sconfitta americana sarebbe un disastro per la regione e che gli americani devono restare: il suo regime, per la cui sopravvivenza è vitale l’appoggio di Washington, sarebbe tra i primi a traballare in caso d’uscita prematura degli alleati dall’Iraq. Il re giordano Abdullah II – il cui regime traballa ancor di più, tra l’incudine irachena e il martello del conflitto israelo-palestinese – offre la chiave di volta della posizione panaraba, sostenendo la necessità di un "uomo forte", tratto dalle file dell’ex esercito iracheno, ma rispettato e non compromesso con gli orrori del regime, per guidare la transizione. Assieme al messaggio annacquato e privo di sostanza sulle riforme che arriva dal summit, la via panaraba alla pacificazione dell’Iraq sembra ovvia: un regime autoritario, guidato da un sunnita, preferibilmente militare, a tutela dell’unità irachena e come baluardo di stabilità: per contenere l’Iran e il suo sostegno destabilizzante alla maggioranza sciita nel sud dell’Iraq, per reprimere ogni spinta autonomista delle minoranze non arabe, primi tra tutti i curdi, per evitare che l’accesso al potere degli sciiti crei pericolosi precedenti per le altre minoranze sciite nel Golfo, per frustrare il processo democratico che creerebbe un precedente pericoloso per l’autoritarismo stagnante dal Golfo all’Atlantico, e infine per garantire che in mano a un militare sunnita "moderato" vi siano gli strumenti della legittimità regionale e del sostegno internazionale per reprimere la spinta islamista in Iraq. Un altro Saddam insomma, ma meno crudele, come nuovo nume tutelare dello status quo regionale. Che la conservazione dello status quo sia lo scopo degli autocrati riunitisi a Tunisi lo dimostrano anche le lacrime di coccodrillo versate su Abu Ghraib e Gaza: l’indignazione per i "crimini" israeliani e americani è tanto intensa quanto lo è il silenzio della Lega di fronte al genocidio in Darfur nel Sudan, dove un membro della stessa Lega sta perpetrando l’ennesimo crimine contro le proprie minoranze non arabe, con migliaia di morti. Molti commentatori speravano che il summit offrisse un’opportunità di voltar pagina, con un piano dettagliato di riforme, un impegno maggiore in Iraq e sul fronte israelo-palestinese, e una capacità d’introspezione da parte dei regimi arabi del passato. Hanno vinto il vittimismo e l’istinto di autoconservazione dei regimi. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.