Imma Vitelli si è adeguata è entrata anche lei nel club anti-USA
Testata: Europa Data: 16 maggio 2004 Pagina: 3 Autore: Imma Vitelli Titolo: «Sarà Israele a pagare il fiasco americano ?»
Su EUROPA di ieri, 15.05.04, Imma Vitelli ci informa su tutte le disgrazie che possono capitare addosso a Israele come conseguenza della guerra in Iraq. Seguendo la poco corretta abitudine dei media occidentali, anche lei cita Ha'aretz solo quando viene utile per criticare l'America o la politica del governo Sharon. Se Vitelli definisce, come fa, il Jerusalem Post quale "enclave dei neocon israeliani", correttezza vorrebbe che prima di scrivere Ha'aretz gli facesse precedere almeno un "enclave della sinistra antagonista antigovernativa israeliana". Cosa che però si guarda bene dal fare. Dal suo articolo sembra che la guerra in Iraq sia stata tutta un complotto fra Sharon e il gruppo di "ebrei neocon" americani che avrebbero convinto Bush della utilità dell'eliminazione di Saddam Hussein in quanto pericolo per la sicurezza di Israele. Ignorando del tutto come l'Iraq, insieme ad altri stati canaglia, fosse già da anni nell'elenco dei dittatori scatenati contro le democrazie occidentali e i regimi arabi moderati. Ma su questo Imma Vitelli non proferisce verbo. Ridicolo poi sostenere che l'Europa prenda posizione contro Israele a causa della guerra all'Iraq. Quando mai l'Europa è stata al finaco di Israele ? Sulla rivendicazione della "comprensione della cultura araba", che mancherebbe all'America, Imma Vitelli si dia una ripassata, sia scritta che visiva, alle ultime espressioni "culturali" del terrorismo islamico. E poi si chieda cosa dovrebbe fare una democrazia come Israele per difendersi. Capirebbe nello stesso tempo come l'America, dopo gli anni del non vedo non sento di Clinton, non abbia altra scelta che rispondere e possibilmente prevenire la guerra che le è stata dichiarata. Indipendentemente dai suoi comportamenti e dal suo sostegno a Israele. La fotografia che accompagna il servizio è goebbelsianamente maliziosa. Paul Wolfowitz viene fotografato davanti al carcere di Abu Ghraib (lo scorso luglio) come dire: ecco il responsabile delle sevizie ai prigionieri. Condanna fotografica senza appello. Se paragoniamo il vecchio POPOLO democristiano con il suo successore EUROPA di marca rutelliana non si può non sentire nostalgia per il vecchio foglio democristiano. Almeno là erano sì tutti pro regimi arabi e baciapile, ma si distinguevano ancora dall'Unità e dal Manifesto. EUROPA non più. Ecco l'articolo: Il primo a parlarne pubblicamente è stato Aluf Benn, su Haaretz. In un commento intitolato "Capro espiatorio in Iraq", l’analista di punta del più rispettato quotidiano israeliano ha sviscerato l’onda lunga del pasticcio iracheno e le ripercussioni delle torture di Abu Ghraib sul più fedele alleato americano in Medio oriente. Il paese che più aveva da guadagnare dalla cacciata di Saddam Hussein, i cui leader a destra e a sinistra incoraggiarono apertamente l’invasione, si ritrovano oggi a raccogliere i pezzi di un’impresa in bilico. «Abbiamo l’Iraq alle calcagna », sintetizza Benn, esprimendo un sentimento diffuso. Sul Jerusalem Post, enclave dei neocon israeliani, gli fa eco il collega Bret Stephens, uno che la guerra l’ha sostenuta. «Si mette male. I pezzi grossi del partito Baath stanno tornando al potere, il dirigente Onu incaricato della transizione è un algerino che si vanta di non aver mai stretto la mano a un ebreo e gli americani sembrano non in grado di spegnere la guerriglia. Si mette male». Con la campagna irachena sempre più simile a un horror show, il timore qui a Gerusalemme è che a pagare il conto sia Israele, assieme alla scuola di neoconservatori ebreo-americani ideologi della guerra preventiva e della sua applicazione in Iraq. Un segnale in questo senso, è l’intensità con cui ha ripreso a circolare sui siti pacifisti il famoso memorandum con cui il falco Richard Perle raccomandava nel 1996 al neo-eletto premier del Likud Benjamin Netanyahu di cestinare gli accordi di Oslo e attaccare Saddam. «Al ministero degli affari esteri israeliano cercano quietamente di prendere le distanze dal disastro Iraq ma il controllo del danno è complesso. Sanno che quanto più le cose si mettono male, tanto più si rafforza l’idea che Washington si sia impantanata a Fallujah per aiutare Israele nella sua infinita guerra contro gli arabi», ci spiega l’analista di Haaretz. La debacle irachena ha avuto finora risvolti soprattutto diplomatici. Da quando si parla di Iraq come di un secondo Vietnam, le conseguenze della debolezza americana hanno avuto un immediato ri- flesso sul suo più stretto alleato regionale. «Paghiamo non solo perché gli architetti della guerra sono ebrei. Paghiamo anche perché siamo i migliori amici di Washington in Medio oriente», dice Ashen Susser del centro studi Moshe Dayan di Tel Aviv. Susser fa una serie di esempi: gli alleati degli Stati Uniti in Europa, alle Nazioni unite e nel mondo arabo stanno chiedendo a Bush di prendere le distanze da Sharon in cambio di assistenza in Iraq; il leader Usa ha dovuto rimangiarsi in parte le promesse fatte al premier israeliano sul dossier palestinese a causa delle foto delle torture di Abu Ghraib; l’Unione europea, annusati i guai dell’America, sta rispondendo a ogni sua mossa pro-israeliana con iniziative a favore dei palestinesi o in generale filo-arabe; proprio in questi giorni ha risposto alle sanzioni statunitensi sulla Siria, scrollando le spalle e tirando dritto sui negoziati per un trattato di libero scambio con Damasco; alcuni dirigenti europei hanno candidamente detto al ministro degli esteri Silvan Shalom di essersi schierati a favore di una risoluzione Onu sulla «sovranità palestinese in tutti Territori» in risposta alla lettera con cui la Casa bianca diceva sì al piano di Sharon sul ritiro da Gaza e sul mantenimento di importanti insediamenti in Cisgiordania; quando Lakhdar Brahimi, l’inviato di Kofi Annan in Iraq, ha detto in un’intervista a Le Monde che Israele è «fonte di veleno» nella regione, l’amministrazione Bush si è guardata dal condannare le sue parole, nonostante le pressioni del Congresso. Fonti delle Nazioni unite hanno poi spiegato che la dichiarazione di Brahimi era importante per "legittimare" il suo lavoro. Non era così che pensava sarebbe andata Sharon, quando nell’estate del 2002 disse pubblicamente che «il punto non era se agire o non agire in Iraq, ma quando. Io dico al più presto». Non era questo che si aspettava il capo di stato maggiore generale Moshe Yalon la stessa estate, nei suoi numerosi incontri con Daniel Feith, Paul Wolfowitz e David Wurmser (tutti dirigenti del Pentagono, tutti firmatari di una lettera indirizzata al presidente e datata 20 settembre 2001, con la quale chiedevano l’invasione dell’Iraq, la distruzione degli Hezbollah libanesi, l’uso della forza contro la Siria e l’Iran, compilando in pratica la lista dei 4 principali nemici dello stato ebraico). «La leadership israeliana era entusiasta all’idea che gli americani avrebbero colpito uno stato arabo. Sharon ha anche sostenuto la tesi, rivelatasi infondata, che l’Iraq possedeva di certo armi di distruzione di massa – racconta Benn – Pensava anche che avrebbe avuto maggiore libertà di azione nei confronti dei palestinesi e che essi sarebbero stati più malleabili. Sperava che un Iraq democratico avrebbe avuto un effetto enormemente positivo su tutta la regione. L’Iran avrebbe abbassato la testa e così la Siria. La presenza nel cuore del Golfo dell’unica superpotenza avrebbe anche scosso l’Arabia Saudita e l’Egitto, costringendoli a riformarsi». Due anni dopo, le aspettative non hanno retto al confronto con la realtà. Se le cose sono andate storte è perché, secondo Benn, gli americani, neoconservatori inclusi, «non capiscono molte cose degli arabi e del Medio oriente. Prendiamo la recente intervista di Bush al quotidiano egiziano Al Ahram. L’intervistatore chiedeva dei diritti dei palestinesi, la terra rubata dalla barriera difensiva, il diritto al ritorno dei profughi. Ebbene, come rispondeva il presidente? Citando "aiuti alla classe imprenditoriale che stimoleranno gli affari nel futuro stato palestinese". L’impressione era del sordo che parla al muto». L’analista di Haaretz è convinto che, finora, Israele abbia tratto benefici da questa ignoranza. «Ma le cose stanno per cambiare. Gli americani non conosceranno la cultura araba, ma l’altissimo prezzo del petrolio è compreso molto bene a Washington e in Texas. Più forte diventa l’opposizione alla guerra negli Stati Uniti, più forte sarà la pressione a presentare il conto a Israele. E a quel punto non ci sarà neocon che tenga». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Europa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.