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Il Manifesto Rassegna Stampa
14.05.2004 Una prosa catastrofica per nascondere la verità
nel più puro stile comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 14 maggio 2004
Pagina: 3
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Su Gaza la vendetta di Sharon»
Sul Manifesto di oggi Michele Giorgio firma un articolo dal titolo " Su Gaza la vendetta di Sharon" che vuole essere la cronaca dei tre giorni di scontri nella striscia. Vuole essere perchè in realtà si tratta di un vero e proprio cahier des doleances pacifista nei confronti dell'operato dell'esercito israeliano. Michele Giorgio si dilunga nel descrivere il paesaggio del rione Zeitun dove interi edifici sarebbero stati rasi al suolo, a detta del giornalista, senza un preciso motivo. In seguito si legge nell'articolo la testimonianza della famiglia Kurdia, la cui casa sarebbe stata distrutta dagli israeliani e l'opinione di un impiegato che giustifica lo scempio dei resti dei soldati come conseguenza dell'occupazione. L'articolo si conclude con la cronaca degli avvenimenti di Rafah dove 11 palestinesi sono morti negli scontri, fra i quali soltanto 4 membri di Hamas. Interessante notare l'utilizzo del termine "poverissimo campo profughi" per creare un quadro di opposizione tra l'esercito israeliano occupante ricco e i poveri palestinesi che da 50 anni vivono nel campo profughi. Un'immagine che non può che toccare il cuore del manifestante girotondino smarrito e delle anime belle che leggono il Manifesto. E che non si chiederanno mai da chi questa povertà dipenda e chi ne sia responsabile. Per il Manifesto sarebbe uno shock scrivere che il responsabile è Arafat !
Ecco il pezzo:

Zeitun, alle porte di Gaza city, è come un paese terremotato, scosso da una violenta onda sismica. Ma a trasformare strade asfaltate in un percorso da motocross e a far inginocchiare tanti edifici, non è stata la potenza devastante della natura. A fare di Zeitun un inferno sono stati i bulldozer, i carri armati, i chili di dinamite usati dalle truppe israeliane. Dovevano distruggere solo le officine meccaniche sospettate, come ha spiegato il portavoce militare ¡ di produrre i rudimentali razzi Qassam e i mortai usati per colpire le colonie ebraiche. Le scene davanti ai nostri occhi raccontano invece di una rappresaglia durissima per l'agguato di martedì ai danni del blindato in cui sono rimasti uccisi sei soldati israeliani. La distruzione, il giorno successivo, di un altro mezzo corazzato, questa volta a Rafah, sul confine tra Gaza e l'Egitto, con altri cinque militari morti, ha contribuito ad aumentare la rabbia e la frustrazione di chi pensava di portare a termine a Zeitun un raid devastante ma della durata di poche ore, quelli che i reparti corazzati israeliani di solito compiono nei centri abitati palestinesi, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Le cose non sono andate come i comandi israeliani avevano previsto, la capacità militare dei palestinesi si è mostrata superiore alle aspettative. Senza contare i resti dei cadaveri dei soldati portati in trionfo nelle strade di Gaza city da militanti di Hamas che, così facendo, si sono macchiati di una grave violazione delle convenzioni internazionali. Riavere quei resti è costato a Israele il ritiro immediato delle sue truppe da Zeitun. Maher Abu Dakka, un impiegato, spiega quello spettacolo macabro e ingiustificabile, indicando con un gesto della mano le distruzioni gravissime subite da Zeitun. «Osservate cosa hanno fatto gli israeliani, hanno trasformato questo posto in un pantano, con le fogne che hanno allagato tutto e la strada che non esiste più. Ecco quelle case, è come se fossero state travolte da un tornado. Quando accade tutto questo i nostri giovani perdono la testa e commettono cose che non dovrebbero e che l'Islam condanna apertamente», sostiene Abu Dakka, che ha avuto la casa danneggiata dall'esplosione di una carica di dinamite usata dai soldati israeliani per radere al suo un «edificio sospetto».

Poco lontano i Kurdia piangono: questa famiglia, mercoledì in pochi attimi ha visto il palazzo doveva viveva trasformarsi in un ammasso di colonne di cemento armato e mattoni sotto l'onda d'urto dell'esplosivo. In quello stesso momento sono andati in frantumi i vetri di decine di abitazioni. La lunga Via Salah Edin non esiste più. A cancellarla sono state le ruspe militari che hanno sollevato metro dopo metro l'asfalto, abbattendo tutti i lampioni e i pali per le linee telefoniche. Il marciapiede è scomparso. Centinaia di metri di strada che il comune di Gaza city aveva fatto ristrutturare pochi mesi fa e che dovranno essere riparati con finanziamenti per milioni di dollari che i palestinesi non hanno. Proprio ieri l'Unione europea ha stanziato 28 milioni di euro per la Plaestina, che però serviranno soprattutto per forniture alimentari, servizi sanitari e di sostegno psicologico. Ma qui a Gaza c'è bisogno di tutto.

Cosa c'entrino la distruzione di Via Salah Edin, dei lampioni e delle centraline telefoniche di Zeitun con la cosiddetta «guerra al terrorismo», l'esercito israeliano non lo ha ancora spiegato. Ma a Gaza nessuno, tranne i familiari delle vittime di questi ultimi insanguinati giorni, ha voglia di essere triste e depresso. I due mezzi corazzati israeliani distrutti hanno ulteriormente accresciuto il prestigio dei movimenti islamici che conquistano nuovi consensi. La «libanizzazione» di Gaza è sostenuta dalla maggioranza della popolazione della Striscia e Hamas e Jihad sembrano, per il momento, inclini ad assecondare questa tendenza piuttosto che insistere con attentati contro civili in Israele. Anche se il portavoce di Hamas, Sami Abu Zughri, nega che il suo movimento abbia cambiato strategia. «Continueremo a lottare contro l'occupazione ovunque e senza sosta», ripete da giorni a tutti i giornalisti. Nel frattempo Hamas si gode il sostegno popolare e, allo stesso tempo, evidenzia il suo impegno nel sociale. Ieri mentre gli shebab di Hamas, armati di fucili e mitra, presidiavano Zeitun a voler ribadire che la «vittoria» è stata ottenuta grazie al suo impegno, altri attivisti del movimento islamico partecipavano ai lavori di riparazione di Via Salah Edin.

«Nessuno ha mai detto che la lotta contro l'occupazione israeliana sarebbe stata facile. Sapevamo tutti che le nostre sofferenze sarebbero state tante e le distruzioni immense. Nonostante ciò continueremo a combattere ma anche a dare il nostro contributo per alleviare le difficoltà che Israele causa alla nostra gente», aggiunge Abu Zughri osservando un gruppo di giovani che spalano fango e detriti. A breve distanza proseguono nel frattempo le manifestazioni delle organizzazioni palestinesi. Tutte si attribuiscono il merito della vittoria su Israele. Un ragazzo, non avrà più di 15 anni, mentre vediamo sfilare un corteo delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, ci mostra un giornale locale.

«Guarda queste foto, Sharon e i suoi soldati sono tristi, noi palestinesi siamo felici», dice con tono soddisfatto. I suoi compagni approvano con cenni di assenso. Per un giorno tutti vogliono credere che la liberazione dei Territori occupati si sia fatta più vicina, che l'esercito israeliano sia rimasto profondamente scosso dalla perdita di 11 soldati e due mezzi corazzati.

Ma da Rafah, più a sud nella Striscia, arrivano ben altre notizie, che non parlano di vittoria ma di morte. Dodici palestinesi, dei quali soltanto quattro «colpevoli» di opporsi in armi all'occupazione israeliana, sono stati uccisi nel poverissimo campo profughi di Rafah. Secondo la ricostruzione fornita dal Palestinian center for human rights (Pchr), un missile sparato da un elicottero israeliano ha centrato in pieno il campo, uccidendo all'istante sette civili. Gli altri morti sono arrivati invece nel corso dei combattimenti.
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