Salvare i princìpi della democrazia nella lotta al terrorismo così avviene in Israele
Testata: Il Foglio Data: 12 maggio 2004 Pagina: 4 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Così Israele si sforza di salvare la sua anima e le sue vite»
Sul Foglio di oggi Emanuele Ottolenghi si sofferma sulla storia della "tortura" in Israele. Utile per capire le ragioni di prassi esecrabili che però in alcuni casi e in ben precise forme aiutano a salvare la vita di molte persone.
Il 12 aprile 1984 un commando palestinese s’impossessò di un bus israeliano. Forze israeliane attaccarono il veicolo per liberare i prigionieri, riuscendo nell’impresa e catturando due terroristi, che, usciti vivi dal conflitto a fuoco, giunsero in ospedale cadaveri. Le forze di sicurezza sostennero che due erano morti per le ferite subite, ma alcuni fotografi avevano immortalato la loro cattura in fotografie che mostravano i due illesi, ammanettati e portati via da agenti in borghese. Nel corso della polemica che ne seguì, si scoprì che i due erano stati uccisi a sangue freddo. Il procedimento penale fu interrotto nel ’86 dal perdono presidenziale, ma un altro caso d’abuso su un prigioniero alla fine degli anni 80 portò alla nomina di una commissione d’inchiesta sull’uso della forza nel corso di interrogatori, nella sfera della sicurezza nazionale. La commissione produsse un rapporto. Come nel caso recente degli abusi contro prigionieri iracheni, la questione preliminare affrontata era se ci si trovasse davanti a casi isolati o se si avesse a che fare con un uso sistematico e autorizzato della forza. L’inchiesta chiarì che non si trattava di eccezioni. Nella sua pluridecennale lotta al terrorismo, Israele aveva adottato sistemi d’interrogatorio simili a quelli utilizzati dalle forze di sicurezza britanniche in Irlanda del Nord. La commissione cercò di stabilire una serie di parametri per limitare il ricorso alla violenza senza ledere l’imperativo di ottenere informazioni vitali per la sicurezza della nazione e mantenere le attività di intelligence all’interno di standard da Stato di diritto. Tali parametri stabilivano quali metodi fossero eccezionalmente consentiti e in quali eccezionali circostanze fosse possibile farvi ricorso. Ne fu autorizzato l’uso per ottenere informazioni in situazioni di "bombe innescate", cioè quando il rischio di attentato giustificava la violazione di alcuni diritti dell’interrogato. Tale distinzione è importante, poiché l’uso di pressioni fisiche non è mirato, nel caso israeliano, all’estorsione di una confessione a crimine avvenuto (come è il caso della tortura in regimi di polizia) ma di informazioni per prevenire un crimine. La commissione permise il ricorso a misure estreme per facilitare l’ottenimento di informazioni per salvare vite umane. Nonostante ciò, l’ampia discrezione concessa agli investigatori e la segretezza hanno poi lasciato spazio ad abusi. La commissione aveva autorizzato il ricorso a pratiche documentate anche in Iraq: privazione del sonno, rumore (musica a tutto volume), interferenza con l’orologio biologico del prigioniero, esposizione a temperature estreme, isolamento prolungato, pressioni psicologiche. L’elaborazione di parametri e procedure chiare, inclusi l’obbligo di autorizzazione per ogni caso, la possibilità di ricorso del detenuto in un procedimento d’urgenza e il controllo delle attività dei servizi da parte di una commissione parlamentare non hanno però impedito abusi, sfociati nella morte di un detenuto nel ’95, a seguito di un procedimento "autorizzato" di scuotimento del soggetto da parte di un agente, procedimento che può comportare (come nell’episodio citato) un’emorragia cerebrale. Tali pratiche sono infine state valutate dalla Corte suprema israeliana in una sentenza del ’99, che ha sancito il divieto assoluto di ricorso a certi mezzi per ottenere informazioni, anche in situazioni di pericolo imminente. I metodi sotto accusa sono stati vietati in maniera assoluta poiché atti a degradare la dignità del sospetto e a lederne la persona fisica. Questo non significa che l’interrogatorio non possa presentare aspetti spiacevoli e che alcune delle conseguenze dell’interrogatorio possano anzi produrre privazioni fisiche. In casi di emergenza, è lecito condurre lunghi interrogatori, impedendo al prigioniero di dormire. Se esiste un fondato timore di pericolo imminente, il rapido ottenimento di informazioni giustifica la pratica, che però fine a se stessa non può essere giustificata. Lo stesso vale per la pratica di coprire il viso del detenuto per impedirgli di riconoscere gli agenti o per quella di suonare musica ad alto volume per impedire che i prigionieri possano comunicare tra loro. Per la corte, è lecito bendare un prigioniero, ma non coprirgli il volto con un sacco di tela che può provocare soffocamento. Per impedire ogni comunicazione tra prigionieri, basta metterli in celle isolate. Questo dettagliato esame ha permesso alla corte di vietare alcune pratiche, perché particolarmente degradanti, e di distinguere tra sistemi inaccettabili, perché lesivi della dignità umana, della persona fisica e senza secondi fini, e metodi che possono causare sofferenza e privazioni, ma che rientrano in normali procedure di interrogatorio. Questi ultimi sono giustificabili, vista l’emergenza, e pur limitando le libertà civili non costituiscono tortura. Un esempio: tenere un prigioniero ammanettato per ore durante un interrogatorio è giustificato. L’uso di manette strette che provocano ferite non è giustificato nè giustificabile in nessun modo. Restava, a conclusione del giudizio della corte, la consapevolezza che Israele affrontava e affronta una grave emergenza terrorismo. Cosciente del dilemma di fronte al quale la democrazia si trova, la corte israeliana ha cercato di offrire un giusto mezzo. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.