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La Stampa Rassegna Stampa
11.05.2004 Il progetto di democratizzazione irrita moltissimo gli arabi
Fiamma Nirenstein spiega perchè

Testata: La Stampa
Data: 11 maggio 2004
Pagina: 30
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Orgoglio arabo e pregiudizio»
Su la Stampa di oggi Fiamma Nirenstein compie una lucida analisi sulla situazione del mondo arabo e delle sue possibili reazioni al piano americano denominato "Greater Middle East". Il progetto di democratizzazione irrita moltisssimo gli arabi. Fiamma Nirenstein ci spiega il perchè.
Ecco il pezzo:

MANCANO pochi giorni a un vertice importante per i G8: quello in cui sarà presentata la bozza, anzi la nuova bozza, del progetto americano per il «grande Medio Oriente», the Greater Middle East Initiative. Gli Usa a Sea Island cercheranno di tener duro se non sull'idea originaria di un’autentica rivoluzione democratica capace di chiudere il capitolo del terrorismo che promana dai 22 paesi arabi autocratici del mediorente, almeno su una versione più edulcorata. Dopo che il progetto originario è stato tacciato tante volte di essere imperialista e irrealizzabile, Bush presenterà uno schema che viene incontro ai principi espressi da Hosni Mubarak insieme ai principi sauditi al momento in cui trapelò la prima bozza di lavoro. Il rais egiziano protestò dicendo: «La nostra scelta è procedere sulla strada della modernizzazione e della riforme restando fedeli agli interessi e ai valori del nostro popolo». La tesi della «democratizazione imperiale» fu usata a marzo anche per spiegare il fallimento del vertice della Lega araba di Tunisi. Si riproponeva così un'idea molto popolare oggi in Europa: la strada delle riforme, pur necessaria (soprattutto per ragioni strutturali, dato che fra sei anni i Paesi Arabi avranno sul mercato del lavoro altri cinquanta milioni di persone a fronte di un autentico disastro economico, sociale, culturale, tecnico) non può essere copiata sui modelli di parità fra uomo e donna, di diritti umani, di libertà imprenditoriale e di movimento che hanno ispirato il progresso in Occidente. Quindi l'idea della democrazia, della giustizia e dei diritti della persona, se applicata al mondo musulmano, di fatto deve «sgorgare dall'interno».
Il progetto di democratizzazione importata irrita moltissimo gli arabi. L'intellettualità non dissenziente, che in genere cavalca posizioni estremiste, la considera offensiva; questo non avviene, per esempio, in Iran, dove l'odio integralista della leadership verso l'Occidente ispira presso la popolazione soprattutto sentimenti affettuosi verso gli Usa e l'occidente; mentre nei paesi «moderati», il politically correct nei salotti e nelle università del Cairo, di Amman, di Ryad, per non parlare di Damasco, arriva al sostegno del terrorismo. Il professore egiziano Gala Amin, per esempio su Al Ahranm settimanale scrive sull'opportunità di portare la democrazia in Medio Oriente: «Un'opportunità per che cosa? Per le riforme? In che campi? Democrazia, cultura, emancipazione femminile? Che diritto avete di interferire nei fatti nostri? Abbiamo chiesto aiuto? Che razza di stupidaggine è questa? Ci siamo lamentati? La verità è che la diffusione del terrorismo minaccia la sicurezza europea e americana, e qualcosa deve essere fatto. Ma chi vi garantisce che un governo eletto democraticamente, che riflette le opinioni del suo popolo, non vi attaccherebbe col terrorismo e la cultura? I terroristi, non sono letterati? E le donne? Forse che le donne palestinesi terroriste suicide non sono emancipate? Sono educate, indipendenti e sicure di sé. E tuttavia, voi vedete i loro gesti come terrorismo. Forse che - conclude ironico il professore - vorreste vedere un altro tipo di emancipazione?».
Il professor Gala, il cui cinismo sciovinista si commenta da sé, non manca troppo il centro: non certo perché nei progetti di democratizzare il Medio Oriente sia contenuto un elemento coloniale (le note di programma non prevedono altro che un'agenzia multilaterale, un progetto di alfabetizzazione, finanziamenti alle piccole imprese, un forum di partnership con i G8, niente uso della forza) ma perché il fine di democratizzare il Medio Oriente è certamente nato nell'ambito della guerra al terrorismo, oltre che per salvare centinaia di milioni di persone dalla miserabile vita di un regime illiberale: torture (applicate istituzionalmente senza nessuno scandalo internazionale!), condanne a morte senza processo, detenzioni extragiudiziarie e per delitti di opinione.
Braccia rotte
in prigione
I problemi qui indicati si danno continuamente appuntamento nei paesi mediorentali: per esempio, la Siria accusata da re Abdullah di avere concesso il passaggio di armi di distruzioni di massa verso Amman per consentire a Al Qaeda un attacco terrorista massiccio, nei giorni scorsi ha anche contato sul suo terreno morti e feriti ribelli; nelle sue prigioni aumentano i rei di opinione (Aktam Naisse dal 14 aprile in carcere per una petizione a favore della democrazia è riapparso al processo con le gambe e le braccia rotte); i suoi giornali sono tarati sulla parola Israele per metterla sempre fra virgolette, come se non esistesse; la radio di Stato il 16 aprile ha trasmesso il sermone dello sceicco Muhammad Abd al Rahman Barakat che prometteva di aiutare il popolo iracheno a «restaurare la sua sicurezza e prosperità» e affermava che Assad «riattiva la solidarietà araba e islamica per riconquistare la terra del nemico sionista». Hamas e gli Hezbollah con l'aiuto iraniano vi trovano rifugio e rifornimenti. Il vicino Libano è in buona parte occupato dalle sue truppe. Le autocrazie mediorentali, chi più chi meno, producono una vita asfissiante per i propri cittadini e alimentano una propaganda anti occidentale che aiuta i terroristi da tutti i punti di vista.
La «stabilità» mediorentale è un mito costruito sul presupposto che la dittatura sia intrinseca al mondo arabo. Non è vero. Ci sono forze democratiche autoctone in Medio Oriente come c'erano nell'Urss. La verità è che quando Amru Mussa disse del piano di democratizzazione: «questa politica minaccia l'intera stabilità del medio Oriente», di fatto si riferiva a una stabilità del tutto inauspicabile per il mondo occidentale, da ogni punto di vista. La stabilità dei rais. Come si può fare la pace in Medio Oriente, con il regime di Arafat che ha sempre visto nel terrore un'arma strategica e che nelle scuole insegna l'odio, mentre i suoi dissidenti (specie i giornalisti) vengono imprigionati o uccisi, con la scusa che sono «collaborazionisti»? E perché il moderato Egitto lascia che sul governativo al Gumohorriyya un importante giornalista come Abd al Wahhad Adas scriva «sono gli ebrei con le loro mani insanguinate e puzzolenti dietro tutti i problemi... la loro più recente operazione è l'attentato di Madrid».
Questa è incivile cultura di guerra. Non è un caso che in tutto il mondo arabo la decisione (oggi in questione) di Sharon di abbandonare e smantellare Gaza e parte del West Bank, sia stata propagandata come una nuova trama imperialista: è la stessa visione per cui, come dice l'analista palestinese Ali Sadek, «Bush cerca scuse per intimidire i governi arabi e constringerli a giocare un ruolo funzionale alla sua politica imperialista».
Una «stabilità»
da 400 mila morti
Indicare Israele e Bush come imperialisti è il contrappeso dell'altra parte del discorso, come dice un rappresentante dell'esecutivo dell'Olp Taisir Khaled: «Speriamo che l'Iraq recuperi il suo ruolo nel difendere gli interessi degli arabi».
E' un'invocazione alla «stabilità»? In questo caso è difficile immaginare che Khaled non sappia che la stabilità di Saddam era quella della strage dei curdi, quella che ha fatto 400 mila morti e che ha dato 25 mila dollari a ogni famiglia dei terroristi suicidi palestinesi. La stabilità araba non è quella dei popoli. E invece è dallo stato della popolazione che se ne deve giudicare la bontà. Prendiamo la migliore delle evoluzioni possibili: quella per cui Muhammar Gheddafi ha dichiarato, preoccupato dopo le vicende irachene, di rinunciare alle armi di distruzione di massa. Quando William Burns ha visitato il rais libico, ha chiesto di vedere il prigioniero di coscienza Fathi Eljami, che Gheddafi aveva promesso di liberare; non gli è stato permesso e più tardi Eljami è sparito.
In Iran un'opposizione rivoluzionaria non riesce a cambiare il regime perché non viene sostenuta dall'esterno: eppure la speranza che i «riformisti» iraniani riusciranno ad avere la meglio sugli ayatollah non si realizza, si continua a preparare la distruzione balistica (dichiarata) di Israele, si armano gli hezbollah, e si imprigionano migliaia di persone fra cui, recentemente, il giornalista settantacinquenne Siamak Pourzand, cardiopatico grave, imprigionato per un documento che chiedeva la democrazia, torturato, forzato a confessare crimini immaginari alla tv. O Zahra Kazemi arrestata, picchiata, caduta in coma, deceduta. La conclusione è che la stabilità può essere una minaccia sia per noi che per i cittadini dei paesi autocratici, che la rivoluzione democratica è indispensabile sia alla guerra contro il terrorismo sia ai diritti umani. Noi italiani, al G8, possiamo avere un ruolo importante tenendo una linea «rivoluzionaria» a favore dei diritti umani che però riproponga il piano Marshall in aiuto ai palestinesi ancorandolo alle riforme indispensabili nella vita e nell'educazione. Questo mette in crisi la «stabilità»? Certo! Sarà un bene per la pace e per i palestinesi.
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