Iraq: la carta Chalabi che l'Occidente non ha saputo giocare
Testata: Il Foglio Data: 10 maggio 2004 Pagina: 3 Autore: un giornalista Titolo: «Ahmed Chalabi e l'Iraq»
Che Ahmed Chalabi sia la carta meno giocata dall'Occidente sono in molti a pensarlo. Due articoli sul Foglio di sabato 8 maggio ci aiutano a capire.
1) "Il mistero Chalabi come sintesi delle incertezze irachene" Milano. Il giorno dopo la sua cattura, Saddam Hussein ricevette la visita di un signore sulla sessantina, paffuto e calvo. Lo riconobbe al primo sguardo: era Ahmed Chalabi. "Così stai diventando il nuovo capo dell’Iraq?", chiese Saddam. Chalabi non rispose, uscì dalla cella e confermò l’identità del prigioniero. Poi spiegò il suo silenzio: "Non si prendono ordini da un dittatore, men che meno da un criminale di guerra". Chalabi detesta Saddam quanto Saddam detesta Chalabi: quest’ultimo proviene da un’antica famiglia sciita irachena, i Kennedy dell’Iraq, andata in esilio quando il partito Baath prese il potere in Iraq. Chalabi aveva 12 anni e ha passato il resto della sua vita a cercare di togliere di mezzo Saddam. Per farlo ha creato un partito, il Congresso nazionale iracheno (Inc), e un network internazionale – amici (e nemici) dal mondo arabo a quello americano – talmente efficace che quando gli Stati Uniti hanno deciso di muovere guerra all’Iraq, il primo nome che è venuto in mente ad alcuni membri dell’amministrazione Bush per il dopo Saddam è stato quello di Chalabi.
La prima mossa Il sostenitore più fedele è Richard Perle, amico di Chalabi da quando entrambi studiavano all’Università di Chicago, dove conobbero Albert Wohlstetter, lo stratega militare che fu tra i primi a predicare guerre rapide e basate su armi intelligenti. Il passo da Perle agli altri neoconservatori, tra cui soprattutto Paul Wolfowitz, è stato breve, e la credibilità di Chalabi è aumentata agli occhi di Bush, nonostante i detrattori – molti nella stessa Amministrazione – continuassero a ritenerlo un personaggio controverso. I neocon lo hanno anche promosso come alleato nella strategia proisraeliana: Chalabi ha più volte sostenuto con interlocutori arabi la necessità di riconoscere Israele, e in un’intervista al Jerusalem Post nel 1998 ha descritto l’ostilità verso Israele come "uno scontro esoterico che è diventato un sostituto del reale progresso verso la democrazia e i diritti umani in Iraq". Quando Chalabi è entrato a Nassiriyah, dopo 47 anni di esilio a bordo di elicotteri del Pentagono, pareva l’uomo nuovo che avrebbe contribuito a stabilizzare l’Iraq. La prima mossa di Chalabi è stata quella di sostenere i tentativi di debaathizzare l’Iraq, spodestando i collaboratori di Saddam e coloro che avevano avuto contatti con il partito di regime, e investendo sui suoi legami con la leadership sciita locale e sui suoi buoni rapporti con Teheran. Quando però, nell’estate scorsa, è scoppiata la polemica sul mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa, il credito di Chalabi ha incominciato a scricchiolare, soprattutto tra alcuni esponenti del Dipartimento di Stato americano e della Cia. I primi avevano spesso sostenuto che Chalabi non fosse l’uomo giusto perché non era né conosciuto né apprezzato in Iraq, soprattutto per il fatto di essere stato in un esilio per quasi cinquant’anni. La Cia si era già scontrata con Chalabi a metà degli anni 90, quando il leader dell’Inc aveva organizzato nel Kurdistan iracheno una rivolta contro Saddam tesa a favorire un colpo di Stato. Nel momento in cui le armi di distruzione di massa sono diventate un tema scottante, il nome di Chalabi è diventato sinonimo di capro espiatorio. Secondo molti, infatti, Chalabi è stato la fonte più rilevante del dossier secondo il quale Saddam stava costruendo un arsenale nucleare e aveva contatti con la rete di al Qaida. Nel settembre 2002, resoconti forniti dall’Inc sugli addestramenti sospetti di molti iracheni – volti a "dirottare aerei e treni, mettere esplosivi nelle città, sabotare e uccidere" – trovarono spazio nei report della Casa Bianca. Molte delle prove fornite dal segretario di Stato, Colin Powell, al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel febbraio 2003 provenivano da dossier compilati con l’aiuto dell’Inc, mentre gran parte degli scoop sulle prove dell’arsenale segreto di Saddam, scritti da Judith Miller sul New York Times, si basavano su notizie provenienti dall’entourage di Chalabi (che ha sempre negato di aver fabbricato report falsi e quando è stato interpellato su eventuali errori nella gestione delle accuse sulle armi nucleari ha risposto: "We are heroes in error", commettiamo errori, ma siamo eroi, perché abbiamo detronizzato Saddam). Come membro del Consiglio governativo in Iraq, Chalabi ne ha preso la presidenza (a rotazione) nel settembre scorso. In questa veste ha cercato di aumentare il potere – economico e militare – del Consiglio, appoggiando l’idea di un immediato passaggio di poteri dal governo provvisorio guidato da Paul Bremer al consiglio governativo, ma dopo una dura azione di neutralizzazione delle sacche di guerriglia presenti nel paese. Chalabi si è inserito così nell’incertezza dell’Amministrazione Bush: se da un lato molti sostenevano la necessità di diminuire le responsabilità di Bremer nel più breve tempo possibile, in modo da togliere agli angloamericani l’etichetta di forze occupanti, dall’altro l’Amministrazione era in cerca di una risoluzione dell’Onu per l’intervento di una forza multinazionale e per la creazione di un piano di passaggio della sovranità con scadenze definite, in modo che non prendesse il potere un Consiglio governativo che, pur essendo composto da iracheni e rappresentativo, non era stato eletto, ma designato dalla coalizione. Nel frattempo molti nell’Amministrazione si sono convinti che l’ambiguità della figura di Chalabi si stesse trasformando in un’arma nelle mani dei detrattori della presenza americana in Iraq. Il leader dell’Inc ha più volte detto di non voler fare il gioco dei nemici degli Usa, ma di voler perseguire la missione di debaathificazione e di passaggio di poteri agli iracheni. Quando a novembre le date del passaggio di sovranità sono state chiare, e con esse quelle delle elezioni, Chalabi ha creduto di essere ancora l’uomo giusto al momento giusto, colui che avrebbe governato nell’interregno dal luglio 2004 al gennaio 2005 e che, forte del ruolo svolto in quei mesi, avrebbe potuto vincere alle urne. Il suo astro era ancora così splendente che durante il discorso sullo Stato dell’Unione di Bush nel gennaio scorso, Chalabi era al posto d’onore, di fianco alla moglie del presidente americano.
Si è accapigliato con Brahimi Con il riaccendersi delle ostilità in Iraq e il ruolo di preminenza di Lakdhar Brahimi, inviato dell’Onu, e autore di una proposta appoggiata da molti al di qua e al di là dell’oceano, il ruolo di Chalabi è andato via via riducendosi e si sono rivalutate le quotazioni dei suoi detrattori. Mentre l’Onu comincia a giocare un ruolo più decisivo nella questione irachena e gli Stati Uniti appoggiano un ridimensionamento del loro coinvolgimento, ecco che anche i volti destinati a condurre l’Iraq fuori dal dopoguerra cambiano. Chalabi continua a ricevere il suo stipendio dagli Stati Uniti di 340 mila dollari al mese – come avviene da più di due anni – ma si è già accapigliato con Brahimi, a causa della decisione, appoggiata anche dagli Stati Uniti, di reinserire nel governo alcuni personaggi del Baath: Chalabi ha commentato questa scelta dicendo che ha lo stesso significato "di un reinserimento dei nazisti nel governo dopo la Seconda guerra mondiale". Nel frattempo sulla stampa è stato più volte accusato di aver passato notizie sensibili sulla strategia americana all’Iran, nonché di aver usato il suo potere per favorire amici negli appalti per la ricostruzione: elementi che inficiano la sua posizione e fanno allontanare le sue ambizioni di governo. Anche se lui stesso, all’inizio della campagna irachena, aveva detto: "Non sono alla ricerca di alcun ruolo politico". 2) "La sindrome Chalabi come ingombrante eredità americana" Roma. "Sindrome Chalabi", così gli storici chiameranno probabilmente il complesso di errori che hanno segnato la politica irachena di tre Amministrazioni americane dal 91 a oggi. Lo sciita laico Ahmed Chalabi simboleggia infatti i fallimenti della cultura americana (qualsiasi sia il partito alla Casa Bianca) nel processo di scelta delle classi politiche autoctone su cui fare perno per il nation building" nelle aree di crisi. E’ il vecchio, terribile problema che segnò già la crisi vietnamita e che portò a una sconfitta che non fu militare, ma essenzialmente politica (come s’insegna a West Point), perché l’indifendibile regime vietnamita si sfaldò lentamente su se stesso. Né Kennedy, né Johnson, né Nixon seppero fare altro che passare di regime in regime, sempre espressioni delle corrotte élites tecnocratiche e militari cattoliche sudvietnamite che gli Stati Uniti avevano ereditato dall’imperialismo francese. In Iraq, prima dell’11 settembre, Washington, le ha provate tutte per abbattere Saddam, e buona parte di queste opzioni erano legate, in modo fallimentare, a Chalabi. Nel febbraio ’91, George Bush lancia un appello agli iracheni perché insorgano contro Saddam. Un caso da manuale del politically correct: con le colonne corazzate a 100 km da Baghdad, il generale Schwarzkopf lascia che il popolo iracheno risolva la partita da solo, rispettoso del principio che la "libertà non si può esportare con i fucili". E’ il massacro: 150 mila morti in pochi giorni; la prova che il popolo iracheno non sa liberarsi da solo. L’Amministrazione Clinton favorisce poi un "colpo di Stato" alla Galeazzo Ciano, che culmina l’8 agosto del ’95 con la fuga ad Amman dei due potenti generi di Saddam – Kamel e Hassan al Majid, nipoti di "Alì il chimico" – e si conclude il 26 febbraio ’96 con il loro rientro in patria e la loro uccisione. Subito dopo, la Cia tenta l’insurrezione militare che culmina in un eccidio: Saddam è al corrente del complotto degli uomini di Chalabi e di Iyyad Alawi (l’uno leader dell’Iraqi National Congress, Inc, l’altro dell’Iraqi National Accord, Ina), arresta 300 alti ufficiali (soprattutto dell’aviazione) e ne porta 162 davanti al plotone d’esecuzione. Il 13 settembre ’96, il servizio segreto di Saddam cattura a colpo sicuro centinaia di oppositori arabi, turkmeni e curdi a Mosul, Kirkuk e Baghdad: 100 sono fucilati. "E’ una nuova Saigon", titola il Washington Post; da quel momento Cia e Dipartimento di Stato decidono di chiudere con Chalabi e Alawi, che diventano i punti più caldi su cui si scaricano le tensioni con il Pentagono. Il 20 ottobre 1998 il Congresso americano approva un "Iraq Liberation Act" che "raccomanda" al presidente Bill Clinton di finanziare l’opposizione irachena con 97 milioni di dollari. Il piano, definito "una pura idiozia" da alcuni esperti della Cia e del Pentagono, ha vicende grottesche. Il 2 febbraio 2001, il Washington Post annuncia che ai quattro milioni di dollari consegnati Chalabi nel settembre 2000, si aggiungeranno 8 milioni di dollari, ottenuti dall’Amministrazione Bush. Ma il 5 gennaio 2002, arriva la doccia fredda: il Dipartimento di Stato decide di sospendere ogni finanziamento Chalabi. Lo scandalo è conseguenza dei risultati di un’ispezione, così sintetizzati da Gregg Sullivan, del Dipartimento di Stato: "Non sanno tenere la contabilità dei fondi ricevuti. I loro controlli sono insufficienti non in sintonia con le leggi americane". Ma Richard Perle, consigliere di Rumsfeld, e Dipartimento della Difesa continuano puntare su Chalabi: è l’erede di una delle grandi famiglie irachene (suo nonno fu presidente del Senato, a inizio ’900 la sua famiglia fondò la società di tramway a Baghdad), e quindi rafforzerà il suo movimento erogando i miliardi di dollari della ricostruzione a colpo sicuro, nei gangli vitali della società irachena. Lo schema, molto da jointventures, da project financing, si rivela subito irrealistico. Gli americani, per scelta, non hanno imposto un leader, nemmeno Chalabi, agli iracheni, ma speravano che il capo dell’Inc potesse creare una consistente forza politica filoamericana in Iraq. Anche queste aspettative sono poi state ridimensionate dai fatti. Chalabi e Alawi avevano già fallito durante la guerra: si rivelano infondate le indicazioni che forniscono sui quartieri generali iracheni pronti a disertare. Nessuna divisione cambia di campo, tutte si squagliano, ma non si alleano con gli Stati Uniti. Caduto Saddam, Paul Bremer, si trova così a dover gestire anche questa ingombrante eredità delle divisioni interne a Washington e, invece di stringere subito rapporti solidi con l’ayatollah al Sistani, unico interlocutore sciita attendibile e popolare, perde tempo dietro al "network" civile di Chalabi che si rivela inconsistente. Chalabi, infine, prende atto del proprio declino e tenta un rimedio: si appiattisce su al Sistani e attacca sempre più violentemente i suoi ex amici americani; punta a raggranellare voti alle elezioni del 2005 e cerca altri padrini. I maligni dicono: li cerca a Teheran. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.