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La Stampa Rassegna Stampa
06.05.2004 Ecco come si comporta una grande democrazia
a differenza delle dittature dove le torture sono la prassi

Testata: La Stampa
Data: 06 maggio 2004
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Le sevizie e la morale del leader»
Hanno suscitato grande scalpore in tutto il mondo le immagini delle torture di alcuni soldati americani ai danni di prigionieri iracheni. La condanna di questi atti non può che essere unanime e la forza della democrazia sta anche in questo. Bene ha fatto il presidente Bush a scusarsi per questi atti, non per questo però bisogna condannare complessivamente tutti i soldati americani, come alcuni si sono affrettati a fare.
La democrazia fa sì che fatti del genere diventino di dominio pubblico e allo stesso modo fa sì che chi sbagla paghi. A questo proposito pubblichiamo l'editoriale di Maurizio Molinari uscito sulla Stampa di oggi. Chiaro ed equilibrato.

Incalzato dallo scandalo più grave dall’inizio della sua presidenza, George W. Bush reagisce assicurando che i soldati-torturatori che hanno infangato il nome degli Stati Uniti saranno trattati alla stregua dei terroristi di Al Qaeda: verranno trovati e portati di fronte alla giustizia.
Il messaggio che ha consegnato agli intervistatori delle tv arabe ha due destinatari. Agli iracheni, ed al più vasto pubblico musulmano, Bush vuole dimostrare con i fatti la differenza che passa fra democrazia e dittatura: fra chi ammette e punisce gli errori e chi commette e nega i crimini più terribili. Agli americani invece Bush vuole testimoniare che l'amministrazione non ha scheletri nell'armadio e non ha mai autorizzato torture e maltrattamenti, è stata colta di sorpresa da atti e comportamenti «non-americani».
In entrambi i casi il percorso del Presidente americano si annuncia tutto in salita. In Medio Oriente, dove la dietrologia conta assai più delle notizie, sarà difficile dichiarare il caso chiuso anche quando tutti i responsabili saranno identificati, processati e condannati. Negli Stati Uniti, dove siamo nel pieno di una tesa campagna elettorale, l'amministrazione repubblicana finisce sotto processo di fronte al Congresso per la terza volta in meno di due mesi: dopo le audizioni sugli errori militari compiuti in Iraq e la mancata prevenzione degli attacchi dell'11 settembre 2001, iniziano adesso quelle sulle torture. Stretto fra le insidie di Baghdad e quelle di Washington il Presidente non è mai apparso così in difficoltà. Agli occhi del mondo arabo deve allontanare il sospetto che l'America parli di diritti e libertà ma compia ogni nefandezza per tutelare i propri interessi. Agli occhi dei propri concittadini deve smentire l'ipotesi che le torture siano in realtà una pratica sistematica, ordinata dopo l'11 settembre, messa in atto prima a Guantanamo e poi in Iraq da militari come il generale Geoffrey Miller, uno dei nomi dello scandalo.
I prigionieri incappucciati nelle celle di Abu Ghraib rischiano di far perdere a Bush ciò a cui lui tiene di più e che più lo lega al proprio elettorato: il fondamento morale della leadership.
Ma come già avvenuto nelle altre occasioni di forti difficoltà, politiche e militari, che hanno costellato la sua presidenza, Bush non indietreggia né tentenna bensì fa capire di ritenere di avere la coscienza a posto, di essere nel giusto e rinnova la determinazione con cui guida l'America in una guerra al terrorismo che, come tutti i conflitti, è disseminata di insidie, passi falsi, errori e pericoli. Scommettendo sulla propria capacità di rappresentare i valori a cui gli americani tengono di più: libertà, responsabilità personale, eguaglianza dei diritti.
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