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La Stampa Rassegna Stampa
05.05.2004 Il Presidente del Senato dal vicepresidente Usa Dick Cheney
Sull'Iraq: Marcello Pera spiega perchè anche l'Europa dev'essere coinvolta

Testata: La Stampa
Data: 05 maggio 2004
Pagina: 9
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Pera: «Iraq, l’Europa non sia neutrale»»
Su La Stampa di oggi Maurizio Molinari intervista il presidente del Senato Marcello Pera in visita ufficiale negli Stati Uniti. Pera si sofferma sul problema del terrorismo e analizza le ragioni della spaccatura atlantica.
In Europa serpeggia una volontà di neutralità fra Stati Uniti e terrorismo. Questa tentazione ha radici nei sessant'anni che sono passati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nei quali ci siamo abituati a considerare la pace una sorta di diritto naturale, dimenticando che comporta dei costi». Così il presidente del Senato, Marcello Pera, descrive la tentazione di quella parte di Europa che «vuole lasciare soli gli Usa» nella guerra al terrorismo. Ciò che lui suggerisce è di remare in senso opposto: «Se l'Onu darà via libera al contingente multinazionale in Iraq, l'Europa dovrà partecipare in forze».
Marcello Pera, oggi lei viene ricevuto dal vicepresidente Dick Cheney alla Casa Bianca. L'incontro segue le visite a Washington di Franco Frattini, Letizia Moratti e Gianfranco Fini ed anticipa quelle di Giuseppe Pisanu e di Berlusconi, che il 19 maggio vedrà Bush prima dell'arrivo dello stesso Bush a Roma il 4 giugno. A memoria di feluca è difficile ricordare un periodo con così tanti bilaterali in così breve tempo. Cosa c'è dietro la relazione speciale fra Italia e Usa?
«C'è il fatto che l'Atlantico si è allargato a causa di una sfortunata divisione fra gli Stati Uniti ed alcuni Paesi europei. In questa cornice l'Italia ha fatto una scelta di campo molto netta e precisa a favore degli Usa e ciò ci ha reso popolari fra gli americani molto più di quanto non fosse non troppo tempo fa. Spinta da questa scelta vi è stata una riscoperta dei motivi che ci uniscono agli Usa, dalla cultura all'immigrazione. Ma tutto è iniziato da una questione contingente: gran parte della Vecchia Europa ha pensato di staccarsi dagli Usa, nel tentativo di diventarne il contrappeso».
E' a questa metà dell'Europa che si è riferito quando, di fronte alla Anti-Defamation League (Adl), ha detto che una parte del Vecchio Continente non vuole combattere?
«C'è una parte dell'Europa che non ha ancora la consapevolezza della gravità della situazione, del rischio che grava su di noi, e che quindi è tentata dall'appeasement, dall'assumere una sorta di neutralità fra gli Stati Uniti ed il terrorismo».
Da dove viene la tentazione di dichiararsi neutrali?
«Dal fatto che in Europa c'è un ritardo rispetto all'analisi culturale del fenomeno del terrorismo. L'errore è ritenere che il terrorismo sia una questione che riguarda prevalentemente gli Stati Uniti, che non tocca ancora l'Europa e che noi possiamo trovare una scappatoia».
In che cosa consiste il ritardo?
«Nel non rendersi conto che il fondamentalismo ha dichiarato guerra all'Occidente».
Perché c'è un'Europa che ha difficoltà ad ammetterlo?
«Per timore delle responsabilità e delle conseguenze che ne conseguono. L'Europa piuttosto cambia governi, ma non si assume responsabilità. Sono un uomo del dopoguerra, ho vissuto 60 anni di pace senza mai chiedermi chi la garantiva, e come me tanti altri non si sono posti questa domanda. Si è diffusa in Europa una cultura secondo la quale la pace è diventata una sorte di condizione naturale, un diritto divino, che deve essere conservata ad ogni costo. La Chiesa cattolica in questo ha delle responsabilità: un certo pacifismo ha contribuito a indebolire le difese culturali dell'Europa dai rischi che la minacciano. Ma l'omelia del cardinale Camillo Ruini per i caduti di Nassiriya testimonia che è in atto un importante ripensamento».
Come si può rispondere alla tentazione di neutralità?
«Per arginare la tentazione di neutralità la Chiesa cattolica dovrebbe agire con più convinzione. La stessa Chiesa che chiede a ragione l'inserimento delle radici cristiane nella Costituzione Europea dovrebbe farsi più interprete del bisogno di difendere la civiltà europea».
Crede che l'entrata nell'Unione Europea dell'Est ex comunista possa contribuire al rilancio del dialogo transatlantico?
«Sì, sono energie fresche, nuove. Si tratta di Paesi che hanno sofferto l'egemonia pesante e spesso feroce del comunismo. Temono altre egemonie e non a caso si sono schierati sulla guerra in Iraq dalla parte dell'America. Ciò contribuirà a trovare un equilibrio migliore nell'Ue ma non credo aiuterà l'affermarsi di una identità europea perché abbiamo ancora divergenze fondamentali».
Il fatto che l'Italia è considerata, assieme alla Gran Bretagna, il migliore alleato degli Stati Uniti non è a suo avviso una posizione politica scomoda?
«Ci dà molte responsabilità e ci espone a rischi drammatici. Tuttavia arriva un momento nella storia dei Paesi, come degli individui, in cui la logica diventa binaria: si sta o da una parte o dall'altra. Per questo apprezzo la fermezza assunta dall'Italia».
Eppure c'è chi osserva che senza tale fermezza oggi non vi sarebbero tre italiani in ostaggio della guerriglia in Iraq...
«Senza fermezza avremmo corso più rischi, non meno. Non credo che se l'Europa rinunciasse alle proprie responsabilità in Iraq si salverebbe dal terrorismo. Descrivere il terrorismo come un fenomeno transitorio o sporadico significa fare un'analisi molto ottimista che purtroppo non corrisponde alla realtà. Agli Europei dico: leggete Osama bin Laden e prendetelo sul serio».
Alcuni commentatori americani imputano l'appeasement europeo con il terrorismo alla crescita delle comunità musulmane. E' d'accordo?
«Molti Paesi europei hanno a che fare con un'opinione pubblica musulmana. Ci sono milioni di musulmani in Europa, un milione anche in Italia. Noi a questi cittadini abbiamo offerto tutto ciò che era possibile: le nostre Costituzioni, i nostri diritti, le nostre tutele, le nostre scuole. In cambio dobbiamo pretendere un po' di reciprocità. Il caso tipico e più eloquente è quello della Chiesa cattolica, che in Italia consente in nome della tolleranza la costruzione di una moschea accanto ad ogni Chiesa ed ogni parrocchia. Ma la stessa Chiesa cattolica è perseguitata in quasi tutti i Paesi arabi o musulmani. Non mi è chiaro perché l'Europa non si avvii verso questa riflessione».
Quali possono essere i motivi?
«Possono essere economici. La popolazione dell'Europa invecchia e diminuisce, ma vuole ugualmente garantirsi un livello di vita elevato con standard molto protetti e quindi ha bisogno economico degli immigrati. In cambio del loro lavoro ignora il resto».
Non teme che queste idee possano essere recepite come ostili agli immigrati musulmani?
«E' facile essere fraintesi, essere accusati di voler scendere in guerra con l'Islam. Ma non è questo il punto. La verità è esattamente l'opposto: se non ci assumiamo responsabilità, se non abbiamo politiche corrette sull'immigrazione, se non garantiamo una vera integrazione ai nuovi venuti, e allora sì che le tensioni aumenteranno».
Il candidato democratico John Kerry ha affermato che la guerra al terrorismo «non è uno scontro di civiltà ma fra civiltà e fanatismo». E' d'accordo?
«Ciò che temo è che l'espressione "fanatismo" sia solo politicamente corretta e tesa a non dire esattamente di cosa si tratta. Presumibilmente lo scontro è con qualcosa di più del "fanatismo" di gruppi minoritari o sporadici. Si tratta di un fenomeno assai più diffuso e profondo».
La tesi della guerra di civiltà fra Occidente ed Islam di Samuel Huntington è più realistica?
«Mi chiedo perché l'Europa abbia rimosso questa analisi, vecchia oramai di 12 anni. Sarebbe invece responsabilità dell'Europa prendere sul serio le tesi di Huntington».
Oggi vedrà Cheney alla Casa Bianca, in agenda avete anche il passaggio dei poteri in Iraq...
«Gli Stati Uniti adesso riconoscono che è necessario un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale tramite le Nazioni Unite. Si tratta di un cambiamento importante da parte americana, che ruota attorno al sostegno del piano dell'inviato Lakhdar Brahimi».
Come può l'Unione Europea aiutare la missione di Brahimi?
«Se Brahimi avrà successo ed una risoluzione Onu sancirà il passaggio dei poteri sarebbe incomprensibile il ritiro dell'Europa, bisognerà anzi contribuire in forze al contingente multinazionale. Dopo la nuova risoluzione Onu mi aspetto che anche coloro che hanno sollevato obiezioni contro l'unilateralismo americano appoggino la forza multinazionale. Sarebbe importante se l'Europa ricorresse ai suoi buoni uffici per spingere le nazioni arabe a partecipare al mantenimento della sicurezza».
Mandare soldati dopo la transizione in presenza delle attività della guerriglia non significa mettere a rischio le loro vite?
«E' una decisione difficile da prendere, per chiunque. Ma deve essere messa su una bilancia. A mio avviso è più rischioso tornare a casa che andare in massa assieme ai Paesi arabi. Il ritiro fra l'altro esporrebbe migliaia di iracheni che hanno creduto nella fine del regime di Saddam al rischio di vendette come in Ruanda».
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