Scenari in Israele dopo il voto del Likud una analisi e qualche ipotesi
Testata: Il Foglio Data: 05 maggio 2004 Pagina: 1 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «La vittoria della destra su Sharon si può rivelare un autogol»
Nell'edizione di oggi Emanuele Ottolenghi scrive delle conseguenze politiche del referendum del Likud in Israele e spiega come mai al momento il ritiro da Gaza sia l'unica opzione praticabile. Ariel Sharon ha perso il suo referendum di partito, sconfitto da un astensionismo in parte influenzato dalla barbara uccisione di una donna incinta e dei suoi quattro bambini nella giornata di domenica proprio nella Striscia di Gaza che il premier vorrebbe lasciare unilateralmente. Di fronte alla ferocia dell’omicidio molti elettori incerti sono rimasti a casa, persuasi che l’argomento presentato dalla campagna contro il ritiro – "premia il terrorismo" – fosse confermato dai fatti. Ora tutto è più difficile. Gli oppositori del ritiro sono in maggioranza ideologi della Grande Israele. Non concepiscono alcun ritiro, in nessuna circostanza. La maggior parte degli attivisti che nelle ultime quattro settimane stavano agli incroci, ai semafori e ai raccordi stradali a distribuire adesivi e materiale elettorale non sono nemmeno membri del Likud. Sono legati agli insediamenti, alla destra radicale, religiosa e laica, che vede l’abbandono anche solo di Gaza come anatema e lo legge in chiave apocalittica. Il loro impegno ha avuto un enorme impatto e ha mostrato come una piccola minoranza ben organizzata e ideologicamente motivata può sabotare i piani politici di un primo ministro e di un presidente americano. Il loro futuro resta difficile. Potrebbero spodestare Sharon e sostituirlo con leader più ideologicamente puri; vorrebbero che il Likud tornasse alle sue origini di partito della Grande Israele. Per questo hanno dichiarato guerra a Sharon: la sua svolta centrista spiega il successo del Likud nelle ultime elezioni, ma anche l’alienazione dei suoi vecchi alleati, perché con l’annuncio della sua intenzione di ritirarsi da Gaza e di accettare il principio di uno Stato palestinese, Sharon ha tradito le sue origini politiche e l’ideologia fondatrice del partito da lui creato. Ma la forza attuale del Likud non si fonda sul purismo ideologico, né la destra radicale è numericamente determinante: Sharon ha perso sì, ma 60 mila voti (contro i quasi 40 mila che lo hanno sostenuto) non contano tanto alle elezioni o in un referendum popolare. Sharon e i suoi avversari lo sanno. Il premier si sente ancora forte dell’appoggio del grande pubblico, altrimenti si sarebbe probabilmente dimesso. Il suo errore – ma se avesse vinto, di acume si sarebbe trattato – è stato, oltre che di non fare campagna, di dare ai soli membri del suo partito una voce in capitolo sul futuro del paese. Il che ha permesso alla destra a lui contraria di presentare lo scontro come una lite di famiglia. Se si arrivasse a un referendum nazionale o a elezioni anticipate, la frattura tra Sharon e i suoi vecchi alleati della Grande Israele sarebbe insanabile. I coloni e chi li sostiene lottano per il loro futuro ideologico e per le loro case: nulla diventerebbe proibito in una simile campagna e considerando il precedente politico – quando la stessa macchina propagandistica si mise in moto per affondare il processo di Oslo e il suo principale fautore Itzhak Rabin – si capisce come nessuno desideri lo scontro frontale, se si può evitare. Sharon non ha scelta. Il suo governo ora è spaccato, il suo partito cova la rivolta, l’opposizione è imbaldanzita, l’alleato americano è offeso per aver sprecato tanta credibilità su un piano che è affondato al primo scoglio, la procura generale sta per decidere se perseguire il primo ministro. Non c’è più tempo per balletti e piroette. Sharon potrebbe cercare di forzare la mano al governo e far votare il piano all’esecutivo prima e al Parlamento poi. Ma anche se vincesse – e dopo domenica sembra che Sharon non abbia la maggioranza nel gabinetto – la coalizione si frantumerebbe. Temporeggiare non serve, perché se votare su Gaza costerà a Sharon la destra del governo e parte del suo partito, l’immobilismo gli costerà la sinistra del governo: Shinui sa che una ritrattazione del piano causerebbe molte defezioni elettorali a favore di partiti di centro e di sinistra. Se il Likud ritorna nelle mani degli ideologi, chi ci guadagna sarà prima di tutto Shinui. Tra elezioni anticipate e stallo del piano di ritiro, Shinui preferisce unirsi all’opposizione e mandare Sharon a casa anzitempo. L’opposizione affila i coltelli, sperando in un dono del caso: condannata ai margini della politica da una mancanza di leadership, di idee e di risorse, la sinistra potrebbe ritrovarsi catapultata al potere. Il problema di fondo però rimane quale sia il percorso da seguire: in questa particolare congiuntura storica, il ritiro unilaterale sembra la miglior opzione per Israele. Diventa una questione di volontà politica Diventa dunque una questione di volontà politica oltre che di numeri: Sharon ha perso in passato, ma ha sempre saputo risollevarsi e ottenere quel che voleva. Dipende se Sharon intende andare fino in fondo, anche a costo di sacrificare gli interessi del suo partito e l’unità della destra. In quel caso, il primo ministro troverebbe una maggioranza parlamentare e una popolare. Altrimenti il testimone passerebbe alla sinistra, la cui visione di ritiro unilaterale sarebbe molto peggiore per chi il referendum di domenica ha sabotato: sconfiggendo Sharon la destra finirebbe col favorire non la Grande Israele ma un ritiro unilaterale molto più esteso, con perdita di molti più insediamenti di quanti Sharon ne abbandonerebbe. Sarebbe la stessa ironia della sorte toccata a Binyamin Netanyahu, tradito nel 1998 dalla stessa destra massimalista, che spodestandolo finì col far vincere la sinistra e aprì la strada a Ehud Barak e al suo piano di Camp David. I peggiori attori della pièce sono come sempre i palestinesi. Fino a ieri si sgolavano contro il ritiro unilaterale. Ora, dopo che l’attacco terroristico di domenica ha aiutato chi il voto ha vinto, si sgolano dicendo come il risultato sia motivo di grande delusione. Ma un motivo di soddisfazione ce l’hanno. Likud è riuscito in un giorno a fare quel che loro non son riusciti a fare in quattro anni: mettere in crisi il rapporto tra Sharon e Bush e danneggiare l’accordo che Sharon era riuscito magistralmente a strappare a Washington. La speranza dei palestinesi di neutralizzare i termini del patto – che riconosceva l’irreversibilità di alcuni insediamenti e negava la praticità di assorbire rifugiati palestinesi in Israele – è stata ravvivata dagli attivisti della Grande Israele. Per la prima volta in tre anni, Sharon ha perso e appare debole. La sua scelta rifletteva una svolta pragmatica. Molti ritengono che il ritiro israeliano sia in ultima analisi inevitabile, e che questo voto lo abbia solo rimandato. In parte è vero, anche perché molti iscritti del Likud hanno votato contro o sono stati a casa non per dedizione ideologica a Gaza ma per non darla vinta al terrorismo. Ma non bisogna mai sottovalutare il potere seduttore dell’ideologia e la forza mobilitante di una minoranza fanatica. Sharon e il suo piano rappresentano un’occasione unica per sbloccare l’impasse. La sua uscita di scena lascerebbe un vuoto di leadership dietro al premier, e con l’agenda politica della destra in mano alla sua ala radicale, il rischio è che l’abbraccio mortale nei territori si prolunghi ancora. La prossima mossa è di Sharon: se la sua dedizione al paese e al suo futuro è sincera, tocca al premier avere il coraggio di chiudere l’alleanza con la destra radicale traghettare il suo partito – o se stesso se partito non vorrà seguirlo – al centro della mappa politica. O abbandonare la nave al suo destino e ritirarsi con onore da quella che forse è stata la più importante e peggio condotta battaglia della sua lunga carriera di guerriero. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.