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Il Foglio Rassegna Stampa
04.05.2004 Dopo il referendum
un'analisi sulle strategie del premier Sharon

Testata: Il Foglio
Data: 04 maggio 2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: «Sharon si sente scottato ma non sconfitto, farà in qualche modo da solo»
Riportiamo dal Foglio, in prima pagina, un'analisi sulla risposta negativa al referendum sul ritiro unilaterale da Gaza e sulle possibili future mosse del governo.
Ritocchi al piano su Gaza-Roma. Contro il partito dei coloni ce l’avrebbe anche fatta, nonostante l’orrendo agguato dei terroristi palestinesi a una colona incinta e alle sue quattro figlie, non ce l’ha fatta contro un regolamento di conti interno, non ce l’ha fatta contro i quadri mediocri del partito, quelli che di conservazione, e di guerra, pensano di sopravvivere, ma che francamente si sono anche spaventati delle dimensioni del gesto. E’ la prova dell’enormità, della grandiosità, del piano, altro che tatticismo, complice Bush, che è diventato talmente dirimente da spaccare un partito di governo; è anche la prova che Ariel Sharon il suo partito lo ama, ma lo sfida, a modo suo, da guerriero, ma soprattutto da stratega coraggioso, qualche volta sprezzante, prepotente, nel modo antagonistico con il quale ha fatto carriera nell’esercito, ma che se finora aveva praticamente vinto sempre, domenica ha perso, e come scrive il saggio Jerusalem Post, è finita l’era del movimento obbediente, al servizio del leader, com’era ai tempi di Jabotinsky. Begin, Shamir, fino a Netanyahu. Il no, 60 a 40, del Likud al ritiro unilaterale da Gaza e da una parte di West Bank, costringe il premier israeliano a una fermata che non aveva previsto, ma non cambia nella sostanza i suoi progetti, chi gli sta vicino assicurava ieri al Foglio che si sente scottato ma non sconfitto, che è certo che in un referendum popolare verrebbe dimostrato che quelli che lo hanno eletto, un milione e 700 mila israeliani, sono con lui, e con Bush. Di più, che il Likud miope che domenica ha affossato il piano di ritiro, considerato dalla maggioranza degli elettori una misura seria di sicurezza, stabilità di confini, relativa pace, rischia ora, sondaggi popolari alla mano, la rabbia e il rigetto degli elettori, e che a lui, Sharon, non c’è alternativa. Che alla fine i capi bastone che hanno animato la congiura, o restandosene a casa o agitando il voto perduto dei coloni, dovranno rimangiarsi tutto. Tuttavia l’immagine del premier oggi è inevitabilmente appannata, tuttavia un errore lo ha commesso di certo, ed è di presunzione, non andare direttamente al referendum popolare, che certo avrebbe richiesto del tempo di organizzazione e di legislazione, perché era convinto di spuntarla più rapidamente con i quadri di partito. Non è stato così, e probabilmente, che decida o no di ritoccare cosmeticamente il piano di ritiro, il primo ministro ora deve affrontare un momento difficile. Intanto a votare c’è andato solo il 40 per cento del comitato centrale, gli altri sono rimasti a casa; di questo 40 per cento più della metà ha detto di no, che vuol dire non prendersi la responsabilità di una scelta troppo importante, di sancire la fine del sogno del grande Israele. Bush non cambia idea, si riunisce il Quartetto Non si apre per questo un problema di relazioni con gli Stati Uniti, Bush non cambierà idea, anche se il piano gli era stato venduto per fatto, e questo crea al presidente un doppio problema di immagine: 1) ha creduto a un progetto che ha fallito alla prima prova ufficiale, 2) la sua copertura è stata snobbata dai quadri del Likud; nemmeno cambierà nulla nella riunione di oggi a Washington, che vede un po’ di convenuti alla veglia della fu road map, visto che idee nuove e interlocutori palestinesi autorevoli e autorizzati non ce ne sono. Il problema immediato e urgente è tutto interno al governo israeliano, agli alleati più vicini. Escluso il vice, Ehud Olmert, non è azzardato affermare che buona parte dei ministri erano contrari al ritiro, e hanno gradualmente ceduto all’imperio del capo, convinti dai successi delle operazioni contro i capi del terrorismo, dalla constatazione che non sarebbe stato un ritiro vergognoso, umiliante, come quello deciso dal laburista Ehud Barak dal Libano, che sarebbe stato accompagnato alla costruzione della barriera di sicurezza, che in fondo a pagare il prezzo della pace sarebbero stati solo 7.500 coloni, una parte minima degli abitanti d’insediamenti nella West Bank. Che, infine, a Yasser Arafat sarebbe caduta la maschera, costretto come sarebbe stato a gestire Gaza contro Hamas. Gli ultimi due ministri avevano ceduto solo dopo il successo dell’eliminazione di Rantisi, capo di Hamas, che ha seguito di poco quella dello sceicco Yassin. Ora tornano cauti e dubbiosi, si fanno invece arroganti gli alleati esterni, il partito religioso, quello dei coloni. Né Arik può fare il minimo affidamento su un’opposizione laburista, sfatta e intrisa di propaganda. Farà in qualche modo da solo.
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